LA DISTRUZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO IN ITALIA

•ottobre 26, 2020 • Lascia un commento

  L’origine dell’attacco alle condizioni materiali di esistenza delle masse popolari da parte della Borghesia Imperialista che ha portato nel nostro paese la distruzione del diritto del lavoro è la crisi del sistema capitalista iniziata all’incirca alla metà degli anni Settanta. La caratteristica di questa crisi si possono riassumere nel fatto che la crisi è generale (cioè nasce come crisi economica e poi si trasforma in crisi politica e culturale), di lunga durata e coinvolge tutto il mondo, cioè riguarda, sia pure con tempi e intensità diversa, tutti i paesi del mondo.

   È di dominio pubblico che i paesi semicoloniali e dipendenti vengono ricolonizzati, che i governi raddoppiano e triplicano i prezzi dei beni essenziali,  che milioni di persone sono cacciate dai loro paesi e costrette all’emigrazione.

   In Italia nel periodo che va dall’inizio degli anni Novanta (dove – non certamente a caso – ha operato in funzione di guerra ortodossa la Falange Armata) fino ad oggi, è stato anche (e non sarà certo un caso) quello della demolizione del diritto del lavoro e delle conquiste che i lavoratori italiani le avevano ottenute dal secondo dopoguerra dopo dure lotte.

   C’è stato anche il cambiamento del significato delle parole in uso. Fino all’altro ieri per riforme s’intendeva miglioramento (certamente graduale) delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, da un certo periodo in poi ha solamente significato un continuo e costante peggioramento. Se poi ci si opponeva a tali “riforme” ci si tirava dietro l’accusa di essere “conservatori” che si oppongono al “progresso”.

   Quest’attività di “riforma” e di abolizione del diritto del lavoro è stata portata avanti con l’apporto dei partiti di sinistra (compresi quelle definiti “radicali” come Rifondazione) e dai sindacati confederali.

   Ci sono state due modalità diverse per portare avanti questo tipo di attacco ai diritti dei lavoratori:

  • Da parte dei governi di Centro-Sinistra la “riforma” del diritto del lavoro deve avvenire di concerto con i sindacati confederali in modo da farla accettare ai lavoratori senza alcuna protesta.
  • L’orientamento dei governi di Centro-Destra, invece, prevedeva più l’immediato e diretto intervento del potere legislativo.

   In effetti, queste cosiddette “riforme” sono avvenute in prevalenza mediante accordi sindacali che, una volta consolidati ed evitato la protesta dei lavoratori, alla fine sono state consolidate.

   Agli accordi sindacali, è stato attribuito un vero e attribuito un vero e proprio ruolo normativo.

   Un esempio. In maniera di contratti a termine, la legge n. 56 del 1987 riconosceva ai sindacati la possibilità di derogare in peggio il divieto di apposizione del termine. Con tali accordi, il termine si poteva apporre liberamente ed anche all’attività ordinaria. In pratica, con gli accordi sindacali si legalizzava la violazione della legge. Una volta consolidatigli accordi ed evitato la protesta dei lavoratori, nel 2001 è stata emanata la nuova normativa sulla liberalizzazione del contratto a termine.

   Per il resto, basta confrontare la successione dei contratti collettivi per comprendere facilmente come i sindacati sottoscrittori hanno gradualmente introdotto la flessibilità e compresso, se non abolito, i diritti dei lavoratori.

   Il ruolo di CGIL-CISL-UIL è stato quello di far passare la “riforma” in peggio dei diritti dei lavoratori in silenzio e senza sorprese.

   A garanzia di tale ruolo, l’ordinamento e la giurisprudenza hanno riconosciuto a tali sindacati l’esclusivo riconoscimento di rappresentatività per legalizzare la loro preminenza rispetto a sindacati molto più conflittuali di loro.

SULLA FLESSIBILITA’

   La flessibilità la si fa ma non si dice. In 1.127 accordi sindacali sottoscritti tra il 1990 e il 1995 la parola compare solo su 137 documenti mentre esiste nei fatti molto di più di quanto compariva nei testi che venivano poi modificati. Flessibilità soprattutto negli orari. Ciò costituisce una linea guida che poi scatterà anche in tema di salario.

   Gli accordi gradino prevedono salari inferiori ai minimi previsti dai contratti.

   Un accordo gradino è stato stipulato nell’estate del 1996 per i tessili e costituisce una clausola aggiuntiva inserita nel C.C.N.L. del 1995. Con l’affermazione che “Gli accordi gradino salvano posti di lavoro e fanno aumentare al sindacato la presenza nei posti di lavoro” (Antonio Megale della CGIL Tessili). In sostanza sindacati e imprenditori tessili sono concordi nel ritenere che la clausola dei tessili dimostra l’approccio alle deroghe salariali risulti più efficace se affidato alle singole categorie e non imposto con intese centralizzate troppo condizionate da querelle politiche. Quello dei tessili è stato uno dei settori apripista nell’emersione del sommerso: nel 1996 aveva 30.00 addetti; 2.000 aziende; 10.000 addetti già emersi; 70 aziende emerse nel leccese, 20 a Martina Franca.[1]

   Altri accordi “brillanti” sottoscritti nel 1996: la CISL sigla un accordo territoriale a Brindisi in base al quale le nuove aziende possono pagare salari inferiori ai minimi contrattuali. La Barilla sottoscrive delle intese con i sindacati in base alle quali il personale è retribuito con un gradino inferiore a Melfi e Foggia. Il Contratto Collettivo nazionale del Legno prevede per i nuovi assunti stipendi inferiori del 20%. Mentre il Contratto Collettivo nazionale Lapidei e manufatti hanno allungato il periodo di avviamento da due a cinque anni.[2]

I   n base all’art. 36 della Costituzione, ogni lavoratore deve percepire una retribuzione in misura comunque sufficiente per garantire una vita libera e dignitosa per sé e alla sua famiglia. Tale misura è stata individuata nei minimi sindacali stabiliti dalle singole contrattazioni collettive nazionali.

   Il primo intervento per ridurre la retribuzione dei lavoratori è stato quello di non aumentare più i suddetti minimi, ormai fermi da oltre venti anni. Ciò è avvenuto con la complicità dei sindacati confederali e dei governi di Centro-Sinistra (con dentro la sinistra cosiddetta “radicale”).

   Le altre azioni sono state le più svariate.

   Con gli accordi gradino, come si diceva prima, è stato previsto un salario d’ingresso inferiore per i primi anni di lavoro. Questo tipo di azione, essendo anticostituzionale per violazione del diritto di uguaglianza, era prevista solo per qualche anno e in via transitoria invece dura dal 1990 perché è sempre stata prorogata.

   Con la leggi sui Lavoratori Socialmente Utili (LSU) di cui il decreto legislativo 468/98, lo Stato e gli enti pubblici possono assumere personale precario senza tutele e con garanzie ridottissime per la realizzazione di opere o fornitura servizi, con contratti temporanei e a scadenza. L’art. 8 esclude espressamente che tale personale possa essere considerato come lavoratori subordinati.

   Con i Contratti d’Area e i Patti Territoriali si sono introdotte forme di assunzione e retribuzione precaria. Nonostante tali azioni consistano in strumenti di finanziamento statale delle attività produttive, con il beneplacito di CGIL-CISL-UIL sono state introdotte politiche per la riduzione dei salari e per nuove forme di lavoro meno garantito e meno tutelato. I Contratti d’Area sono previsti dall’accordo per il lavoro del 24.09.1996 (Governo Prodi) per le aree industriali in crisi e ad alto tasso di disoccupazione, mentre i Patti Territoriali sono stati introdotti con le leggi nn. 104/95 e 662/96 per tutto il territorio. In realtà questi strumenti che riducono le tutele dei lavoratori sono stati applicati anche in zone non in difficoltà, come Pavia, Trieste, Crema. Un posto di lavoro creato con tali strumenti costa allo Stato 300.000€, quindi per gli imprenditori è quasi a costo zero. Ciò ha prodotto nuova occupazione precaria e con reddito insufficiente ed è stata un’operazione di sostituzione dei lavoratori a costo intero con quelli a costo ridotto.

   Con l’uso indiscriminato dei Contratti di Formazione si è provveduto all’assunzione finanziata di lavoratori per un massimo di due anni con il ricatto per essere confermato il rapporto a tempo indeterminato.

   Ora l’istituto è stato sostituito con le varie forme di apprendistato della durata di quattro anni ed applicabile liberamente anche a lavoratori qualificati (ingegneri, tecnici ecc.). Come apprendisti, i lavoratori svolgono un lavoro qualificato ma sono retribuiti secondo livelli d’inquadramento inferiori.

Per quanto riguarda, la flessibilità occupazionale che abolisce la garanzia di stabilità con il Decreto Legislativo 368/2001 e la Legge 133/2008 è stata introdotta la libertà dei Contratti a termine con i quali si ottiene lo stesso risultato della totale libertà di licenziamento in favore dei padroni: stipulando ripetuti contratti a termine o brevissimo termine mensile o settimanale il lavoratore deve sottostare ai ricatti datoriali, per non ottenere il rinnovo e rimanere disoccupato e senza reddito.

   Con la legge 428/90 è possibile licenziare i lavoratori in caso di cessione di azienda per assumere altri a condizioni più svantaggiose.

   Nei casi in cui non interessa la cessione di azienda, la flessibilità è attuata mediante la pratica dello “svecchiamento” che consiste nel porre in cassa integrazione i lavoratori garantiti per indurli alle dimissioni stante il ridotto ammontare dell’assegno rispetto allo stipendio ed i limiti imposti al cassintegrato. I lavoratori con maggiore anzianità sono posti in mobilità lunga per la pensione anticipata. In entrambi i casi, cassa integrazione e mobilità con prepensionamento, i costi sono a carico dello Stato e il datore si libera di quei lavoratori garantiti per assumere nuovo personale a condizioni peggiori.

   Con l’operazione “svecchiamento” il datore di lavoro ottiene anche un altro obiettivo: liberarsi del personale “anziano” anche se efficiente per assumere personale giovane, “fresco” di studi, proprio come avviene con un computer funzionante ma sostituito con un altro di ultima generazione.

La legge Biagi del 2003 ha introdotto ulteriori forme di flessibilità, tra cui: contratti a progetto, a chiamata, lavoro intermittente, a somministrazione, ripartito, accessorio, il distacco, il trasferimento, appalto di manodopera, cessione di ramo d’azienda.

   Tutte queste tipologie comportano una retribuzione inferiore, un’insicurezza del posto di lavoro, la mancanza di copertura delle ulteriori forme di retribuzione, come quella collaterale e differita (tredicesima, quattordicesima, ferie, TFR), ed assicurativa (malattie, maternità, previdenza, indennità di disoccupazione).

   Fino alla serie di leggi che il Governo Renzi, ha varato che sono raggruppate col nome di Jobs Acts che sono un sistema di ricatto permanente a favore dei padroni e contro i lavoratori e le lavoratrici.

   Infatti, questo ricatto procede su due gambe: quella dei contratti a termine a casuali (per cui il padrone può assumere a termine quando vuole e per il tempo che vuole) e quella dei contratti a tutele crescenti (per cui il padrone può assumerne a tempo indeterminato, ma licenziare quando e come vuole pagando una miseria di indennità)

   Tutti questi interventi sindacali e legislativi hanno avuto come conseguenza che in Italia la forza lavoro è tonalmente svalorizzata. Con il ricatto della disoccupazione di massa e con il lavoro nero (che nella sostanza con questi interventi sopra descritti è stato legalizzato), il padronato ha abbassato anno dopo anno i salari.

   I bassi e bassissimi salari cono la carta che i padroni italiani e i loro governi giocano sul tavolo della competitività contro gli altri capitalisti europei e mondiali.

   Per questo motivo anche in città come Milano c’è gente che lavoro per 3-4-3 euro l’ora!

   Per questo motivo un fronte unitario di lotta e di massa dovrebbe battersi che ci sia una paga oraria che non sia inferiore a 9€ l’ora (niente di estremistico è la media della paga base oraria europea) e un salario minimo garantito per i disoccupati che non sia inferiore almeno a 1.250€ mensili.

   In sostanza bisogna combattere il sottosalario, contro la condizione sempre più schiavistica imposta dal padronato e dalle leggi dello Stato, contro l’attacco alla dignità dei lavoratori e delle lavoratrici.

INCIDENTI E INFORTUNI SUL LAVORO

   Secondo dati ufficiali (molto inferiori alla realtà) i morti ufficiali sul lavoro sarebbero oltre 1.000 all’anno. In questa cifra sono compresi solo i lavoratori che muoiono in seguito ad un incidente violento entro i primi cinque giorni.

   Sono quindi escluse, tutte le morti successive ai cinque giorni e quelle causate da malattie contratte sul lavoro.

   Perciò questo numero aumenterebbe a diverse migliaia di morti all’anno. Una vera propria guerra che la Borghesia sta effettuando contro i proletari.

   Qual è la causa degli incidenti sul lavoro e quali potrebbero essere le soluzioni?   Una delle cause è la mancata predisposizione di mezzi e sistemi infortunistici ritenuti dalle aziende troppo costosi oppure elementi che frenano la produttività. Il motivo fondamentale di quest’atteggiamento delle aziende risiede nella legge economica del sistema capitalistico della competitività: la riduzione dei costi di produzione.

   Non applicare mezzi e sistemi anti infortunistici significa risparmiare soldi, quindi aumentare i profitti.

   Un’altra causa è l’aumento dei ritmi di lavorazione. La produzione aumenta con l’aumento della velocità di lavorazione.

   È un dato economico che un prodotto è tanto più competitivo quanto viene fabbricato nel minor tempo possibile. La velocità della lavorazione, però, non permette di rispettare le regole di sicurezza. Non permette di effettuare un lavoro con attenzione e precisione. Ciò crea motivo di incidenti ed infortuni.

   Un esempio è quanto sì e registrato nei supermercati della grande distribuzione, dove i commessi dovevano correre su pattini a rotelle per rifornire gli scafali.[3]

   Inoltre, aumentare i ritmi di lavoro e ridurre e abolire le pause (si potrebbe definire il “modello Marchionne” fatto di diminuzione pause, cassa integrazione e straordinari)[4] ed i riposi, tutto ciò significa maggiore produzione ma anche maggiore rischio di incidenti per stanchezza e mancanza di lucidità.

   Egli ultimi anni è aumentato anche il numero dei lavoratori minorenni, finanche bambini. In Italia si stima che nel 2013 erano 260.000 i minori sotto i 16 anni coinvolti, più di 1 su 20.[5]

I minorenni sono i più esposti agli incidenti e alla contrazione di malattie professionali vista la loro debole condizione fisica e la mancanza di esperienza e preparazione professionale. E chi fa lavorare i bambini viola, la legge sul diritto del lavoro, figuriamoci quelle sulla sicurezza.

I governi italiani – nel 1997 quello di Centro-Sinistra (appoggiato da un grande “comunista” come Bertinotti) e nel 2003 quello di Centro-Destra hanno abolito il limite dell’orario giornaliero fissato nel 1924 in otto ore. In base alla legge n. 66/03, un lavoratore può essere obbligato anche 16 ore al giorno senza alcun aumento di retribuzione. Quello che non ha fatto il fascismo storico al governo (ma all’epoca c’era un Movimento Comunista Internazionale degno tal nome con dirigenti come Lenin non intellettuali da salotto arrivati ai posti dirigenti grazie ai revisionisti come Ingrao), lo ha fatto il tecno-fascismo attuale con la complicità di tutti i partiti politici di centro, destra e della sinistra borghese (e dei sindacati che praticano la collaborazione di classe).

   Il limite della giornata di 8 ore è stata una grande conquista dei lavoratori sugellata con gli eccidi proletari del 1° maggio.

   La richiesta di limitare la giornata lavorativa al massimo di otto ore era motivata che più ore di lavoro provocavano maggiore stanchezza psico fisica. A causa della stanchezza avvenivano maggiori incidenti.

   La stessa legge n. 66/30 che ha abolito le otto ore, prevede che possono beneficiare di una pausa di 15 minuti per il riposo solo coloro che svolgono un lavoro ripetitivo e solo dopo le prime sei ore di lavoro. Pausa che non costituisce un diritto del lavoratore ma una concessione del datore di lavoro. Se il lavoratore decide di utilizzare la pausa dopo sei ore di lavoro contro la volontà del datore di lavoro, è passibile di sanzione disciplinare per insubordinazione che può essere punita con il licenziamento.

   È chiaro che il lavoratore evita di riposarsi per non perdere il posto di lavoro.

   Ma è anche chiaro che la stanchezza e la perdita di lucidità provocano incidenti la cui colpa viene posta sempre a carico del lavoratore, ritenuto disattento.

   Questi sono gli effetti della legislazione italiana.

   Pertanto, non si può parlare di soluzione della problematica degli infortuni se non si aboliscono queste leggi, se non si abolisce la legge n. 66/03, se non si affronta la questione dei ritmi di lavoro.

   Le imprese, per risparmiare sui costi, non predispongono adeguati mezzi, né attrezzature antiinfortunistiche. Sempre per risparmiare sui costi, gli imprenditori assumono personale non specializzato e senza esperienza in modo da pagarli di meno. La mancanza di conoscenze e d’informazioni è una causa degli incidenti.

   Le imprese che ricorrono maggiormente a questi espedienti sono quelle pressate dal contenimento dei costi rispetto agli introiti stabiliti da un appalto.

   Il prezzo con cui un’impresa concorre per l’aggiudicazione di un appalto è frutto di un calcolo complessivo dei costi di esecuzione. Quanto più riduce i costi, maggiore è la possibilità di aggiudicarsi la gara di appalto.

   I costi che in genere sin riducono sono proprio quelli destinati alla sicurezza poiché ritenuti non produttivi. La conseguenza è l’esposizione agli incidenti.

   Esposizione che aumenta vertiginosamente con i subappalti. In questi casi la riduzione del costo dei costi è ancora maggiore perché il subappaltante ottiene per il medesimo lavoro un prezzo di prezzo di appalto minore. Il subappaltante per ricavare degli introiti deve risparmiare sui lavoratori e sulla loro sicurezza.

   Appare chiaro che un terreno di lotta sta nell’abolire tutte le leggi e le norme che permettono il subappalto e disporne il divieto totale.

   Il subappalto è stato sempre una causa degli incidenti sul lavoro, inoltre, ha fatto riemergere la figura del caporale che era stata vietata dalla Legge 1369/60.

   Ebbene, prima della Legge Treu (approvato da quel grande “rivoluzionario” che era Bertinotti), poi con la Legge Biagi si è abolita la Legge 1369/60 e liberalizzato gli appalti e i subappalti di manodopera e legalizzato in sostanza il caporalato con il lavoro interinale e a somministrazione.

   I lavoratori assunti con contratti flessibili e precari, come il lavoro a termine, part time, a progetto, a chiamata ecc. sono maggiormente esposti agli infortuni. La loro condizione di riscattabilità li obbliga a non protestare e ad accettare lavorazioni pericolose o, comunque faticose, compresi i ritmi elevati e senza sicurezza.

   Pertanto, non è vero che le istituzioni vogliono eliminare le stragi sul lavoro. I partiti e i governi sono stati promotori (o comunque non si sono contrapposti) di leggi che facilitano e aumentano gli incidenti sul lavoro.

   Quindi, finché esisterà questo sistema economico che si basa sullo sfruttamento delle persone, il problema degli infortuni non sarà mai risolto ed i lavoratori saranno destinati a rischiare la vita.

   Ma, intanto è importante ed obbligatorio combattere affinché siano abolite tutte quelle leggi che facilitano gli incidenti e gli infortuni. Quindi occorre immediatamente ottenere l’abolizione della legge n. 666/03 e ristabilire l’orario massimo di lavoro a otto ore per cinque giorni a settimana (e ovviamente se si hanno i rapporti di forza sufficienti lottare per ulteriori riduzioni di orario senza perdita di salario); l’abolizione delle leggi che permettono il subappalto e stabilire il divieto dell’appalto di manodopera e del caporalato; l’abolizione totale della legge Treu e della legge Biagi; l’abolizione della Jobs Act e di ogni forma di precarietà e flessibilità del lavoro.

   Il prezzo che i lavoratori stanno pagando non è solo una retribuzione inferiore o il licenziamento, ma la loro sopravvivenza fisica.

LA DELOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE

   Gli imprenditori italiani hanno deciso di confermare la loro politica aziendale che prevede il licenziamento degli operai, la chiusura delle fabbriche in Italia ed il loro trasferimento nel Tricontinente o nei paesi dell’ex “campo socialista” (pensiamo che al 31 dicembre 2014 risultavano in Romania ben 18.433 imprese italiane).[6]

   Questa politica di licenziamento e trasferimento delle fabbriche è a completamento di quanto gli industriali hanno già fatto negli anni ’90 e che ha comportato il licenziamento di migliaia di lavoratori.

   Tutto questo è avvenuto ed avviene nonostante l’aumento delle commesse e la concessione di enormi benefici e finanziamenti pubblici in favore degli industriali per garantire l’occupazione.

   Le imprese italiane, infatti, hanno beneficiato di enormi aiuti finanziari e agevolazioni per creare e mantenere l’occupazione in Italia. La concessione di finanziamenti, immobili, stabili, infrastrutture, macchinari, sgravi fiscali, è stata la costante di questi aiuti.

   Quasi sempre gli industriali occupavano un numero di dipendenti inferiore a quello per cui beneficiavano degli aiuti.

   Spesso gli industriali, cambiando solo il nome dell’impresa e mantenendo le medesime strutture, macchinari e dipendenti, beneficiavano di ulteriori finanziamenti come se fosse una nuova azienda che dava occupazione.

   In maniera ricorrente, gli industriali assumevano i lavoratori con contratti precari per risparmiare sul costo della manodopera. Molte volte si è scoperto il pagamento con la doppia busta paga: una fittizia secondo i minimi salariali quale documentazione per ottenere i benefici pubblici e un’altra reale, riportante un importo inferiore che era corrisposto al lavoratore.

   A partire dal 1993, gli industriali italiani hanno cominciato a trasferire la produzione all’estero (coincidente l’aperta e dichiarata restaurazione capitalista nei paesi dell’Est), iniziando dall’Albania (storico terreno di caccia dell’imperialismo italiano), grazie ad accordi e concessioni effettuati dal governo italiano.

   In conformità a questi il governo italiano finanziava la chiusura degli stabilimenti in Italia, finanziava l’apertura all’estero. Lo Stato italiano, sempre in conformità a questi accordi, non richiede agli industriali nemmeno le tasse e i dazi di ritorno dei prodotti dall’estero. L’operazione è chiamata TPP (Traffico di perfezionamento Passivo).

   Con successivi accordi governativi, gli industriali hanno aperto stabilimenti, nell’Est Europa, in America Latina, in Africa e in Asia.

   Il principale, se non unico, motivo del trasferimento è costituito dallo scorso costo della manodopera. In Albania un operaio è pagato sulla media tre euro il giorno, mentre in Bulgaria (sempre sulla media) con soli 70 centesimi

   Non c’è mai stata nessuna riduzione delle commesse. La crescita delle imprese e la produzione. È aumentata la percentuale di vendita del prodotto, e i mercati, con relativo aumento di fatturato, di capitale e di profitto (ma di posti di lavoro in Italia).

   Anzi. Le aziende del settore interessato che nel 1990 avevano in tutto 700.000 operai in Italia, fino al 1998 hanno portato all’estero la lavorazione, operando 330.000 licenziamenti.

   Gli industriali non solo non hanno portato il lavoro fuori dall’Italia, ma non hanno fatto rientrare nel paese i profitti ottenuti. Questi profitti prendono la via dei paradisi fiscali, dei fondi pensione, dei fondi di investimento in altri paesi.

   La delocalizzazione ha coinciso largamente con l’esplosione della “fuga dei capitali all’estero”. Dei profitti ottenuti, solo nel 1998 sono stati esportati all’estero 80 mila miliardi di lire, pari a 41 miliardi di euro.

   Nei primi anni della delocalizzazione, gli industriali avevano mantenuto in Italia il 40-50% della produzione solo per limitare il rischio che si poteva determinare dalla realizzazione produttiva in paesi istituzionalmente ed economicamente non ancora sicuri (cosiddetto rischio Paese).

   Tale margine d’insicurezza è stato ridotto e quasi eliminato mediante l’intervento e la presenza militare italiana. Le forze speciali dell’esercito, dietro la scusa delle missioni di pace, garantiscono all’estero gli affari degli industriali italiani. Non è un caso che i militari italiani sono presenti in almeno 36 paesi e si parla addirittura, di sottoporli al comando del Ministero degli Esteri quale strumento di politica di espansione internazionale. La Marina Militare Italiana garantisce la scorta del trasporto merci.[7]

   Ora gli industriali che si apprestano a traferire quasi tutta la produzione lasciando in Italia solo il ciclo a più alto valore aggiunto (design, marketing ecc.).

   Oltre al trasferimento delle produzioni di beni si stanno delocalizzando anche le attività di servizi (per esempio i call center).

   Nonostante ciò, nonostante gli industriali abbiano da anni dichiarato a più riprese che chiuderanno gli stabilimenti, lo Stato continua ad elargire finanziamenti in loro favore anche per ammodernamento e ristrutturazione degli impianti affinché mantengano l’occupazione di operai, che invece, quasi sempre vengono messi in cassa integrazione e in mobilità.

   I finanziamenti sono elargiti anche a quegli industriali che sono stati più volte inquisiti per truffa ai danni dello Stato.

  Gli effetti di questa delocalizzazione, che in alcuni casi è definita “impetuosa”, sono facilmente leggibili. Nel “mitico” Nordest i laboratori contoterzisti che lavorano in subappalto sono stati sostituiti da aziende situate nell’Est Europa. Mentre nel più modesto Sudest, nel Salento in particolare, solo nel comparto calzaturiero si sono registrati dagli anni ’90 si calcola secondo dati prudenti sci siano stati almeno 13.000 licenziamenti.

  La chiusura delle fabbriche in Italia, il licenziamento dei lavoratori e il trasferimento all’estero è avvenuto ed il trasferimento con la complicità dei partiti e dei sindacati che non hanno perso il tempo a firmare accordi per la cassa integrazione e la mobilità.

  I sindacati non solo non hanno accennato ad una minima protesta, mentre venivano portati via i macchinari alla luce del sole, ma hanno fatto di tutto per convincere gli operai a subire le politiche aziendali poiché “esistono le supreme leggi del mercato”.

   Nessuna istituzione ha chiesto agli industriali la restituzione dei finanziamenti ottenuti con la scusa di creare e mantenere occupazione in Italia.

   La delocalizzazione è avvenuta e avviene in base ad accordi ed a norme emanate dallo Stato italiano che permette i licenziamenti in Italia ed invoglia il trasferimento all’estero.

   I padroni rimangono impuniti e continuano a speculare. Per loro la disoccupazione è un affare.

   Il trasferimento all’estero, come si diceva prima, avviene per sfruttare i bassissimi costi della manodopera. È evidente che non si può proporre a nessuno in Italia (almeno fino a oggi) di guadagnare asolo un euro il giorno. Altrettanto è chiaro che (almeno fino ad oggi ed è sempre bene ripeterlo) che un salario del genere difficilmente si può proporre nemmeno in Francia e in Germania. Il trasferimento avviene verso quei paesi ricattati dalla miseria, dalla fame e dalle guerre scatenate degli stessi paesi imperialisti occidentali.

   Pagare un operaio, un euro al giorno significa mantenerlo alla fame, nella disperazione più totale.

   Ecco perché queste popolazioni emigrano nei paesi imperialisti come l’Italia, essi scappano dalla fame generata dagli industriali occidentali (tra i quali molti italiani e padani). Gli stessi che licenziano nei loro paesi di origine (tra i quali l’Italia) creando così disoccupazione e marginalità (la criminalità diffusa è solo un prodotto di questi fenomeni sociali creati dai padroni).

   Gli immigrati sono vittime del medesimo disegno speculativo dei padroni.

  La questione dei licenziamenti e delle delocalizzazioni è collegata, quindi, a quella dell’immigrazione.

   La delocalizzazione, tra l’altro, è utilizzata per scardinare i diritti dei lavoratori.

  In pratica, si “invitano” i lavoratori ad accettare un lavoro flessibile, una drastica riduzione dei loro diritti e garanzie, dietro la minaccia di chiudere l’azienda trasferirla all’estero dove i lavoratori costano meno.

 Il messaggio che gli industriali danno ai lavoratori è chiaro: se accettate condizioni simili a quello che vivono i lavoratori del Tricontinente o quelli dell’Est europeo, la fabbrica non chiude e l’occupazione è salva.

  Partiti e sindacati non contrastano questa politica dando per scontato la “normalità” delle condizioni di lavoro dei lavoratori dei paesi esteri in cui si delocalizza.

   Con la guerra si afferma, demistificando e mentendo, di esportare quello che dicono di essere la “democrazia” (e i regimi che sorgono da queste aggressioni nella realtà sono solo dei satelliti e dei burattini degli imperialisti), con la delocalizzazione si vuole importare l’abolizione dei diritti dei lavoratori, si vuole scatenare la concorrenza e lo scontro tra lavoratori, tra italiani e immigrati.

   Questa tendenza deve essere invertita. Bisogna estendere a tutti i lavoratori, i diritti. L’internazionalismo non è solo un ideale, ma soprattutto una necessità concreta degli operai, il capitale agisce globalmente e globalmente deve agire la classe, un punto di partenza è stabilire dei collegamenti con i lavoratori degli altri paesi dove le aziende italiane sono andate a investire, per aprire lotte comuni dove si devono omologare (non al ribasso ovviamente) sia la parte salariale che quella normativa.

IL DIRITTO DEL LAVORO

   In quasi in tutto il mondo si fa risalire la nascita del diritto al periodo dell’impero romano. Già duemila anni fa, infatti, erano state descritte ed elaborate le varie branche del diritto, per esempio quello del matrimonio, dell’eredità, dei contratti, della proprietà ecc. L’unica branca che nel diritto romano non esisteva era quello del diritto del lavoro. Ai lavoratori non era riconosciuto nessun diritto.

   Il diritto del lavoro nel diritto romano non esisteva se non come proprietà dello schiavo. In sostanza, il lavoratore, era paragonato a un attrezzo, a una macchina di lavoro, che il padrone poteva disporre a suo piacimento. Lo poteva usare, spostare, abbandonare e vendere come voleva.

   Anche dopo l’impero romano, la condizione di schiavitù è continuata senza che ai lavoratori fosse riconosciuto alcun diritto da tutte le legislazioni del mondo.

   Solo nel XVIII secolo si sono si sono registrati i primi sporadici interventi per frenare alcune situazioni schiavistiche, mentre le prime elaborazioni di diritto del lavoro sono nate tra il 1800 e il 1865.

   Tale periodo noto come rivoluzione industriale, vede la borghesia affermarsi definitivamente come classe egemone dal punto di vista politico, subentrando a quella feudale.

   Durante la rivoluzione industriale le condizioni di lavoro degli operai di fabbrica furono molto pesanti, anche l’assoluta mancanza di ogni tutela dei loro diritto e per il divieto imposto dai governi di associarsi per ottenere miglioramenti salariali e normativi.

   La giornata lavorativa era di quattordici ore e spesso fu portata a sedici. La disciplina in fabbrica era ferrea: le macchine dovevano lavorare a un ritmo continuo e veloce e non c’era spazio per riposarsi, né per le pause. Allontanarsi dal proprio posto di lavoro o parlare con un compagno di lavoro venivano considerale mancanze gravi e costavano pesanti sanzioni fino al licenziamento.

   Era l’essere umano a doversi adattare alla macchina e non il contrario. Al lavoratore si chiedeva di svolgere un ruolo meccanico e non attivo o intelligente.

   I salari erano bassissimi perché i disoccupati erano così tanti che un operaio se scontento poteva essere sostituito in qualsiasi momento.

   Particolarmente grave fu la condizione dei bambini e delle donne che, essendo pagati meno, erano utilizzati in gran numero. Costavano meno perché ricevevano un salario più basso e rendevano allo stesso modo. Nelle fabbriche della Scozia nel 1816 su 10.000 operai, 6.850 erano donne e bambini.

In nessun paese esistevano leggi per tutelare i bambini, nemmeno quelli più piccoli.

   Dopo le prime lotte operaie, molte delle quali duramente represse,[8]   lo Stato inglese approvò la prima legge nel 1819 che prevedeva il limite di età di assunzione dei bambini dai dieci anni in poi e il limite dell’orario giornaliero stabilito in dieci ore. Non c’era, però, alcuna autorità che prevedeva il controllo. Quindi la legge minorile non è stata mai applicata.

  Dal 1800 era enormemente aumentata l’esasperazione dei lavoratori causata non solo dallo sfruttamento ma anche dalle ripercussioni lavorative consistenti in moltissime morti sul lavoro (storia vecchia nel capitalismo come si vede), malattie professionali, infortuni, miseria, sopraffazioni sulla persona, insomma, gli operai erano (e lo sono tuttora se non si difendono e mettono in discussione questo Modo di Produzione) carne da macello.

   Tutto questo era la dimostrazione pratica che gli interessi delle due classi, borghese e proletaria sono inconciliabili. La borghesia ritiene che qualunque sia la sorte dell’operaio, non è compito del padrone migliorarla.

   Dalla loro esperienza pratica, gli operai hanno imparato che per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro devono contare essenzialmente sulle loro forze. Impresa difficile perché i padroni hanno dalla loro parte anche i governi i quali rappresentano le classi più elevate che si schierano con i padroni e non con gli operai.

   I governi hanno sempre vietato l’associazione dei lavoratori e impedito le varie forme di lotta, in primis lo sciopero. In Germania, addirittura, nel 1845 ogni interruzione del lavoro era severamente punita anche con la pena di morte.

  La libertà di sciopero e di associazione alla classe operaia non è stata certamente regalata.

   In una società divisa in classi, una classe subalterna, che quindi non detiene il potere, riesce con la lotta a strappare alla classe dominante una concreta libertà, anche se parziale, e sempre in costante pericolo che le sia nuovamente tolta. Questo significa che quando si parla di conquista di concrete libertà in regime borghese, queste non possono che essere libertà che la classe soggetta strappa alla classe dominante, anche se parzialmente e anche se possono essere rimesse in discussione.

   Vediamo alcuni esempi. La libertà di riunione e di associazione fu nel periodo della Rivoluzione Francese e precisamente il 14 giugno 1791 con la legge Le Chapelier, abolita per gli operai, in quanto proibiva a loro il diritto di riunione e di associazione, e comminava ai proletari che non osservavano il divieto multe e perdita a tempo determinato dei diritti civili.

   Ugualmente in Inghilterra, in periodo di affermazione della dittatura della classe borghese a cavallo tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo è un susseguirsi di leggi che vietano ogni diritto di riunione e associazione per ogni tipo di lavoratori. Lo stesso avverrà in Italia e in altri paesi di più tarda industrializzazione a metà del XIX secolo, dove ogni diritto di coalizione e di resistenza operaia sarà proibita.

   Sia in Inghilterra che in Francia e successivamente negli altri paesi, occorreranno decenni di lotte durissime, migliaia e migliaia di morti, centinaia di migliaia di feriti e carcerati, insurrezioni e rivolte, scioperi di milioni di uomini e donne, per strappare ai governi borghesi di questi paesi la libertà di sciopero, di associazione, di coalizione e di resistenza per i lavoratori. In Francia occorreranno le rivoluzioni del 1830 e del 1848 in Inghilterra le lotte del 1825, 1832 e 1859 e la dura cruenta lotta del movimento cartista.

   Un’altra battaglia è stata quella di eleggere o essere eletti dei proletari nel parlamento borghese, la richiesta del suffragio universale (dei maschi adulti) era il primo punto della Carta del 28 febbraio 1837 che segna il momento più alto e di massa del movimento operaio inglese. Gli altri punti erano: parlamenti annuali, voto a scrutinio segreto, stipendio ai membri del parlamento, abolizione dei requisiti di censo per i candidati al parlamento, distretti uguali.

   Si noti che il cartismo, specie in quel periodo non fu emanazione di ceti piccolo-medio borghesi, ma espressione di tutto il mondo proletario mobilitato a livello di massa. Occorreranno cinquant’anni di lotte per ottenere in Inghilterra il suffragio universale, che sarà concesso solo nel 1918. Lo stesso avverrà nei decessi successivi nelle altre nazioni europee dove, il proletariato chiederà il potere per sé non per le altre classi.

   Vediamo ancora la libertà di stampa, in pratica la libertà di scrivere e diffondere le proprie idee.

   Nell’Inghilterra dell’Ottocento dove vigevano grosse tasse di bollo su ogni copia di giornale (quotidiano o settimanale) venduto. Il prezzo di vendita diveniva così altissimo, tanto che per i proletari era concretamente irraggiungibile l’acquisto di un giornale. Occorsero campagne operaie durate decenni e la sfida lanciata da giornali operai, venduti al prezzo di pochi centesimi e illegalmente senza bollo, per far abolire la legge. Il primo a lanciare la campagna fu il The poor man’s guardian che, su iniziativa del suo direttore Cobbet, fu venduto al prezzo di un penny come protesta “contro la tassa sul sapere”. Altri giornali operai seguirono, in una lotta che durò alcuni lustri, per arrivare al 1836 quando la tassa sui giornali fu ridotta, e infine nel 1855 quando fu abolita.

   Il limite di tutte queste libertà che sono state conquistate da parte del proletariato con lotte durissime (durate decenni se non addirittura due secoli) sono avvenute nell’ambito e nel quadro dello Stato borghese, permanendo la dittatura della classe borghese. E quindi in ultima analisi sono state utilizzate dallo Stato borghese per mantenere il proprio dominio. Ciò conferma la correttezza dell’analisi marxista e leninista sullo Stato, secondo cui lo Stato della classe opprime, non può essere utilizzato dalla classe oppressa, ma deve essere demolito dalle fondamenta.

   Poiché questo non è avvenuto negli ultimi due secoli, tutte le conquiste operaie, per quanto ottenute attraverso lotte asprissime e prolungate, sono state utilizzate e fatte proprie dalla classe dominante. Se da una parte la conquista di queste liberà, ha allargato le possibilità del proletariato, ma dall’altro sono state utilizzate e “catturate” dalla borghesia che le ha mistificate come proprie libertà. La libertà operaia di associarsi e di costituire leghe e sindacati sono stati utilizzati dalla borghesia per istituzionalizzare il sindacato come ulteriore struttura di sostegno alla dittatura della classe borghese. La libertà di eleggere e di essere eletti è stata usata dalla borghesia per strappare alla loro classe di provenienza gli eletti operai e farne dei borghesi. La libertà di stampa, per l’enorme differenza economica di chi finanzia i giornali (monopoli) è utilizzata dalla borghesia per creare un’opinione contraria agli interessi proletari, e si può continuare con infiniti esempi.

   Su tutte queste libertà incombe il continuo ricatto da parte della borghesia di essere abolite tutte in una notte (attraverso uno stato fascista per esempio) ove le strutture democratiche-parlamentari non dovessero più essere funzionali per il domino capitalista.

   Tutto questo per dire che il diritto del lavoro non è stato un’elargizione da parte dello Stato borghese, ma è un prodotto delle lotte operaie (soprattutto se sono rivolte al cambiamento radicale del sistema).

   Ecco perché nel linguaggio giuridico il diritto del lavoro è definito come “elemento che resiste e che restringe lo sviluppo economico”.

   Pertanto, il diritto del lavoro non è mai riconosciuto come una delle tante branche giuridiche ma come la forza dei lavoratori di rivendicare la tutela dei loro interessi. È evidente che la sua esistenza dipende dall’espressione di tale forza. Quando i lavoratori smettono di lottare in maniera radicale al di fuori delle compatibilità del sistema, il diritto del lavoro sarà sempre limitato fino ad essere abolito.


[1] Il Sole 24 0re, 28 agosto 1996.

[2] Il Sole 24 0re, 29 agosto 1996, pag. 13.

[3] http://archiviostorico.corriere.it/2002/settembre/13/manager_commessi_negozio_muoveranno

[4] http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/21/pause-ridotte-cassa-integrazione-straordinari-pilastri-%E2%80%9Cmodello-pomigliano%E2%80%9D/172169/

[5] http://www.savethechildren.it/IT/Tool/Press/All/IT/Tool/Press/Single?id_press=592&year=2013

[6] http://www.icebucarestnews.ro/userfiles/file/LA%20PRESENZA%20ITALIANA%20IN%20ROMANIA%202014.pdf

[7] Ci ricordiamo i due marò questi “eroi” uccisori di pescatori indifesi, dove erano? Su una nave mercantile. E nessuno si è chiesto cosa ci stavano a fare? Se c’è una normativa che li consente? Ebbene sì, in base al DECRETO-LEGGE 12 luglio 2011, n. 107 Proroga (delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia e disposizioni per l’attuazione delle Risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011) adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nonché degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione). Misure urgenti antipirateria. (11G0148) (GU n.160 del 12-7-201) ha permesso la convenzione tra gli armatori e il Ministero della “Difesa” (ma forse si intende difesa degli armatori e degli industriali in genere).

   Ci si chiederà se è possibile che un corpo di élite della marina non abbia nulla di più importante a cui pensare che fare la guardia giurata dei privati?    Esso è possibile poiché è un nuovo modo per fare cassa, poiché gli armatori sono pagati dal ministero. Dopo dismissioni e svendite del patrimonio, tasse e tagli a spese sociali, istruzione e ricerca, ecco a voi affitto di militari scelti. Un’ulteriore dimostrazione che l’austerità non ha come conseguenza solo il peggioramento delle condizioni sociali ma arricchimento di chi è già ricco.

   Del resto, ci siamo abituati all’impiego dell’esercito per cose che non gli competono istituzionalmente, per spot elettorali, tipo la “sicurezza” o l’emergenza neve; situazioni nate per dare solennità e importanza ad alcuni temi.

[8] L’episodio più grave di repressione si ebbe a St Peter’s Fields, vicino a Manchester, nel 1819, quando fu usata la cavalleria per disperdere un raduno di 50 000 persone che chiedevano una riforma parlamentare, provocando undici morti e 500 feriti. Questa strage fu approvata da tutta la classe politica inglese: e poiché anche il duca di Wellington, il vincitore della battaglia di Waterloo, espresse pubblicamente il suo sostegno nei confronti degli ufficiali che avevano ordinato la carica dei dimostranti, l’episodio venne sarcasticamente ribattezzato massacro di Peterloo.

LA PANDEMIA DEL DEBITO

•ottobre 25, 2020 • Lascia un commento

   In questi mesi la maggior parte della popolazione  (giustamente) si è concentrata sul Covid 19. Dal mio modesto punto di vista ritengo che bisognerebbe concentrarsi anche su un altro tipo di pandemia: quella dei debiti pubblici e privati che si stanno propagando nel mondo.

   Gli effetti del debito sono descritti dal compianto Gianfranco Bellini[1] e uscito postumo nel 2013, nel libro intitolato La bolla del dollaro – Ovvero i giorni che sconvolgeranno il mondo, edito da Odradek. Nella Bolla del dollaro si trovano riferimenti teorici, storici ed analitici che possono essere utili ad analizzare la situazione attuale. Nel frastuono di parole che i media, con ore di trasmissioni televisive sempre fuorvianti, di valanghe di notizie molte volte inattendibili  che servono ad anestetizzare la pubblica opinione, poco spazio si è dato al summit che si è tenuto il 27 – 29 agosto 2020  a Jackson Hole, in Wyoming, che è stato uno degli appuntamenti economici più attesi e importanti dell’anno, utilizzato dai banchieri centrali per mandare messaggi di politica monetaria.[2] Il tema di discussione era senza dubbio molto impegnativo: Navigare nel prossimo decennio: implicazioni per la politica monetaria. Star dell’evento è stato Jerome Powell presidente della Federal Reserve (Fed) e custode della valuta più indebitata, ma si badi bene non inflazionata, dell’intero globo terrestre,  se consideriamo che un debito di 26.712 miliardi di dollari non può più essere contenuto nei ristretti confini del pianeta Terra. Powell ha dichiarato che la Fed non si opporrà ideologicamente ad un livello di inflazione intorno al 2%, se questo sarà da stimolo alla crescita dell’occupazione. Non un accenno sul vertiginoso aumento del debito americano, di oltre 3.000 miliardi di dollari realizzatosi da marzo ad oggi, oppure per il suo improbabile contenimento, pensando alle tensioni inflazionistiche previste in percentuale assai contenute se rapportate alla massa monetaria espressa in dollari. Bisogna intendersi cosa intende dire Powell quando parla di tolleranza al 2%. Magari il capo della Fed sta mandando un messaggio alle classi dirigenti americane che si apprestano a scegliere il prossimo presidente attraverso la pantomima delle elezioni.  Powell ad esempio potrebbe sottendere che arrivare a un cambio di 1 dollaro per 0,70£ nei prossimi mesi non sarebbe tollerabile (oggi al cambio 1 dollaro per il 0,84£).  Bisognerebbe tenere d’occhio i rapporti di cambio tra le monete da novembre in avanti. Inoltre, bisognerebbe prestare attenzione al titolo del convegno Navigare nel prossimo decennio, assieme a un ulteriore riflessione: i banchieri centrali si stanno dando un orizzonte temporale definito e neppure troppo ampio. Nelle segrete stanze, e non in convegni pubblici, essi sanno che qualcosa dovrà succedere per forza nei prossimi anni.  

   Nel mondo occidentale il debito pubblico dilaga: il debito delle   corporation cresce, il debito delle aziende aumenta, il debito privato s’ingrandisce. Il Covid-19 sta accelerando questi processi, la cui velocità aumenta costantemente senza sapere effettivamente dove si vada a finire, nell’incerta certezza che per pura magia (magari per eredità culturale di Harry Potter o meglio ancora di Mago Merlino) non si andrà a sbattere contro nessun ostacolo. Ma sarà davvero così?

   Nella Bolla del Debito capitale reale e capitale fittizio vengono correttamente presentati in completa antitesi. Per quanto riguarda il capitale reale non si può che fare riferimento alla fondamentale opera di Marx DasKapital  (in italiano Il Capitale). Per quanto riguarda il capitale fittizio. Bellini fa notare che l’approfondimento teorico è ancora lacunoso e soggetto a critiche  e allo stato attuale una definizione di capitale fittizio, di potrebbe dire che c’è in esso il superamento del classico della formula classica di Marx  D-M-D’ (denaro-merce-più denaro).[3] Nella sostanza “Il Capitale Fittizio è quella parte di capitale che non può essere  simultaneamente convertita in valori d’uso esistenti. È un’invenzione che è assolutamente necessaria per la crescita del capitale reale, costituisce il simbolo di fiducia nel futuro. Si tratta di una finzione necessaria ma costosa e prima o poi crolla a terra”. Lavoriamo su questa definizione dove troviamo essenziali per comprendere perché il fittizio è il debito ed il debito è il capitale fittizio. Analizziamola la prima parte della definizione: “Il Capitale Fittizio è quella parte di capitale che non può essere simultaneamente convertita in valori d’uso esistenti…”. Nel  Capitale di Marx è la merce che contiene valori d’uso e valore di scambio, la continua trasformazione di denaro in merce e di merce in denaro genera il capitale reale. Il capitale fittizio è invece avulso da questo meccanismo, la sua generazione non dipende da fattori produttivi e commerciali, è una sorta di auto generazione perpetrata da enti che sono in grado di creare e moltiplicare denaro (banche centrali ed istituti privati). Essi hanno storicamente avuto freni inibitori in quest’azione speculativa dove alla fine sono progressivamente indeboliti. Freni inibitori importanti fino allo scoppio della prima guerra mondiale: lo sterling era il derivato (capitale fittizio) della sterlina,[4] il quale era convertibile in oro secondo i sacri dettami del Gold Standard. Una delle ragioni a fondamento della prima guerra mondiale fu lo squilibrio fra gli Sterling Bills circolanti e l’insufficiente riserva d’oro della Banca d’Inghilterra per garantirli. Un successivo indebolimento avvenne nel primo dopoguerra, allorché il dollaro di fatto affiancò la sterlina quale moneta di riferimento del commercio mondiale e quindi gli inglesi e gli americani poterono creare capitale fittizio tramite i rispettivi bills (cambiali, titoli di credito commerciali ecc.) fortemente utilizzati per le transazioni internazionali, ma a loro volta soggetti alla speculazione finanziaria. Un ulteriore ridimensionamento vi fu a seguito degli accordi di Bretton Woods del 1944, ed al passaggio al Gold Exchange Standard. Le monete europee rappresentanti di paesi accumunati dalla distruzione fisica ed economica dovute alla seconda guerra mondiale (senza particolari distinzioni tra vincitori e vinti), persero la possibilità di convertirsi in oro, delegando al solo dollaro questa possibilità. La sterlina abdicò definitivamente al proprio ruolo di moneta di riferimento a favore del biglietto verde USA.  Negli Cinquanta e Sessanta, le necessità vere o presunte di far fronte alla cosiddetta guerra fredda contro il “blocco socialista” a guida revisionista e la Repubblica Popolare Cinese, sia dalle due guerre calde determinate dalle guerre di liberazione rivoluzionaria della Corea e del Vietnam, indussero ben presto le autorità monetarie a premere sull’acceleratore dell’indebitamento e della conseguente creazione di capitale fittizio fino a giungere al primo default del debito americano dell’agosto 1971, allorché il presidente Richard Nixon decretò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro (35 dollari per un oncia Troy[5]). Dal Gold Exchange Standard si passò al Dollar Standard, attualmente in vigore, ed alla possibilità per le autorità monetarie USA di creare debito senza limiti e quindi generare capitale fittizio a profusione per alimentare la voracità di Wall Street da un lato, e l’enorme costosissima macchina militare, compreso il suo notevole indotto industriale, dall’altro. Mai dimenticare che il privilegio di avere la valuta di riferimento lo si conquista e lo si difende sul campo di battaglia. Veniamo ora alla seconda parte della definizione: “E’ un’invenzione che è assolutamente necessaria per la crescita del capitale reale, costituisce il simbolo di fiducia nel futuro…”. Il capitale fittizio è invenzione, è frutto della fantasia di banche ed istituiti finanziari che operano anche tramite il mercato borsistico, loro complice in nefandezze bancarie. Facciamo l’esempio dei Subprime oggetto della bolla esplosa nel 2008. Al rapporto reale di erogazione di un mutuo a fronte dell’acquisto di una casa, banche e finanziarie costruiscono una serie di prodotti finanziari derivati costruiscono una serie di prodotti finanziari derivati che inglobano il rapporto mutualistico, per poi venire a loro volta inclusi in altri prodotti finanziari, moltiplicando così il valore del debito originario. Fino al momento dell’esplosione della bolla, la vendita sul mercato tali prodotti speculativi genera denaro vero che ritorna “impropriamente” sotto forma di capitale investito, in questo senso ai alimenta il capitale reale, il capitale fittizio costituisce il simbolo di fiducia nel futuro perché tale sistema si fonda sulla convinzione che il sottostante rapporto reale, un debitore in carne ed ossa che paga regolarmente le rate del mutuo, non cesserà mai di adempiere al proprio dovere “sociale”. Su questa fiducia la speculazione moltiplica i valori senza porsi limiti. Allorché tale debitore viene meno a tale obbligo abbiamo è la crisi del 2008.

LA FASE TERMINALE DELLA CRISI?

   E’ errato sostenere (come fanno i riformisti vecchi e nuovi) che l’attività economica complessiva è stata abbandonata alla libera iniziativa di tanti singoli individui. Al contrario la sua direzione è stata sempre più concentrata nelle mani di un ristretto numero di capitalisti e di loro commessi. In secondo luogo, con la mondializzazione del Modo di Produzione Capitalista e, il passaggio del capitale finanziario a ruolo guida del processo economico capitalista, la cosiddetta “globalizzazione”, la finanziarizzazione, la speculazione ha permesso alla borghesia, di ritardare il collasso dell’economia. Con l’estorsione del plusvalore estorto ai lavoratori o con le plusvalenze delle compravendite di titoli, i capitalisti hanno soddisfatto il loro bisogno di valorizzarsi il loro capitale e accumulare e accumulare. I bassi salari dei proletari (in tutti i paesi imperialisti compresi gli USA il monte salari è stato una percentuale decrescente del PIL) sono stati in una certa misura compensati dal credito: grazie a ciò il potere di acquisto della popolazione è stato tenuto elevato milioni di famiglie si sono indebitate, le imprese sono riuscite  a vendere le merci prodotte e hanno investito tenendo alta la domanda di merci anche per questa via.

   Si è trattato di un’autentica esplosione del credito al consumo attraverso l’uso generalizzato del pagamento a rate per ogni tipo di merce, delle carte di credito a rimborso generalizzato, nel proliferare come funghi di finanziarie che nei canali televisivi offrivano credito facile (persino anche a chi ha avuto problemi di pagamento!). Questo fenomeno si è diffuso dagli USA a tutti i paesi occidentali, dove in paesi come l’Italia (dove tradizionalmente le famiglie hanno sempre teso al risparmio), l’indebitamento delle famiglie occidentali è salito in pochi anni, in Spagna è salito al 120% del reddito mensile e in Gran Bretagna è arrivato a essere riconosciuto come una patologia sociale.

   Ma nonostante la droga creditizia messa in atto, il collasso delle attività produttrici di merci non è stata evitata e a causa della bolla immobiliare dei prestiti ipotecari USA e del crollo  del prezzo dei titoli finanziari, si restringe il credito.

   Bisogna considerare, inoltre, che la massiccia profusione di credito introdusse numerosi squilibri nel sistema poiché l’aumento del credito concesso non era accompagnato dalla crescita dei depositi liquidi  atti a fronteggiare eventuali fallimenti dei debitori. Il problema nasce dal fatto è che questo sistema poggia sulla continua rivalutazione delle attività finanziarie, cui all’origine sta il rientro dei debiti contratti e a valle la fruibilità dei prestiti fiduciari tra le istituzioni di credito. Poiché le passività tendono a essere molto più liquide delle attività (è più facile pagare un debito che riscuoterlo), l’assottigliamento dei depositi significa che in corrispondenza di una svalutazione degli assetti finanziari che intacchi la fiducia, le banche diventano particolarmente esposte al rischio d’insolvenza.

   Le chiavi attorno a cui ruotò l’intero meccanismo furono essenzialmente quattro:

  1. I Veicoli d’Investimento Strutturato (Siv). Si presentano come una sorta di entità virtuali designate a condurre fuori bilancio le passività bancarie, cartorizzarle e rivenderle. Per costruire una Siv, la “banca madre” acquista una quota consistente di obbligazioni garantite da mutui ipotecari, chiamati Morgtgagebaked Securities (Mbs). La Siv, nel frattempo creata dalla banca, emette titoli a debito a breve termine detti assett-backed commercial paper – il cui tasso di interesse è agganciato al tasso di interesse interbancario (LIBORrate) – che servivano per acquistare le obbligazioni rischiose dalla “banca madre”, cartorizzarle nella forma di collateralizet debt obligation (Cdo)  e rivenderle ad altre istituzioni bancarie, oppure a investitori come fondi pensione o hedge fund. Per assicurare gli investitori circa la propria solvibilità, la banca madre attiva una linea di credito che dovrebbe garantire circa la solvibilità nel caso in cui la Siv venga a mancare della liquidità necessaria a onorare le proprie obbligazioni alla scadenza. Quando nell’estate del 2007, la curva dei rendimenti – ossia la relazione che i rendimenti dei titoli con maturità diverse alle rispettive maturità – s’invertirà e i tassi di interesse a lungo termine diventeranno più bassi di quelli interbancari a breve termine, la strategia di contrarre prestiti a breve termine (pagando bassi tassi di interesse) si rivelerà un boomerang per le banche madri, costrette ad accollarsi le perdite delle Siv.
  2. Colleteralized Debt Obligation (Cdo).  La cartolarizzazione è una tecnica finanziaria che utilizza i flussi di cassa generati da un portafoglio di attività finanziarie per pagare le cedole e rimborsare e rimborsare il capitale di titoli di debito, come obbligazioni a medio – lungo termine, oppure carta commerciale a breve termine. Il prodotto cartoralizzato divenuto popolare con lo scoppio della crisi è il Cdo ossia un titolo contenente garanzie sul debito sottostante. Esso ha conosciuto una forte espansione dal 2002 al 2003, quando i bassi tassi di interesse hanno spinto gli investitori ad acquistare questi prodotti che offrivano la promessa di rendimenti ben più elevati.
  3. Agenzie di rating. Sono società che esprimono un giudizio di merito, attribuendone un voto (rating), sia sull’emittente, sia sul titolo stesso. Queste agenzie non hanno alcuna responsabilità sulla bontà del punteggio diffuso. Se il titolo fosse sopravalutato, le agenzie non sarebbero soggette ad alcuna sanzione materiale, ma vedrebbero minata la loro “reputazione”. Tuttavia, data la natura monopolista dell’ambiente dove operano, anche se tutte le agenzie sopravalutassero i giudizi, nessuna sarebbe penalizzata.
  4. Leva finanziaria. Essa è il rapporto fra il titolo dei debiti di un’impresa e il valore della stessa impresa sul mercato. Questa pratica è utilizzata dagli speculatori e consiste nel prendere a prestito capitali con i quali acquistare titoli che saranno venduti una volta rivalutati. Dato il basso costo del denaro, dal 2003 società finanziarie di tutti i tipi sono in grado di prelevare denaro a prestito (a breve termine) per investirlo a lungo termine, generando profitti. Per quanto riguarda la bolla, l’inflazione dei prezzi immobiliari sta alla base della continua rivalutazione dei titoli cartolarizzati che ha spinto le banche a indebitarsi pesantemente per acquistare Cdo, lucrando sulla differenza tra i tassi della commercial papers emessi dalle Siv e i guadagni ottenuti, derivanti dall’avvenuto apprezzamento dei Cdo. In realtà, si è giunto al cosiddetto “effetto Ponzi” in cui la continua rivalutazione dei Cdo non era basata sui flussi di reddito sottostante, ma su pura assunzione che il prezzo del titolo sarebbe continuato ad aumentare.

Questa bolla non è certamente esplosa per caso.

   La New Economy, ha visto forti investimenti in nuove tecnologie informatiche (TIC): ma alla fine i forti incrementi di produttività non hanno compensato i costi della crescita dell’intensità del capitale, e quindi la sostituzione del capitale al lavoro.[6]

   L’indebitamento delle famiglie come si diceva prima, era stato favorito dal basso costo del denaro che favorì una crescita dei processi di centralizzazione, l’indebitamento delle imprese e appunto delle famiglie, la finanziarizzazione dell’economia e l’attrazione degli investimenti dall’estero. Ne conseguì un boom d’investimenti nel settore delle società di nuove tecnologie infotelematiche, in particolare sulle giovani imprese legate a Internet; con la conseguente crescita fittizia della New Economy che alimentò gli ordini di computer, server, software, di cui molte imprese del settore manifatturiero erano forti utilizzatrici e le imprese produttrici di beni d’investimento in TIC avevano visto esplodere i loro profitti e accrescere i loro investimenti. Ma, a causa degli alti costi fissi e dei prezzi tirati verso il basso dalla facilità di entrata di nuove imprese nel settore della New Economy, queste ultime accumularono nuove perdite e quando cercavano di farsi rifinanziare (avendo molte di queste società forti perdite) la somma legge del profitto che regola l’economia capitalistica indusse i vari finanziatori a stringere i cordoni della borsa in quanto avevano preso atto della sopravvalutazione al loro riguardo e le più fragili videro presto cadere attività e valore borsistico. Si sgonfiò così il boom degli investimenti in TIC.

   Dopo la fine della New Economy nel 2001 le autorità U.S.A. favorirono l’accesso facile al credito a milioni d’individui, in particolare per l’acquisto di case come abitazione principale o come seconda casa. Tra il gennaio 2001 e il giugno 2003 la Banca Centrale USA (FED) ridusse il tasso di sconto dal 6,5% al 1% . Su questa base le banche concedevano prestiti per costruire o acquistare case con ipoteca sulle case (senza bisogno di disporre già di una certa somma né di avere un reddito a garanzia del credito). I tassi di interesse calanti garantivano la crescita del prezzo delle case. Ad esempio, chi investiva denaro comprando case da affittare, il prezzo delle case era conveniente finché la rata da pagare per il prestito contratto per comprarle restava inferiore all’affitto. Il prezzo cui era possibile vendere le case quindi saliva man mano che diminuiva il tasso d’interesse praticato dalla FED. La crescita del prezzo corrente delle case non copriva le ipoteche, ma consentiva di coprire nuovi prestiti. Il potere d’acquisto della popolazione USA era così gonfiato con l’indebitamento delle case.

   Ma quando la FED, per far fronte al declino dell’imperialismo U.S.A. nel sistema finanziario mondiale (l’euro sta contrastando l’egemonia del dollaro, poiché molti paesi, per i loro scambi e i processi di regolamentazione delle partite correnti tra merci cominciano a preferire l’euro) nel 2007 riporta il tasso di sconto al 5,2% fa scoppiare la bolla nel settore edilizio USA e causa il collasso delle banche che avevano investito facendo prestiti ipotecari di cui i beneficiari non pagavano più le rate. Questo a sua volta ha causato il collasso delle istituzioni  finanziarie che avevano investito in titoli derivati dai prestiti ipotecari che nessuna comprava più, perché gli alti interessi promessi non potevano più arrivare. Tutto questo, alla fine, provocò il collasso del credito, la riduzione della liquidità e del potere di acquisto.  Diminuzione degli investimenti e del consumo determinano il collasso delle attività produttrici di merci.

   Se si guarda il percorso storico della crisi, dagli anni ’80, si nota che le attività produttrici stavano in piedi grazie a investimenti e consumi determinati dalle attività finanziarie. Quando queste collassano anche le attività produttrici crollano.

   Le autorità pubbliche di uno stato borghese, per rilanciare l’attività economica, le uniche cose che possono fare rimanendo dentro l’ambito delle compatibilità del sistema, sono:

  1. Finanziare con pubblico denaro le imprese capitaliste.
  2. Sostenere (sempre con pubblico denaro) il potere d’acquisto dei potenziali clienti delle imprese.
  3. Appaltare a imprese capitalistiche lavori pubblici.

   Per far fronte a questi interventi, le autorità chiedono denaro a prestito, proprio nel momento in cui le banche non solo non danno prestiti ma sono anche loro alla ricerca di denaro perché ognuna di esse possiede titoli che non riesce a vendere. Infatti, chiedono denaro per non fallire e per non negare il denaro depositato sui conti correnti presso di loro. Si sta creando un processo per cui le banche centrali fanno crediti a interesse zero o quasi alle banche per non farle fallire, le stesse banche che dovrebbero fare prestiti allo Stato. Essendo a corto di liquidità lo fanno solo con alti interessi e pingui commissioni. Lo Stato così s’indebita sempre di più verso banche e istituzioni finanziarie, cioè verso i capitalisti che ne sono proprietari. Finché c’è fiducia che lo Stato possa mantenere i suoi impegni di pagare gli interessi e restituire i debiti, i titoli di debito pubblico diventano l’unico investimento finanziario sicuro per una crescente massa di denaro che così è disinvestita da altri settori.

   Per far fronte alla crisi ogni Stato cerca di chiudere le proprie frontiere alle imprese straniere e forzare altri Stati ad aprire a loro. Quindi tutti i mezzi di pressione sono messi in opera. La competizione fra Stati e il protezionismo dilaga, come dilaga nazionalismo, fondamentalismo religioso, xenofobia, populismo, insomma tutte le ideologie che in mancanza di un’alternativa anticapitalista si diffondono tra i lavoratori e che sono usate dalle classi dominanti per ricompattare il paese (bisogno di creare un senso comune, di superare le divisioni politiche – qui in Italia in questo quadro bisogna vedere il superamento della divisione tra fascismo/antifascismo).

IL RUOLO DELLO STATO NELLA CREAZIONE DEL CAPITALE FITTIZIO

   la borghesia finanziaria[7] fa un uso privatistico dello Stato per creare capitale fittizio a costante sostentamento delle attività speculative. La Bolla del dollaro ci richiama alla genesi dell’intervento dello Stato in economia, nota eresia per il pensiero liberista classico, come soluzione della crisi economia del 1929.

   Gli economisti che sostengono l’intervento statale nell’economia sostenevano la tesi che il capitalismo sia governabile. Ideologi borghesi quali Sombart, Liefman, Schulze-Gaevenitz e riprese poi dai teorici della Seconda Internazionale quali Kautsky e Hiferding sostenevano la tesi del “capitalismo organizzato”.[8] Queste posizioni erano favorite dal fatto che nel periodo 1870/1914 ci fu un lungo periodo di assenza fra i paesi imperialisti.[9] I teorici del “capitalismo organizzato” sostenevano che nella società borghese moderna si riduceva progressivamente il campo delle leggi economiche operanti e ampliava in modo straordinario quello della regolamentazione cosciente dell’attività economica per opera delle banche.

   Queste teorie del “capitalismo organizzato “naufragarono nelle trincee della prima guerra mondiale, ma furono riprese all’inizio della grande depressione degli anni Trenta. In quel periodo nei circoli academici anglo-americani, in particolare Keynes ripresero il tentativo di dare un governo all’economia capitalista.

   Partendo dalla tesi che la stagnazione era causata dalla mancanza di investimenti produttivi ad un livello adeguato da parte dei capitalisti, che sono gli unici in una società borghese hanno i mezzi e sono nelle condizioni prendere l’iniziativa in campo economica. Secondo Keynes gli Stati devono creare una domanda di consumo finanziata col disavanzo statale. Keynes sosteneva che manovrando questa domanda attraverso la spesa pubblica e mettendo “degli incentivi a spendere” si poteva mantenere un livello di produzione che limitasse la disoccupazione.

   Le diverse soluzioni politiche che le borghesie dei vari paesi imperialisti hanno assunto negli anni Trenta (New Deal negli USA, nazionalsocialismo in Germania) erano caratterizzate da elementi comuni quali l’intervento dello Stato per razionalizzare l’economia.

   A essere precisi questo fenomeno dell’intervento dello Stato nell’economia era cominciato molto prima, ma fino al 1914 era rimasto sporadico o solo abbozzato:

   Vi sono stati due modelli di intervento statale nel mondo capitalista, da un lato la modalità degli Stati Uniti di Roosevelt e della Germania di Hitler, dall’altra la modalità dell’Italia di Mussolini. Il periodo è lo stesso: il primo lustro degli anni Trenta.

   In questo periodo  negli Stati Uniti l’azione del neo presidente Franklin Delano Roosevelt, a partire dai famosi primi 100 giorni del 1933, sinteticamente si rivolgono a tre aree d’intervento: l’area finanziaria, mettendo qualche briglia alle attività di Borsa tramite l’istituzione di una commissione di controllo sulle operazioni, ma soprattutto dividendo in modo netto l’attività delle banche commerciali (raccolta del piccolo e medio risparmio privato e loro investimento nei settori produttivi tradizionali) da quello delle banche di affari (gestione dei grandi patrimoni ed attività speculative); la seconda area riguarda il ruolo dello Stato (tramite apposite agenzie) come datore di lavoro, la più famosa delle quali fu certamente la Tennessee Valley Authority, con lo scopo di rilanciare economicamente la valle del fiume Tennessee soprattutto tramite la sua completa elettrificazione; infine nel campo fiscale dove, cosa incredibile se pensiamo alle risibili aliquote delle imposte dirette sugli alti redditi di oggi (in Italia la maggiore è il 43 per cento). Roosevelt gravò i redditi maggiori con aliquote fino al 79 per cento. Tutte queste azioni, tuttavia, non misero mai in discussione la proprietà privata di aziende ed istituti finanziari.

   Adolf Hitler, andato al potere agli inizi del 1933, si affidò per il rilancio dell’economia del Reich “millenario” ad un veterano della finanza tedesca del primo dopoguerra: Hjalmar Schacht. Già responsabile dell’economia nella Repubblica di Weimar nel 1923, presidente della Reichbank nel 1924. Nella sua azione governativa in economia, Schacht aderì al modello Rooseveltiano delle grandi opere pubbliche, che nel caso tedesco furono necessariamente ed immediatamente finanziate generando debito (capitale fittizio), che qualcuno tra Lombard Street[10] e Wall Street pensò bene di garantire, essendo la Reichbank impossibilitata a farlo. Il rapporto dello Stato con le grandi corporation tedesche fu subito quello di un’economia volta alla preparazione di un grande esercito e di una potente aeronautica: quindi soldi a profusione ai settori degli armamenti, meccanici ed automobilistici (come la Volkswagen, nata da un accordo siglato tra Hitler e Ferdinand Porsche). Anche nel caso tedesco le grandi banche ed i grandi agglomerati industriali (Krupp, Siemens, Bosch) non ebbero mai nulla da temere circa la saldezza dei pacchetti azionari nelle mani delle famiglie fondatrici.

   Come Roosevelt, anche Mussolini varò una legge bancaria nel 1933 che prevedeva la divisione tra banche di affari e banche commerciali. Ma in Italia si fece un passo che USA e Germania non si sognarono mai di fare: il salvataggio di banche ed industrie venne pagato proprio dai possessori dei pacchetti azionari, che dovettero cederli all’Istituto di Ricostruzione Industriale (IRI) fondato da Alberto Beneduce[11]. In ogni caso, in misura diversa e con modalità differenti, Stati Uniti, Germania ed Italia vararono ufficialmente e come politica strutturale l’era dell’intervento statale nell’economia. Anche la Gran Bretagna diede il suo contributo accademico, tramite l’opera di John Maynard Keynes, la cui divulgazione di uno dei due modelli, ovviamente quello che non metteva in pericolo i pacchetti azionari dei benefattori di denaro pubblico, contribuì alla diffusione dell’intervento statale nell’economia  nel mondo occidentale, soprattutto nel secondo dopoguerra. I due modelli di intervento statale ebbero diverse evoluzioni, dovute anche agli esiti della seconda guerra mondiale. Di fatto, il modello rooseveltiano venne quasi subito sostituito da un intervento di tipo finanziario: le agenzie governative del New Deal scemarono d’importanza, e lo Stato Federale da “datore di lavoro” diventò “committente” soprattutto nei confronti delle industrie belliche.

   Per ricapitolare: l’intervento dello Stato a partire dagli anni Trenta divenne permanente e più massiccio; la tendenza alla trasformazione in proprietà dello Stato di interi settori dell’industria e al dirigismo statale dell’economia nazionale si è affermato in tutti i paesi dominati dalla borghesia. Questa tendenza al capitalismo di Stato non cambia i rapporti di produzione, non rappresenta nessuna novità qualitativa nei confronti del capitalismo classico, anzi ne è l’estrema conseguenza. Le nazionalizzazioni, i monopoli statali, ecc. non sorgono, in sistema capitalistico, come conseguenze della prosperità economico, ma come risposta alla crisi, come mezzi per salvare dal fallimento e perpetuare i monopoli di questo o quel ramo dell’industria; il controllo dello Stato sull’economia nazionale serve ad impedire attraverso la centralizzazione delle decisioni, il tracollo del sistema sotto il peso delle sue contraddizioni.

   Tornando all’epoca contemporanea, le esigenze della cosiddetta guerra fredda portarono il Tesoro americano all’indebitamento progressivo che costringerà Washington ad abbandonare il Gold Exchange System nel 1971.

 Il modello italiano, invece, si sviluppò ulteriormente: al gigante IRI si affiancano i giganti pubblici ENI ed ENEL. È il boom economico di questo paese, che è bene sottolineare, non fu mai a trazione privata. Il modello italiano di intervento pubblico ha dei tratti diversi rispetti a quello degli altri paesi occidentali, poiché tendeva a formare quella che veniva definita un “economia mista”, quando in realtà sarebbe corretto che si creavano delle FAUS (Forme Antitetiche dell’Unità Sociale).

   Le FAUS sono istituzioni e procedure con cui la borghesia cerca di far fronte al carattere collettivo oramai assunto dalle forze produttive, restando però sul terreno della proprietà e dell’iniziativa individuale dei capitalisti. Per farvi fronte crea istituzioni e procedure che sono in contraddizione con i rapporti di produzione capitalisti. Sono mediazioni tra il carattere collettivo delle forze produttive e i rapporti di produzione che ancora sopravvivono. Sono ad esempio FAUS le banche centrali, il denaro fiduciario, la contrattazione collettiva dei rapporti di lavoro salariato, la politica economica dello Stato, ecc.

    In tale sistema la produzione di capitale fittizio da parte dello Stato è sostituita dalla crescita del PIL agevolata dal ruolo direttivo dello Stato esercitato tramite il Ministero delle Partecipazioni statali. Nel 1964, in pieno boom economico, quando l’economia italiana cresce in media del 5% annuo sostanzialmente senza inflazione, il rapporto debito-Pil si trova al 33%.

   Nonostante gli anni Settanta vedono un oggettivo aumento dell’inflazione e della spesa pubblica, anche grazie alle conquiste dei lavoratori, lo Stato non genera debito: nel 1981 si trova ancora al 60% del Pil. Negli anni Ottanta, al ruolo dello Stato “direttore” dell’economia si affianca il ruolo di “sovvenzionatore” sia dell’economia privata che di un Welfare che si sbilancia sul lato della spesa (ad esempio le baby pensioni). La produzione del debito inizia ad eccedere la capacità di crescita del sistema di “economia mista”.

   La  caduta del muro di Berlino in Italia decreta la fine di molte FAUS per abbracciare un liberismo spinto al suo estremo. Il fallimento morale, politico, economico e sociale delle famigerate privatizzazioni selvagge degli anni Novanta guidate da Mario Draghi e Romano Prodi sono sotto gli occhi di tutti, basta pensare alla gestione Benetton delle autostrade italiane ed alle vicende legate al ponte Morandi di Genova.

   Gli anni Novanta rappresentano il trionfo del liberismo più o meno estremo (in Italia estremissimo) in tutto il mondo; tuttavia questo passaggio alla magia del mercato ha bisogno subito della generazione di tanto debito e quindi di capitale fittizio: dal 1991 al 2001 ultimo decennio della lira si passa dal 98,6 al 108,7 del rapporto debito Pil. L’ingresso del bel paese nella moneta unica non muta il trend: si passa dal 105,5 del 2002 al 126,1 del 2012 (complice la crisi dei Subprime), per poi superare brillantemente il 135 per cento nel 2019, per non parlare del 2020 ancora in corso.

CAPITALE FITTIZIO E LOTTA DI CLASSE

   La lotta di classe non è mai finita, lo sappiamo bene, semplicemente dalla caduta del muro di Berlino ad oggi nei paesi imperialisti centrali, la borghesia ne ha maggior coscienza ed è all’offensiva. Altro discorso è quello che avviene nei paesi del Sud del mondo poiché a livello politico la contraddizione principale è imperialismo (principalmente U.S.A.)/popoli oppressi. Massima espressione di questa contraddizione sono le guerre popolari in atto condotte da partiti comunisti guidati dal marxismo leninismo maoismo. Contraddizione che si sta fondendo con la contraddizione fondamentale classe operaia/capitale, poiché la classe operaia si è allargata a livello mondiale in termini assoluti, se si considera (pur con dati parziali) che la classe operaia mondiale abbia superato il miliardo di componenti e tendendo conto delle migrazioni verso i paesi imperialisti, dove ormai i lavoratori migranti sono una quota rilevante della classe operaia di questi paesi, per questo motivo nelle metropoli imperialiste si può tranquillamente dire che siamo di fronte ad una classe operaia multinazionale.

   Come si diceva prima in Italia (come negli agli altri paesi imperialisti) è stata combattuta strenuamente ed efficacemente da una classe sola: la borghesia “finanziaria” internazionale, quella che frequenta Wall Street, la City di Londra, che partecipa al World Economic Forum di Davos; la stessa che detiene la proprietà dei mass media, che crea partiti e leader di plastica che, a loro volta, allestiscono il “palco delle elezioni democratiche”. La crescita di debito e la conseguente produzione di capitale fittizio sono un segnale dello sfacciato uso privatistico che la classe dominante fa dello Stato.  Poniamoci una domanda: come mai i paesi occidentali soffrono di deficit costanti e debiti pubblici e privati crescenti? Il caso Italia è illuminante sotto questo profilo. Le ragioni del maggior debito non risiedono, come comunemente viene fatto credere dai mass media di regime, dalla crescita della spesa pubblica, la quale in Europa ha avuto un aumento limitato e fisiologico a causa degli accordi di Maastricht. La ragione sta nella diminuzione tendenziale delle entrate, le cui cause sono ideologiche e politiche; vediamole. La principale e fondamentale causa, che accomuna tutti i paesi occidentali, è la progressiva diminuzione della tassazione sia sui redditi delle persone fisiche più elevati sia sulle grandi aziende, e l’inevitabile spostamento del peso della tassazione diretta quasi interamente sulla classe dei salariati. Il sistema fiscale dei paesi democratici borghesi funziona come lo sceriffo di Nottingham: prende tanto ai poveri per dare a piene mani ai ricchi (vedasi il recente “prestito Covid-19” ottenuto dalla Fiat per 6,3 miliardi di euro da Intesa San Paolo, garantiti dallo Stato e che molto probabilmente non saranno mai restituiti[12]). La classe dominante non sopporta l’offesa di pagare le tasse. Gli Stati Uniti sono passati dalle aliquote rooseveltiane (ma anche del predecessore Herbert Hoover) del 79% sui redditi più alti agli attuali 39% per redditi oltre i 500.000 dollari: hai voglia a restituire il debito USA. Per quanto riguarda le grandi corporation, il culto del mercato globale ha ispirato legislazioni fiscali che permettono ai grandi gruppi di eludere il fisco dei paesi dove producono il proprio reddito tramite complesse architetture societarie, che finiscono sempre per avere “holding” in paesi offshore oppure a tassazione agevolata come Olanda e Lussemburgo. Cercare poi di far pagare le giuste tasse ad Amazon, Google, Apple nei paesi europei, ad esempio, rappresenta un oltraggio per gli Stati Uniti che su questo tema sono pronti alle ritorsioni commerciali (ultima crisi è datata dicembre 2019).

   In Italia è tradizionalmente tollerata un’elevata evasione fiscale il cui dato esatto è un vero e proprio segreto di stato, ma che viene mediamente calcolata tra i 170 e 190 miliardi di euro l’anno. Siccome nel Bel Paese le grandi corporation sono poche e le piccole e medie imprese sono molte e tutte private, l’aver creato un fisco caotico, inefficiente e profondamente ingiusto ha agevolato la media e piccola borghesia nostrana ad escogitare numerose e fantasiose pratiche evasive quasi mai perseguite. Allora chi paga le tasse per intero? Ovviamente la classe dei salariati, soggetta al sostituto d’imposta e quindi impossibilitata ad evadere.

   Tuttavia, tartassare e dileggiare i salariati è necessario ma non sufficiente. La performance tributaria di questa classe si è fortemente deteriorata dagli anni Novanta in avanti, grazie alla solerte opera dei partiti di governo (partendo da quelli di sinistra, vedi le riforme Treu) votati allo smantellamento progressivo dei contratti nazionali e rendendo possibile ed estremamente conveniente precarizzare il lavoro. In Italia il gettito fiscale da salari e stipendi è diminuito per ragioni quantitative: l’epoca della privatizzazione e del liberismo senza appello ha fortemente diminuito il numero degli assunti in valore assoluto; e per ragioni qualitative: il valore e la stabilità dei contratti degli assunti è progressivamente diminuito, deprimendo quindi il relativo gettito fiscale. La soluzione è stata quella di alzare la tassazione indiretta, ulteriore decisione a sfavore delle classi meno abbienti.

   Oggi l’aliquota principale sul valore aggiunto in Italia è del 22%, e vi sono meccanismi “automatici” che prevedono l’inasprimento delle percentuali IVA in caso di deficit eccessivo. Negli Stati Uniti invece esiste una Sales Tax[13] che arriva solo all’11% (nondimeno il gettito IVA è determinato dai consumi domestici, anch’essi diminuiti seguendo fatalmente il declino del reddito delle persone fisiche, altro elemento depressivo delle entrate. Last butnotleast (come dicono i bravi scrittori anglosassoni), l’aumento del debito è dovuto alle politiche delle banche centrali come il Quantitative easing e dei tassi d’interesse vicini allo zero oppure negativi. Federal Reserve e Banca Centrale Europea hanno inondato il mercato di denaro a bassissimo costo, ma non è arrivato a tutti. Le Banche private debbono prestare denaro a tassi forzatamente bassi e che non permettono di coprire adeguatamente il rischio delle insolvenze. Trincerandosi dietro agli accordi di Basilea ed al sistema dei rating su famiglie ed aziende, gli istituti di credito prestano a sicuri solventi, cioè a coloro che non hanno bisogno di soldi, e difficilmente a coloro che ne hanno realmente necessità, quindi potenzialmente a rischio. Il risultato di questo giochino è una montagna di denaro messa a disposizione per acquisto di titoli del debito pubblico, per alimentare i private equity, gli edgefound e per le speculazioni di borsa anche a causa dello smantellamento di un altro pilastro delle politiche economiche degli anni Trenta: la distinzione tra banche commerciali e banche d’affari, tornate in un’inquietante simbiosi. Il Quantitative Easing tiene il denaro lontano dall’economia reale ed è uno strumento di generazione di capitale fittizio. Sommando tutti questi elementi, che sono i principali ma non gli unici, possiamo comprendere perché il mantenimento di un sistema occidentale, democratico borghese e liberista non può che avvenire attraverso i deficit dei bilanci annuali, quindi dell’aumento del debito complessivo ed in ultima istanza di produzione di capitale fittizio: le stigmate della classe borghese dominante.

IL CAPITALE FITTIZIO PUO’ ESSERE DISTRUTTO?

   Riprendiamo l’ultima parte della definizione di Capitale fittizio: “Si tratta di una finzione necessaria ma costosa, e prima o poi crolla a terra”. Fino ad ora abbiamo visto che il capitale fittizio, essendo frutto di invenzioni ed architetture finanziarie è totalmente estraneo alla produzione di capitale reale, e quindi viene necessariamente distrutto. Il capitale fittizio è generato dalla grande disponibilità di denaro derivante dall’espansione dei debiti pubblici, e moltiplicato dalle attività speculative della finanza.

Spostiamo quindi l’oggetto della riflessione sui debiti sovrani e sul loro futuro. Un assunto: un debito pubblico che supera una certa soglia (per convenzione diciamo il 100% del proprio PIL) non è rimborsabile né ora né mai. Tali debiti possono avere altri destini. Quando il debito non è espresso da una moneta di riserva e di riferimento internazionali come la sterlina fino al 1944 oppure il dollaro oggi, la sua distruzione è accompagnata dall’evaporazione della moneta che lo esprime. Il debito della Germania sconfitta nella Grande Guerra e vessata dal trattato di Versailles ha cessato di esistere e pagare interessi distruggendo il Papiermark[14], sostituito dal Rentenmark[15] prima e dal Reichmark[16] subito dopo.

   Queste monete tedesche, prive di significative riserve d’oro e valutarie a seguito delle sanzioni post belliche ed espressioni di un paese allo sbando economico, erano interamente garantite da dollaro e sterlina (quante cose non sappiamo dell’ascesa al potere di Hitler). Quando il debito è espresso nella moneta di riserva e riferimento internazionale, come oggi è il dollaro, esso è “protetto” dall’esercito, dalla marina e dell’aviazione della metropoli imperiale, che non esitano a persuadere, chiunque voglia utilizzare monete più sane, a cambiare immediatamente idea.

   Agli inizi del XXI secolo  vi fu un leader che non fu accorto e lesto nel mutare opinione a proposito di vendere petrolio contro euro. Gli americani prima devastarono il suo paese per la seconda volta e poi lo impiccarono: si chiamava Saddam Hussein[17]. Il debito americano sembrerebbe quindi eterno finché protetto dalle portaerei USA. Esistono infine debiti che, se fossero espressi nella moneta nazionale, sarebbero già dissolti evaporandone la moneta, ma avendo nominato tale debito con una valuta comunitaria, esso è garantito da tale moneta e quindi da altri paesi: è il debito italiano denominato in euro. Proviamo ora ad immaginare il Bel Paese che perdesse la garanzia di paesi creditori, siano essi UE oppure la Cina, se volessimo trattare l’arduo tema dell’uscita dell’Italia dalla moneta unica. Possiamo immaginare uno scenario dove gli italiani dovrebbero ridurre le proprie attività e gli spostamenti al minimo indispensabile; se i lavoratori dovrebbero essere legati ad un delimitato territorio, con divieto di oltrepassare determinati confini. Andrebbero dotati di un salvacondotto (anche sotto forma di autocertificazione) che dichiari i confini del fondo” all’interno del quale potersi muovere, ispirandosi in questo alla figura intermedia tra schiavo e uomo libero che fu per secoli il servo della gleba; chi invece non lavora, dovrebbe essere confinato nel proprio alloggio e basta. I servizi pubblici andrebbero ridotti sensibilmente: sportelli d’utilità generale come uffici comunali, INPS, Agenzia delle Entrate, Catasto eccetera dovrebbero rimanere chiusi il più possibile. Le scuole andrebbero chiuse e sostituite da forme d’istruzione (come le lezioni a distanza, anche in assenza di una infrastruttura di trasmissione dati dignitosa) che permetta agli scolari di stare a casa, con un risparmio anche su questa voce; l’accesso agli ospedali andrebbe regolato e concesso a chi può pagare, per talune malattie e non per altre, dando ai dirigenti sanitari la discrezionalità impunibile di scegliere di curare e chi lasciare al proprio destino; intere classi di pensionati, che beneficiano di forme di contribuzione antiche e quindi redditizie, andrebbero eliminati senza che nessuno fiati.

   Ad esempio, per una regione ricca di lavoratori a riposo provenienti dall’industria come la Lombardia, circa 17.000 persone morte  sarebbero un target adeguato. Luoghi e modalità di assemblamento andrebbero vietati, le assemblee sindacali nei posti di lavoro interdetti, i governi dovrebbero perpetrare stati di emergenza per prevenire sommosse, eccetera. Questo scenario, “del tutto ipotetico”, sarebbe compatibile per la sopravvivenza di un paese con un debito di 2.600 miliardi e nessuna possibilità di fare deficit. Ma se arrivassero 209 miliardi dai creditori, che per motivi geopolitici, sapendo di dare denaro a potenziali incapaci e disonesti scialacquatori, decidessero di salvare il debitore…. Per gli Stati Uniti il discorso è diverso. Il capitale fittizio primo o poi crolla a terra, eppure il congresso americano ha varato un allargamento di debito mai visto in un lasso di tempo ridottissimo: circa 3.000 miliardi di debiti creati da marzo 2020 ad oggi esta inondando Walle Street, banche private, private equity[18], società finanziarie, ecc. Quale destino può quindi avere un debito di 26.712 miliardi? Personalmente per quanto ne sappia ritengo impossibile che possa essere rimborsato. Potrebbe implodere internamente, il dollaro evaporerebbe in una iper inflazione mai vista prima della storia dell’umanità, rigorosamente accompagnato da uno spaventoso conflitto domestico che potrebbe avere connotati raziali, ad esempio inasprendo la tradizionale e diffusa brutalità della polizia ai danni delle minoranze, aggiungendo l’azione repressiva delle guardie nazionali dei vari  stati federali, magari (speriamo veramente di no) comprendendo come strumento repressivo l’uso di testate nucleari. Questo debito potrebbe esplodere esternamente, tramite un poderoso tentativo di dollarizzazione di altri importanti paesi attraverso l’aggressione militare. La Cina sarebbe l’obiettivo ideale per numero di abitanti e le dimensioni della sua economia. Con l’aiuto di ottimi eserciti ausiliari come quello giapponese e  coreano la guerra alla Cina (che viene fatta ovviamente per portare “democrazia” e “libertà” – sarebbe un’impresa ardua ma possibile. Non è impossibile che ci possa essere un conflitto interno alla NATO ad esempio fra la Turchia e la Grecia[19] che rischierebbe di infiammare tutto il Medio Oriente, che potrebbe determinare il blocco della produzione di petrolio, e non sarebbe da scartare un conflitto con la Russia magari con la scusa di soccorrere un governo con la facciata democratica guido ad arte da amici dell’occidente come Tikhanovskaya.

   Non bisogna scordare che ci saranno le elezioni americane per la presidenza e che non possiamo suddividerli tra presidenti “buoni” o “cattivi”, ma presidenti di  quello che è tutt’ora il maggior paese imperialista.  


[1] Gianfranco Bellini (Milano, 1952-Milano, 2012). Manager, esperto di sistemi informatici, studioso e critico di economia internazionale. Di famiglia proletaria e comunista dà vita con i fratelli Andrea e Marco, al Collettivo di quartiere Casoretto, passato alle cronache come “la banda Bellini”. Si iscrive alla Boccon, durante il servizio militare, milita nel Movimento dei soldati. Si laurea in Economia alla Bocconi, con una tesi sull’Economia di Piano in Unione Sovietica, sviluppata con la matematica lineare di Kantorovic, che lo indirizza ai temi dell’economia globale e a una propria visione geopolitica. Manager in molte multinazionali, dalla Barclays Bank alla Montedison alla IBM, successivamente e fino alla sua morte continua la sua militanza nella sezione Tematica Laika del PdCI che ha come elemento fondante la ricerca teorica sul Capitale e l’inchiesta militante alla maoista.

[2]  Questi summit sono l’appuntamento annuale per economisti e banchieri centrali organizzato dalla Fed. Prende il nome dalla vallata del Wyoming dove gli esperti di tutto il mondo dovrebbero avere un momento di riflessione. Un momento di relax favorito dalla pace della vallata e dalla splendida vista sulle montagne Grand Teton, tra boschi di conifere e fiumi blu. Negli ultimi anni tuttavia su Jackson Hole si sono proiettate le tensioni dell’economia mondiale. https://argomenti.ilsole24ore.com/parolechiave/jackson-hole.html

https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/08/27/news/fed_l_inflazione_non_conta_piu_-265651271/

[3] Marx ritiene che tale “più” monetario, ovvero Plusvalore, non debba essere cercato a livello di scambio di merci, bensì a livello della produzione capitalistica delle medesime.

[4] Sterlina è il nome italiano della valuta ufficiale del Regno Unito e di alcune parti di territorio sparse nel mondo, compresa un’area del Polo Sud definita “Territorio Antartico Britannico”. All’origine del suo nome deriva da “Sterling Silver“, una lega metallica composta per il 92.5% di argento e il 7.5% rame.

[5] L’oncia troy è un’unità di misura del sistema imperiale britannico. Al 2013, è la più comune unità di massa per i metalli preziosi, le gemme e la polvere da sparo e, come tale, è utilizzata per definire il prezzo di questi beni nel mercato internazionale

[6] Spinte dalla concorrenza le imprese se non volevano essere spazzate via hanno investito in nuove tecnologie e modernizzato il capitale produttivo, tutto ciò ha causato un aumento fortissimo dei costi.

[7] Questa frazione (dominante) della borghesia è l’espressione del  capitale finanziario che  si determina la fusione e l’equiparazione del capitale industriale con quello industriale e la stretta unione di entrambi con il potere dello Stato monopolista.

[8] All’interno del Movimento Comunista N. Bucharin sosteneva la tesi che il capitalismo dalla fine del XIX secolo ha avviato un processo di organizzazione che ha modificato seriamente il libero gioco delle forze della concorrenza.

[9] Non è certamente un caso che in questo periodo all’interno del movimento operaio nasce e si consolida il revisionismo.

[10] Lombard Street è una strada della Città di Londra, nota per i suoi legami, risalenti al Medioevo, con i mercanti, i banchieri e gli assicuratori della City. Viene perciò spesso paragonata a Wall Street a New York.

[11] Alberto Beneduce è stato un dirigente pubblico, economista, politico (era un socialista riformista)  e accademico italiano, amministratore di importanti aziende statali nell’Italia liberale e fascista, amministratore delegato dell’INA, tra gli artefici della creazione dell’IRI e suo primo presidente, oltre che ministro e deputato.

[12] https://www.ilsole24ore.com/art/fiat-chrysler-stretta-prestito-garantito-63-miliardi-la-filiera-italia-ADlxC6Q

[13] La sales tax è la tassa sulla vendita di prodotti e servizi applicata in America ed è pagata dal consumatore finale al momento dell’acquisto.

[14] Il nome Papiermark si applica alla valuta tedesca dal 1914 quando il collegamento tra il Marco e l’oro fu abbandonato, a causa dello scoppio della I guerra mondiale. In particolare, il nome fu usato per le banconote emesse durante il periodo dell’iperinflazione in Germania nel 1922 e specialmente nel 1923.

[15] Il Rentenmark è stato la valuta emessa il 15 novembre 1923 per fermare l’inflazione del 1922-1923 in Germania. Sostituì la Papiermark, che era stata completamente svalutata. La Rentenmark fu solo una valuta temporanea, e non ebbe valore legale.

[16] Reichsmark è stato la valuta della Germania dal 1924 fino al 20 giugno 1948, quando è stato sostituito dal marco tedesco nella Germania Ovest.

[17] https://m.facebook.com/Coscienzeinrete/posts/291343917557482/?_rdr

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=11366

[18] Il private equity è un’attività finanziaria mediante la quale un’entità rileva quote di una società definita obiettivo, sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all’interno dell’obiettivo.

[19] Non sarebbe la prima volta già nel 1974, quando La Turchia invase Cipro sabato 20 luglio 1974. … L’operazione, il cui nome in codice era Operazione Atilla, fu chiamata nella zona turca di Cipro “Operazione di pace del 1974”. Le forze turche dispiegarono una chiara e decisa strategia, costringendo numerosi greco-ciprioti a riparare nel sud dell’isola.

   Secondo un’intervista di Cem Gurdeniz, che nella Marina turca ha rivestito il grado di contrammiraglio ed ora dirige il centro studi marittimi della Koc University tale conflitto nel Mar Egeo significherebbe la fine della Nato e spingerebbe la Turchia definitivamente nell’orbita russa.  https://www.agi.it/estero/news/2020-08-12/guerra-grecia-turchia-trivellazioni-cipro-9403144/

BRASILE: IL RITORNO DI LULA

•giugno 7, 2023 • Lascia un commento

   Dopo aver occupato la carica di Presidente del più grande Paese dell’America Latina già nel 2003 e nel 2010, Luiz Inácio Lula da Silva sarà per la terza volta alla guida del Brasile.

   Lula è risultato il più votato al secondo turno delle elezioni presidenziali tenutosi il 30 ottobre scorso. Un ballottaggio al “cardiopalma” con il candidato fascista – nonché Presidente uscente ed ex ufficiale dell’esercito – Jair Bolsonaro, che si è risolto a favore dell’esponente di sinistra – dopoché l’ex militare era rimasto a lungo in testa ai conteggi- solo con l’arrivo dei voti provenienti dalle zone povere del Nord e del Nord-Est dell’immenso territorio brasiliano.

   I dati definitivi diffusi dal Tribunale Supremo Elettorale hanno assegnato al settantasettenne leader del Partito dei Lavoratori (PT) il 50,9% dei voti contro il 49,1% del suo avversario del Partito Social-Liberale – mai, dalla fine della dittatura, una elezione presidenziale si era risolta con un margine di voti così risicato. E malgrado l’importanza della posta in gioco l’astensione si è attestata al 20,55%. Ricordiamo che al primo turno, tenutosi il 2 ottobre, Lula aveva raggiunto il 48,43%, Bolsonaro il 43,2%. Quanto rimaneva era stato diviso tra gli altri candidati che avevano deciso comunque di presentarsi, nonostante che l’esito di questa competizione elettorale fosse ampiamente prevedibile. Anzi i sondaggi pronosticavano addirittura una vittoria di Lula già al primo turno; laddove l’essere stato costretto al ballottaggio non può non costituire motivo di riflessione per l’ex segretario del sindacato dei metalmeccanici della regione di San Paolo.

   E ciò, a maggior ragione, se si considera che le elezioni presidenziali si sono svolte congiuntamente alle elezioni per il rinnovo di 12 governatorati dei 27 stati che compongono lo stato federale brasiliano.

   Di questi solo 11 sono ora nelle mani del PT (4) o di forze alleate (7), mentre ben 14 sono controllati dai bolsonaristi. Gli ultimi due sono appannaggio di governatori “neutrali” appartenenti al PSdB; un partito moderato, con il quale Lula ha dovuto avviare in fase preelettorale un tavolo di trattative, tramite la mediazione di Geraldo Alckim, numero due di quel partito ed ex membro dell’Opus Dei.

I REALI RAPPORTI DI FORZA TRA GLI OPPOSTI SCHIERAMENTI

   Le trattative con il PSdB sono state probabilmente ritenute necessarie da Lula nella consapevolezza della complessa situazione politica in cui si sta dibattendo da diversi anni il PT e, con esso, l’intera sinistra brasiliana.

   Dopo l’arresto per corruzione ed altri reati (accuse da cui è stato successivamente prosciolto) e la carcerazione di Lula, avvenuta nel 2018 nell’ambito dell’Operazione Lava Jato – una sorta di “Mani Pulite” in salsa verde-oro, che si sospetta possa essere stata orchestrata dagli USA – tramite la quale la magistratura brasiliana giunse a privare dei diritti politici il leader del PT impedendogli di presentarsi alle presidenziali di quello stesso anno; con la destituzione della presidente e compagna di partito Dilma Rousseff, a seguito di una sorta di golpe istituzionale ordito dal suo vice presidente Michel Temer (del Movimento Democratico Brasiliano); in conseguenza degli episodi di corruzione che hanno coinvolto dirigenti nazionali e locali del PT -motivo, anche questo, alla base della vittoria elettorale della destra nelle elezioni del 2018 – le fila delle forze progressiste brasiliane si sono pericolosamente allentate e solo il ritorno sulla scena politica di Lula nel novembre 2019, dopo la sua scarcerazione, ha consentito di recuperare, almeno in parte, adesioni e fiducia.

   Ma le forze raccolte attorno alla “resurrezione” di Lula potevano rivelarsi insufficienti nell’affrontare questo nuovo confronto elettorale. Da qui la necessità di aprire un tavolo negoziale con forze politiche moderate.

  Una scelta che pare aver sortito però anche effetti non particolarmente positivi. Innanzitutto, ha ridato fiato alle accuse bolsonariane di trasformismo, di legami di corruttela e di scambio di favori tra forze politiche che dovrebbero risultare assai poco inquadrabili in un medesimo progetto di governo per il Brasile. La crescita di consensi registrata nel voto di ballottaggio da Bolsonaro potrebbe in parte anche dipendere da questa scelta fatta dal PT.

    Inoltre, è forte il timore in molti militanti della sinistra che, una volta raggiunti certi equilibri in sede politico-istituzionale, si possa ripetere, nel momento in cui si decidesse di dare attuazione alle parti più avanzate del programma elettorale di Lula, lo stesso “tradimento” perpetrato dalle forze moderate che appoggiavano la Rousseff. Ed il ruolo giocato nelle già ricordate trattative con il PSdB dalla figura di Alckim – considerato il Macri brasiliano – non concorre certo a placare queste ansie.

   D’altronde per i bolsonaristi la possibilità di ricorrere nelle settimane a venire – insistendo nella denuncia di presunti brogli elettorali – all’arma della messa in stato d’accusa nei confronti del nuovo presidente potrebbe rivelarsi una forte tentazione. Ad oggi i numeri nel Parlamento brasiliano sono favorevoli alla destra: con gli alleati del Partito Liberal (destra tradizionale), del Partito Progressista, dei Repubblicani, il blocco di destra filo-bolsonarista dispone del 37-38% dei deputati e del 31% dei senatori. Di contro lo schieramento di sinistra (il PT di Lula, il Partito Comunista del Brasile, il Partito Verde) può contare sul 28% alla Camera ed il 20% al Senato. Il resto dei rappresentanti del popolo brasiliano nei due rami del Parlamento è eletto in varie liste moderate, socialdemocratiche ed altre ancora e potrebbero offrirsi come massa di manovra per future azioni destabilizzanti.

   Dunque, Lula ha sì vinto le elezioni presidenziali, ma la base politica ed istituzionale (solo il 50% della popolazione dalla sua parte, controllo dei governatorati, maggioranza parlamentare) su cui ha fondato questa vittoria appare complessivamente assai fragile.

LE POSSIBILI MOSSE DI BOLSONARO

   Ma se l’eventualità di un “impeachment” a danno del neopresidente va comunque costruita sia giuridicamente che politicamente, nell’immediato Bolsonaro e la destra brasiliana potrebbero essere tentati dal seguire altre vie per delegittimare o rovesciare o comunque mettere in difficoltà Lula.

   Nelle ore in cui i brasiliani si recavano al voto, in diverse zone del Paese – soprattutto in quelle più povere, più vicine al leader della sinistra – pattuglie della Polizia Federale – i cui vertici avevano manifestato apertamente il loro sostegno all’ex capitano dell’esercito – hanno organizzato ingiustificati blocchi stradali per impedire alle auto ed ai bus che trasportavano gli elettori di Lula di raggiungere in tempo, prima della loro chiusura, i seggi dove avrebbero dovuto votare.

   D’altronde all’atto della proclamazione della vittoria di Lula, Bolsonaro si è chiuso in un poco rassicurante silenzio stampa, rotto solo dopo diverse ore, senza che il Presidente uscente riconoscesse la vittoria dell’avversariomai citato per nome – ed affermando, in modo generico, solo di rimettersi a quanto stabilito dalla Costituzione. Ma soprattutto senza condannare le violenze di piazza ed i blocchi stradali eretti questa volta dai militanti di destra o stigmatizzare lo sciopero dei camionisti indetto da alcune confederazioni sindacali pro-Bolsonaro.

   E in America Latina, come la storia ci insegna, gli scioperi dei camionisti sono stati spesso il preannuncio di successivi e sanguinosi golpe reazionari (come nel Cile di Salvador Allende nel 1973 o nella Bolivia di Evo Morales nel 2019).

   Ma l’ipotesi di un colpo di stato, sempre secondo i canoni cui ci aveva abituato la storia latino-americana nei decenni passati, guidato dalle forze armate – i cui massimi vertici erano stati rimossi circa un anno fa e sostituiti da Bolsonaro con alti ufficiali a lui fedelissimi – sembra cozzare con la necessaria “copertura” internazionale di cui un golpe militare avrebbe comunque bisogno.   

   Se Bolsonaro può contare ancora, nonostante la sconfitta, sulla “simpatia” di figure come il premier ungherese Viktor Orban o lo spagnolo, capo del partito Vox, Santiago Abascal (che intrattiene rapporti fiduciari con tutti i centri di estrema destra dell’America centrale e meridionale), sembra non poter più disporre dell’appoggio incondizionato dell’Amministrazione USA.

   Infatti, le posizioni assunte da Bolsonaro – astensione del Brasile in sede ONU – sulle sanzioni imposte alla Russia come ritorsione per la guerra russo-ucraina ed il rafforzamento delle relazioni commerciali tra lo stato sudamericano e la Cina, hanno spinto il Presidente statunitense Biden a dichiarare “legittima e democratica” l’elezione di Lula. Un duro colpo, di fatto, alle aspettative di Bolsonaro, che non ha avuto miglior fortuna neppure con le elezioni di medio termine per il rinnovo del Congresso degli Stati Uniti, nelle quali il suo “padrino” nordamericano Donald Trump non ha ottenuto sui rivali democratici quel netto successo che pareva profilarsi solo qualche settimana prima.

   Resta solo l’incognita rappresentata dal potente Stato di Israele che con il Brasile di Bolsonaro ha stabilito, anche più degli stessi Stati Uniti, relazioni molto strette[1].

   Intanto dall’Italia – dove il voto dei brasiliani residenti nel nostro Paese ha premiato Lula – il Presidente del Consiglio, la fascista Giorgia Meloni, che solo pochi mesi fa, intervenendo al congresso di Vox, affermava la piena comunanza di idee su molti aspetti nelle scelte di politica internazionale con i fascisti spagnoli, ha invece inviato, probabilmente come atto di allineamento allo statunitense Biden, le sue congratulazioni all’esponente vittorioso della sinistra.

BRASILE: UNA POTENZA ECONOMICA IN ASCESA… TRA MOLTEPLICI CONTRADDIZIONI

   Dunque, dal 1° gennaio 2023 Lula è di nuovo a tutti gli effetti il Presidente di un paese che conta 215 milioni di abitanti, che si estende su un territorio vastissimo e composito per varietà etnica ed ambientale e che può vantare enormi ricchezze sia del suolo che del sottosuolo.

   Il Brasile si colloca tra le prime dieci economie mondiali ed in quanto tale partecipa alle riunioni del G20. E fa parte del gruppo dei BRICS (Brasile. Russia, Cina, India, Sudafrica) che raccoglie le cosiddette potenze economiche emergenti.

   Sono lontani i tempi in cui l’agricoltura e l’allevamento rappresentavano le uniche risorse economiche di questo Paese. E se ancora oggi l’agricoltura produce il 10% del PIL brasiliano e l’allevamento intensivo si è rafforzato – soprattutto a danno della Foresta Amazzonica, il più grande polmone verde del pianeta – “conquistando” nuove terre, lo sfruttamento delle enormi ricchezze minerarie ed energetiche ha consentito un deciso slancio del processo di industrializzazione del Paese tanto che oggi il Brasile si distingue a livello mondiale in molti settori industriali di vecchio o di più recente sviluppo (come nella produzione di componentistica per i settori automobilistico ed aeronautico, delle telecomunicazioni, finanche informatico).

   La crescita economica complessiva ed in particolare quella industriale ha favorito il costituirsi di una classe media che è andata acquisendo negli anni una sua fisionomia sempre più spiccata. Ciò non ha comunque evitato il permanere di fatto di una forte polarizzazione sociale tra due classi: una maggioranza povera, se non poverissima, ed una minoranza spesso estremamente ricca.

   Le stime riportano dati drammatici: 33,1 milioni di brasiliani soffrono quotidianamente la fame; 100 milioni vivono nella povertà (mancanza di lavoro, assenza di istruzione e di assistenza sanitaria). Negli anni della pandemia da Covid il numero di persone affamate è aumentato del 73%; il reddito medio della popolazione è il più basso degli ultimi dieci anni. Di fatto il 5% dei brasiliani concentra nelle proprie mani una ricchezza equivalente a quella del “restante” 95%. E la forbice continua ad allargarsi sempre più.  

   A fronte di questa situazione così contraddittoria la strada che Lula si trova a dover percorrere dopo la sua rielezione appare irta di ostacoli.  

   In un Paese letteralmente spaccato a metà, con una classe media le cui oscillazioni politiche possono decidere – soprattutto nelle più grandi città – le sorti dello scontro tra politico nel paese, con una risposta alla sconfitta da parte delle destre che non hanno non esitato a sfociare anche nella violenza, con una difficoltà del proletariato e delle classi popolari ad organizzarsi per far fronte più efficacemente alla reazione padronale e fascista, il neo-presidente che tipo di programma politico intende sviluppare?

                                   IL PROGETTO POLITICO DI LULA

   Nel discorso pronunciato subito dopo aver appreso l’esito vittorioso del ballottaggio, Lula ha elencato i punti salienti del suo futuro programma di governo, peraltro già anticipati non solo nei comizi elettorali tenuti in tante zone del Paese, in confronti televisivi, in lettere aperte pubblicate sui principali organi di stampa, ma anche in occasione di svariati incontri a livello internazionale con leaders politici di altri stati e con istituzioni economiche e finanziarie sovranazionali (non ultimo il World Economic Forum).

   Dopo aver sottolineato come il suo successo fosse “la vittoria di un enorme movimento democratico che si è formato al di sopra dei partiti politici, degli interessi personali o delle ideologie, affinché la democrazia potesse trionfare”, il filo conduttore che percorre (oltre alla mancanza di ogni riferimento di classe[2]) quella che appare, alla fin fine, una sorta di dichiarazione d’intenti – cui dare  sostanza in futuro con provvedimenti e leggi – è dato dai frequenti richiami all’unità del popolo brasiliano ed alla concordia nazionale intorno all’idea di un “Brasile per tutti”, nella sostanza all’unità nazionale.

   Un Paese, quindi, dove ci sia più democrazia (borghese ovviamente) e partecipazione popolare – con la ripresa delle Conferenze Nazionali tematiche (gli “stakeholder”, con termine mutuato dal linguaggio del “marketing”!!) – una sanità pubblica, un’istruzione ed una cultura accessibili ad ogni cittadino brasiliano, un rilancio dell’economia – da qui un appello anche al ceto imprenditoriale nazionale ed agli investitori esteri – che possa consentire un efficace contrasto alla disoccupazione, l’aumento degli stipendi, la lotta alla fame, una vita dignitosa per gli uomini e per le donne del Brasile. E quindi l’avvio di politiche di contrasto alla violenza verso le donne e per la parità tra i sessi; di lotta al razzismo ed alla discriminazione – piaghe manifestatesi con forza durante la Presidenza Bolsonaro, anche per i forti legami instauratisi tra l’estrema destra brasiliana ed i gruppi suprematisti bianchi attivi negli USA. E poi, in chiave ecologica e di interesse planetario, la difesa della foresta Amazzonica dagli interessi commerciali e speculativi (disboscamento di intere aree a vantaggio di una produzione agricola od animale a carattere intensivo o per la vendita del legno oppure per le estrazioni minerarie). E la lotta al fascismo che, sempre con Bolsonaro alla presidenza, ha seminato odio e violenza contro oppositori politici e minoranze etniche (soprattutto indigene) e di genere.

   Ricostruire il Paese in ogni sua dimensione – politica, economica, morale, solidaristica – come auspicato da Lula non sarà certo un’impresa facile ed il nuovo Presidente da buon riformista della sinistra borghese invece che porsi in contrasto con le destre fasciste cerca  la ripresa del dialogo, all’interno del dettato costituzionale, con il Potere Legislativo – in primis il Parlamento – e con il Potere Giudiziario – cioè la Magistratura, fortemente infiltrata da elementi vicini al bolsonarismo – ed anche con ogni altra istituzione del Paese (forze armate, governatori, sindaci). Oppure quando si appella alla società civile[3] o alle comunità religiose (per un’analisi più completa non bisogna dimenticare il forte contributo offerto dalla potente Chiesa Evangelica alla campagna elettorale del suo rivale di destra).

   Come del resto c’è in Lula la consapevolezza che parte determinante del suo progetto politico si gioca sul terreno delle scelte di politica internazionale, in una fase storica in cui il mondo intero vive tra tensioni e pericoli inimmaginabili fino a pochi mesi fa.

DOPO LA VITTORIA DI LULA: QUALE POLITICA ESTERA PER IL BRASILE?

   Il primo risultato che Lula si ripromette di conseguire, al fine di restituire al Brasile un ruolo da protagonista – offuscatosi, a suo giudizio, con la presidenza Bolsonaro – sulla scena mondiale, è quello di fare del suo Paese il trascinatore di un rinnovato processo di integrazione regionale nell’area centro-meridionale del continente americano, rilanciando, su basi paritarie e solidali, organismi come il Mercosur e la Celac. La sua attenzione è rivolta innanzitutto a quei Paesi latino-americani che sono diretti da governi che si collocano, sia pure in misura diversa, nel campo “progressista” e di “sinistra”. Un blocco di Paesi – anche numericamente consistente – nei quali si è riscontrata effettivamente una grande attesa per questo appuntamento elettorale brasiliano ed il cui esito è stato quindi salutato con soddisfazione – come testimoniano le immediate prese di posizione di diversi presidenti latinoamericani, a partire dal boliviano Luis Arce.

   D’altra parte, dopo la ventata “progressista” – sollevata soprattutto dal Venezuela bolivariano – che percorse l’intero continente latino-americano nel primo decennio del nuovo secolo, i vari processi di democratizzazione (borghese), di crescita sociale, di integrazione economica nella regione sono andati progressivamente affievolendosi.

   Costretto il Venezuela, dopo la morte di Hugo Chavez, ad assumere una posizione essenzialmente difensiva a seguito della “guerra ibrida” scatenatagli contro dall’imperialismo USA, nessun altro Paese dell’America Latina ha avuto la forza di raccogliere il testimone lasciato dal chavismo. Anche i Paesi che negli ultimi anni hanno compiuto una virata a “sinistra” – Messico dapprima, Cile e Colombia da ultimo – segnano il passo nei loro propositi leggermente riformisti, dovendo fare i conti con l’ingerenza dei maggiori organismi economici e finanziari mondiali che hanno “ottenuto” di piazzare propri rappresentanti, soprattutto nei dicasteri economici, nei governi dei vari Stati.

  Da qui la speranza che con il ritorno della sinistra alla guida di un grande paese come il Brasile, la riscossa latino-americana (in senso di uno sviluppo capitalistico autonomo) possa nuovamente rimettersi in cammino.

   Altro obbiettivo dichiarato della futura politica estera di Lula sarà quello di una più incisiva presenza del Brasile in Africa. Questo in virtù di maggiori investimenti di personale tecnico, di capitali e di know-how tecnologico in diversi stati del continente africano, anche se tutto ciò dovrà avvenire sulla base di condizioni economiche e commerciali concordate.

   Un punto saliente – anche perché foriero di possibili conseguenze per questo paese nello scenario politico mondiale – riguarda le relazioni del Brasile con l’area, di cui è membro fondatore, dei Brics. Lula, in tal senso, rilancia la presenza e l’interazione del suo paese nel gruppo delle economie emergenti. Anzi, lo sviluppo delle relazioni commerciali e della cooperazione tecnologica con gli altri stati componenti i Brics viene visto come determinante per l’ulteriore crescita industriale – anche in direzione del “green” e del digitale – del paese sudamericano.

    Certo è che per un Brasile che aspira a proporsi, dopo Cina e Russia, come “terza forza” del gruppo, si tratterà comunque di recuperare il terreno perduto negli ultimi anni soprattutto nei confronti dell’India, che pare essere riuscita a contenere con più efficacia, rispetto allo stato sudamericano, i danni provocati alla propria economia dalla crisi pandemica.

   Infine, Lula non può non esimersi dall’affrontare il quadro dei rapporti con gli Stati Uniti da un lato, con l’Europa dall’altro.

  Lula apre le porte ad entrambi verso un partenariato commerciale più equo e rispettoso del suo paese, affinchè si ponga fine ad una considerazione del Brasile unicamente come fonte di profitto per le grandi multinazionali occidentali e di spoliazione continua delle sue ricchezze e materie prime.

   Vero è che la ricerca di una collaborazione tra pari sembra scontrarsi con le posizioni assunte da Lula in merito al conflitto russo-ucraino. Infatti, Lula non ha nascosto la sua ostilità verso l’Ucraina di Zelensky ed una certa comprensione verso le ragioni che hanno spinto la Russia ad attaccare il paese vicino. Da qui una serie di critiche nei confronti sia degli USA per il loro sostegno a tutto campo al regime di Kiev che della UE e della Nato per il loro tentativo di forzare la mano sull’ingresso dell’Ucraina nei due diversi organismi.

IN CONCLUSIONE … QUALE FUTURO PER IL GIGANTE SUDAMERICANO?

   Dunque, appare chiaro da ciò che si è scritto precedentemente che il terzo mandato presidenziale di Lula prende avvio in un contesto oggettivamente difficile. E ciò sia sul piano interno che su quello internazionale.

   In un paese letteralmente spaccato a metà; con istituzioni ed apparati locali e statali a lui sovente ostili; con un movimento popolare indebolito dopo i quattro anni di presidenza del reazionario Bolsonaro (e alle precedenti politiche di collaborazione di classe fatte proprio da Lula) –  a fronte di un’estrema destra propensa a propositi golpisti; con un notevole potenziale economico a disposizione ma anche con contrasti e divari sociali e culturali drammatici, riuscirà Lula a ricomporre la lacerata società brasiliana, a controllare le forze contrarie al nuovo corso politico, ad avviare un processo di democratizzazione (borghese), di partecipazione popolare, di maggiore giustizia sociale?

   Il presidente “di ritorno” – come qualcuno lo ha definito – ideologicamente ancorato alla sinistra “progressista” latino-americana, ha deciso di scendere a patti con forze politiche dai connotati moderati. Questa scelta rende difficile poter pensare che il “gigante sudamericano” si possa incamminare quantomeno verso un radicalismo politico che prepari almeno il terreno a soluzioni più avanzate.

   Molto probabilmente verrà rivolta una maggiore attenzione alla difesa dei diritti violati di diverse componenti della società brasiliana – dalle donne alle minoranze etniche e di genere – al sostegno delle comunità indigene ed al loro “sviluppo sostenibile” sul piano economico; alla salvaguardia della Foresta Amazzonica – su cui sono puntati gli occhi del mondo intero; al contrasto alla fame ed alla povertà – in tutte le drammatiche situazioni con cui essa si manifesta.

   Tutto ciò potrà portare alla riproposizione di un nuovo “welfare” verde-oro – drasticamente ridimensionato dalla gestione Bolsonaro – senza andare però ad intaccare in profondità i rapporti di forza esistenti tra le principali classi sociali in lotta tra loro.

   Anzi, sotto la pressione esercitata da diversi organismi sovranazionali (FMI, Banca Mondiale, WEF), il livello di sfruttamento della classe operaia e del mondo contadino brasiliani potrebbe paradossalmente accrescersi nei prossimi anni. Questo finirebbe per alimentare nel proletariato brasiliano sentimenti di malcontento, disillusione, rabbia nei confronti di quello stesso governo di sinistra che, con il proprio voto, ha contribuito a far vincere.

   Anche il contesto internazionale costituisce per il Brasile di Lula un banco di prova non indifferente.

   Il “presidente-operaio” –  altra definizione attribuita al nuovo inquilino del Planalto –  ha più volte rivendicato la necessità per il Paese di adottare una politica estera “convincente”, laddove le scelte di campo di Bolsonaro avrebbero ridotto il Brasile ad un “triste ruolo di paria del mondo”, di asservimento ai paesi – gli USA in primis – più ricchi e potenti (anche se il presidente uscente, l’abbiamo ricordato, si è opposto, proprio in nome dell’interesse nazionale, all’approvazione delle sanzioni contro la Russia ed al raffreddamento dei rapporti con la Cina).

   Lula  propone di fatto una politica estera che renda il Brasile protagonista in molteplici ambiti internazionali, che lo ponga al centro di processi politici ed economici su scala mondiale: dall’integrazione regionale latinoamericana all’asse Brasile-Africa (o perlomeno parte di essa); da un maggiore coinvolgimento nel gruppo dei Brics (senza necessariamente compiere quella svolta filorussa paventata da molti analisti) alle relazioni tutte da ridefinire con gli Stati Uniti e l’Unione Europea; fino alla richiesta di una rifondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (in modo che siano garantiti, attraverso la riforma del Consiglio di Sicurezza e l’abolizione del diritto di veto, più spazio e forza ai Paesi emergenti).   

   Sono queste posizioni che, sebbene non scevre da una difesa della propria sovranità nazionale e di interessi specifici, fanno di Lula un potenziale “campione” di quella concezione multipolare che si pone oggi in contrasto – che può palesarsi anche in forme “cruente”, come testimoniato dalla guerra russo-ucraina – con il modello unipolare, in declino, incarnato dagli USA.                    

   Nel concreto la politica estera di Lula potrebbe risolversi in una pragmatica e costante ricerca di un equilibrio tra il cosiddetto “Miliardo d’Oro” (gli Usa, i paesi della UE ed alcuni altri riconducibili alle economie “sviluppate” del pianeta) ed il Sud del mondo – con alla testa i Brics – che reclama maggiore considerazione delle proprie esigenze ed aspirazioni.

   Di fronte ad una situazione politica interna assai precaria e ad un contesto sociale potenzialmente esplosivo; ad un nuovo corso politico che pare collocarsi entro i limiti angusti di una linea governativa socialdemocratica, forse addirittura più arretrata delle due precedenti esperienze presidenziali di Lula; ad uno scenario internazionale in continua e pericolosa evoluzione, esiste nella sinistra brasiliana una forza politica – in particolare comunista- o un movimento sociale in grado di far compiere alla lotta di classe un salto di qualità, indirizzando il proletariato di quel paese verso orizzonti politici più avanzati?

LULA, IL PT … E POI?

   A parte diversi partiti politici di tendenza socialista/democratico-laburista, il resto della sinistra brasiliana appare complessivamente fragile, schiacciata dalla presenza del PT e condizionata da una diffusione territoriale non sempre uniforme.

  In particolare, il movimento comunista brasiliano rispecchia le difficoltà politiche e ideologiche che vive il movimento comunista su scala mondiale.

   Convergenze (poche) e scissioni (diverse), alleanze locali e nazionali con il PT di Lula cui fanno seguito rotture clamorose, caratterizzano la vita politica delle diverse formazioni politiche di orientamento comunista che si muovono sulla scena politico-elettorale del Brasile.

   Proviamo a delineare, sia pure per sommi capi, le posizioni dei principali raggruppamenti.

   Fondato nel 1922, il Partito Comunista Brasiliano (PCB), è oggi il più vecchio partito politico comunista esistente in Brasile ma risulta essere anche il più debole tra i vari gruppi comunisti, attestandosi sul piano elettorale tra lo 0,4-0,8% dei voti (non dispone pertanto di alcuna rappresentanza parlamentare).

   Dopo aver subito la scissione dell’ala troskista nel 1937 e della componente marxista-leninista che si riconosceva nei battaglia della Cina maoista contro il revisionismo nel 1962, che fondò il Partito Comunista del Brasile, il PCdoB, il PCB si avviò durante la dittatura militare (1° aprile 1964-15 marzo 1985) verso forme di opposizione democratica e non armata – diversamente dal PCdoB – al governo autoritario, cercando soprattutto di legarsi a quelle lotte di tipo sindacale che, tra molteplici difficoltà, facevano capolino nel Brasile dei militari al potere.

   Nel 1992, dopo la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Urss, il PCB tenne un congresso di scioglimento del partito e di fondazione di un nuovo raggruppamento – il Partito Popolare Socialista, PPS – su posizioni di sinistra socialista, accentuando quindi la “via democratica al socialismo”. Ma una minoranza dei delegati decise invece di mantenere in vita il PCB e, facendo autocritica delle posizioni assunte negli anni precedenti, di rilanciare l’opzione di classe attraverso la costruzione di un ampio fronte anticapitalista e antimperialista.

   Se nel 1998 e nel 2002 il PCB sostenne, nella sua visione frontista, la candidatura a presidente di Lula, la successiva rottura con il PT ha portato questo partito a nuove e precarie alleanze con altri partiti “rivoluzionari” o a contare solo sulle proprie limitate forze.   

   Costituitosi nel febbraio del 1962 sulla scia della rottura tra la Cina maoista e l’Unione Sovietica e con simpatie verso la rivoluzione cubana, il PCdoB si trovò assai presto a fare i conti con la violenza della dittatura militare, cui il giovane partito comunista – posto al bando – rispose organizzando, sia pure limitatamente ad alcune zone del vasto territorio brasiliano, la lotta armata. Ma la repressione dei militari e dei gruppi paramilitari di matrice fascista fu feroce: massacri, torture, sequestri decimarono dirigenti e militanti ed il partito rischiò di dissolversi a pochi anni dalla nascita.

   Con la fine della dittatura il PCdoB si risollevò, operando soprattutto all’interno dei movimenti sindacali e studenteschi che stavano progressivamente rianimando la vita sociale e politica del Paese. Dal 1989, poi, il PCdoB si è strettamente legato al PT, appoggiando ripetutamente i candidati petisti alla presidenza del Brasile.

  Ma il momento di maggiore espansione di questo partito è stato nel 1992 con il movimento popolare “Fora Collor” che portò alla destituzione del Presidente Collor de Mello in un contesto di grave crisi economica e di corruzione dilagante.

   Collocatosi in origine rigorosamente all’interno della tradizione marxista-leninista, il PCdoB, dopo aver etichettato come revisionista la svolta kruscioviana del XX Congresso del PCUS, ruppe i rapporti anche con la Cina a seguito delle riforme economiche in senso capitalistico avviate nel paese asiatico dal 1976, stabilendo invece un’intesa con la lontana Albania. Ma la caduta del socialismo anche nel “paese delle aquile” (1991), indusse questa organizzazione ad un ripensamento teorico (8° Congresso del 1992) che portò, pur ribadendo l’adesione agli ideali comunisti, il PCdoB a criticare l’esperienza bolscevica.

   Da quel momento il partito si è caratterizzato per una sua crescente istituzionalizzazione all’interno del sistema politico brasiliano. L’alleanza con il PT, quando vincente, ha consentito di volta in volta ai comunisti del PCdoB di disporre di una discreta pattuglia di parlamentari (14/15 deputati, 2/3 senatori), di occupare prestigiose cariche istituzionali (la Presidenza del Parlamento Nazionale, alcuni ministeri), di governare con un proprio rappresentante lo Stato di Maranhao (il più povero del Brasile).

   “Consolidare la presenza comunista nelle istituzioni, espandere l’influenza sulle classi popolari e sostenere l’alleanza delle forze democratiche e progressiste” costituiscono alcuni dei capisaldi della politica, anche elettorale, del PCdoB.

   Dallo scioglimento, nel 1992, del PCB – prontamente rifondato su iniziativa di una minoranza di militanti contrari alla sua soppressione – è sorto il Partito Popolare Socialista. Il PPS vale la pena ricordarlo solo per la presenza al suo interno di componenti marxiste che offrono a questa formazione politica una immeritata copertura, a sinistra, presso strati popolari e gruppi anche consistenti di lavoratori. Tanto che il PPS può contare spesso su gruppi parlamentari tali da poter effettivamente condizionare le scelte presidenziali e governative.

   Questo partito si distingue per un trasformismo che lo ha portato, di elezione in elezione, ora ad appoggiare il PT di Lula, ora ad allearsi con partiti di orientamento social-laburista, ora a collocarsi in eterogenee coalizioni “anti-luliste” assieme a forze moderate e di centro-destra (tra cui, in passato, il PSdB del già ricordato Alckim).

   Il PPS, pur rivendicando l’eredità del PCB e della “migliore” tradizione del pensiero marxista (!!), si definisce, tra i vari passaggi, un partito “umanista e socialista, democratico e laico, non dogmatico, non settario, pluralistico, anti-totalitario ed anti-verticistico”. Nel rinnegare il centralismo democratico, il PPS dichiara di aprirsi al filone dell’umanesimo libertario.

   Anche il PT ha subito a sua volta una scissione a sinistra che è sfociata nella formazione del Partito Socialismo e Libertà (PSoL).

Nel 2004 alcuni parlamentari, seguiti da diversi dirigenti e militanti del partito di Lula, dopo aver denunciato la politica conservatrice del partito, le sue alleanze troppo disinvolte, la corruzione e l’assenza di democrazia al suo interno, decisero di fondare questo nuovo movimento, che si colloca di fatto in un ambito di sinistra radicale ed anticapitalista.

   La sua comparsa sulla scena politica del Paese rianimò la fiducia nella lotta politica di molti iscritti al PT ma anche di intellettuali e militanti provenienti da altri partiti della sinistra brasiliana. Tanto che nelle elezioni del 2006 una coalizione – che comprendeva anche il PCB ed il PUSL (Partito Unificato Socialista dei Lavoratori)[4] – imperniata sul PSoL sfiorò il 7% dei voti, riuscendo a portare in Parlamento quattro rappresentanti, tutti di Socialismo e Libertà (Tra l’altro questa alleanza era stata sostenuta a livello internazionale da intellettuali quali Noam Chomsky, Ken Loach, Slavoj Zizek). Pur continuando a mantenere nelle successive tornate elettorali una rappresentanza parlamentare, il PSoL non ha più raggiunto una così rilevante percentuale di consensi.

   Al pari degli altri partiti della sinistra brasiliana anche il PSoL conta diversi dirigenti e militanti uccisi, spesso in circostanze “misteriose” (si fa per dire), durante lo svolgimento della propria attività politica (cioè alla testa di lotte sociali, in azioni di denuncia, in iniziative di sostegno ai poveri delle favelas delle grandi città, ecc.). Il caso più sconcertante fu quello dell’omicidio, nel maggio 2018, di Marielle Franco, attivista dei diritti umani e consigliera del PSoL nella municipalità di Rio de Janeiro. Un assassinio che vide coinvolti apparati della polizia, i famigerati “squadroni della morte” e le potenti bande di criminalità comune.

   Dopo il risultato del ballottaggio dello scorso 30 ottobre, il PSoL è attraversato da una profonda spaccatura tra un gruppo dirigente disposto in larga parte ad appoggiare il governo Lula e una componente maggioritaria di militanti – guidati dall’area di Esquerda Marxista- che si batte affinché il PsoL non rinneghi le ragioni della sua stessa nascita e si ponga risolutamente all’opposizione di un governo giudicato antipopolare e contrario agli interessi del proletariato.

UNA NUOVA SCISSIONE?

    Attualmente la sinistra politica brasiliana nel suo complesso – ed in particolare quella di matrice comunista e classista – non pare in grado di offrire una valida alternativa al moderatismo e al collaborazionismo di classe del PT e del suo leader. Ciò stride – ed anzi rischia di condizionarne negativamente lo sviluppo – con il dispiegarsi di esperienze sociali e sindacali che, pur tra molteplici ostacoli, si sono comunque manifestate con forza nel Paese soprattutto negli anni della presidenza Bolsonaro.

   Nei quattro anni (2018-2022) di governo della destra -un’accozzaglia litigiosa di nostalgici della dittatura militare, di neoliberisti, di fanatici evangelici, di esponenti di gruppi razzisti – le masse popolari e proletarie brasiliane hanno subito attacchi violentissimi sotto ogni punto di vista: dal drastico ridimensionamento del Welfare fondato sull’intervento statale alla controriforma pensionistica; dalla riduzione (fino al 30%) dei fondi destinati all’istruzione sia scolastica che universitaria alla compressione dei diritti sindacali nelle fabbriche; fino alla distruzione di parti consistenti della Foresta Amazzonica e alle speculazioni edilizie in zone costiere ancora incontaminate.

  Eppure, nonostante la forte repressione poliziesca e giudiziaria, la risposta popolare a queste, come ad altre misure, non è mancata.

  Milioni di brasiliani sono scesi in piazza nel corso dei mesi al grido di “Fora Bolsonaro”: da un movimento ambientalista sempre più cosciente e politicizzato ai movimenti a difesa dei diritti delle donne, delle popolazioni indigene ed afro-brasiliane; dalle associazioni dei dipendenti pubblici all’Unione Nazionale degli Studenti che, insieme agli insegnati, hanno cercato di reagire alla campagna governativa scatenata, a giustificazione dei tagli all’istruzione, contro la presunta “egemonia culturale marxista dominante nelle scuole del Paese”.

   Alla fine, si è giunti alla proclamazione di diversi scioperi generali che hanno interessato almeno 45 milioni di lavoratori in 380 città brasiliane e che, soprattutto, hanno visto finalmente la partecipazione di ampi settori operai (in particolare dell’industria mineraria, della produzione petrolifera, della metalmeccanica e della componentistica per auto). Fino a quel momento infatti la classe operaia, pur “scalpitante”, era stata tenuta a freno dalle oscillazioni delle principali organizzazioni sindacali presenti nel Paese, che facevano seguito alla tiepidezza con cui il PT aveva guardato a questo rinnovato protagonismo popolare. Non va infatti dimenticato che alcuni dei provvedimenti – ad esempio l’inasprimento dei requisiti pensionistici o determinati accordi con i grandi produttori agroalimentari in Amazzonia – adottati dalla destra, erano già stati allo studio dei precedenti governi della sinistra (da Lula alla Roussef, la quale, tra l’altro, non aveva esitato a reprimere le proteste di piazza che ne erano conseguite).

   Le incertezze, gli arretramenti, l’inadeguatezza del movimento sindacale pur nella sua varietà di sigle (CUT, CNT, ILOCT, FS) può costituire, quindi, motivo di “depressione” per quelle spinte provenienti dal basso (movimenti sociali, mondo del lavoro) che potrebbero viceversa muovere in direzione di un vero e profondo mutamento dei rapporti di forza tra le diverse classi in lotta.

LA CUT E GLI ALTRI SINDACATI

   La CUT (Centrale Unica dei Lavoratori) è il più forte sindacato del Brasile, potendo contare su poco meno di 24 milioni di iscritti (il 36% di tutti i lavoratori comunque sindacalizzati), ed il quinto nel mondo per numero di aderenti.

   Nata nel 1983, con il declinare della dittatura militare e la progressiva ripresa del movimento sindacale, la CUT faceva seguito alla fondazione (1980) del Partito dei Lavoratori, ponendosi, di fatto, come una sorta di “cinghia di trasmissione” del partito di Lula.

  Questa stretta alleanza tra sindacato e partito ha consentito a quest’ultimo di poter affondare solide radici nella classe operaia brasiliana, anche con il risultato di riuscire in tal modo a contenere – con grande soddisfazione innanzitutto della borghesia nazionale e internazionale – le spinte più radicali del proletariato. E’ pur vero che in determinati momenti la contiguità tra la CUT ed il PT –  una volta chiamato quest’ultimo ad esercitare il potere – ha subito comunque delle fratture ed il sindacato, di fronte ad atteggiamenti particolarmente impopolari dell’alleato politico (dalle resistenze governative alle richieste di aumento del salario minimo e di riduzione dell’orario di lavoro all’opposizione verso disegni di legge sulla esternalizzazione di molti servizi pubblici e sulla precarizzazione del lavoro, solo per citarne alcuni) ha scelto la via della protesta.

   Ma gli accomodamenti con il partito petista e le tergiversazioni -non ultima l’invito rivolto sovente agli operai di scioperare ma restando a casa ed evitando di scendere in piazza – del principale sindacato ha avuto come conseguenza il verificarsi di diverse scissioni.

   Nel 2004 nasceva, quindi, la CNT (Coordinamento Nazionale dei Lavoratori) – una sorta di movimento di lavoratori autoconvocati – che sosteneva un confronto più duro con il governo, qualunque fosse il suo colore. L’anno seguente (2005) si costituiva invece l’ILOCT (Strumento di lotta e organizzazione della classe lavoratrice) di orientamento comunista. Infine, nel 1991 venne fondata, in dichiarato contrasto con la CUT, Forza Sindacale (FS), la quale, meno compromessa sul piano politico e volta al raggiungimento di obbiettivi schiettamente sindacali, è arrivata ad annoverare nelle sue fila oltre 8 milioni di aderenti.

   La rivalità tra le diverse sigle sindacali – anche se talvolta, soprattutto su pressione delle rispettive basi, le varie dirigenze hanno comunque promosso manifestazioni unitarie di protesta e di lotta; la subordinazione dell’opposizione sociale e sindacale ai giochi  istituzionali dei partiti della sinistra; il timore, quindi, che il protagonismo operaio e popolare possa sfuggire al controllo, non solo sindacale ma anche politico, dei diversi gruppi dirigenti, possono costituire a tutt’oggi, come si è già scritto, un serio ostacolo all’avvio di un movimento dal basso di trasformazione quantomeno radicale, se non rivoluzionaria, della società brasiliana.        

   Un movimento sociale, invece, che è andato acquisendo sempre maggiore autorevolezza e maturità politica è quello del Movimento Sem Terra (SMT), cioè del Movimento dei Senza Terra.

   Si tratta di un movimento di lotta contadino (piccoli coltivatori, braccianti, famiglie rurali povere) che nel corso degli anni è diventato forse il più significativo dei movimenti sociali che attraversano il continente latino-americano.

   Questo movimento si è presentato per la prima volta nel panorama sociale brasiliano nel 1985 con l’occupazione da parte di 7000 lavoratori della fazenda Annoni, nello Stato del Rio Grande do Soul. Dopo otto anni di “esistenza e resistenza”, gli occupanti ottennero che 9300 ettari di quelle terre, prima oggetto della speculazione fondiaria, fossero riconosciuti come terre di riforma agraria (oggi 423 famiglie vivono e lavorano in quell’area recuperata ai bisogni popolari).

   Da quel momento la costruzione di questo percorso collettivo di riscatto sociale si è notevolmente rafforzata sia sul piano della forza numerica che su quello dell’estensione territoriale.

   Certamente questa crescita non è stata priva di sacrifici. All’occupazione di terre abbandonate o detenute illegalmente da ricchi latifondisti sulla base di false attestazioni di proprietà, oppure di terreni pubblici che si volevano svenduti a società speculative private, la risposta dei proprietari terrieri, dei loro eserciti privati, dello stesso Stato brasiliano è stata durissima. Centinaia sono i contadini, i militanti sindacali, gli attivisti dei diritti umani, caduti sotto la scure della repressione.

   Eppure, nonostante i pestaggi, le carcerazioni, le torture, gli assassinii, il MST ha resistito, affrontando con risolutezza e lungimiranza anche i quattro anni di “pugno di ferro” dell’amministrazione Bolsonaro.

   Innanzitutto, stabilendo importanti alleanze con altri movimenti sociali attivi nel Paese: dal MTST, cioè il Movimento dei Lavoratori Senza Tetto – movimento prevalentemente urbano che organizza occupazioni di alloggi ed auto-costruzioni in nome del diritto all’abitare – ai vari movimenti sorti a difesa dell’ambiente o dei diritti di minoranze etniche o di genere. Un insieme di forze sociali che sono infine confluite nel FPSM, Fronte del Popolo Senza Paura (Frente Povo Sin Medo).

   Quindi, “costringendo” di fatto diversi partiti della sinistra progressista e comunista a raccogliersi a loro volta in un, sia pur debole, Fronte del Brasile Popolare (Frente Brasil Popular).

   La maturazione politica del MST è apparsa evidente in questi anni dall’ampliamento delle tematiche affrontate direttamente dal movimento: non solo le occupazioni di terre e la battaglia per una più ampia riforma agraria ma anche il contrasto al fascismo, alla svendita del patrimonio pubblico o alla cessione delle ricchezze nazionali alle grandi multinazionali fino alla difesa delle conquiste sociali e civili sancite dalla Costituzione e messe in pericolo dalla destra.

   Alcuni di questi temi sono stati all’origine anche di aspri scontri con il Partito dei Lavoratori, al quale sono stati rimproverati i frequenti episodi di corruzione e di malversazione di diversi suoi dirigenti, i compromessi con forze politiche moderate, molte decisioni prese in campo economico e sociale ed attuate, in chiave antipopolare, dai suoi governi.

   Malgrado ciò l’appoggio del Movimento Sem Terra al PT non è comunque complessivamente venuto meno anche in queste ultime elezioni presidenziali, conclusesi con un incerto “testa a testa” tra Lula ed il fascista Bolsonaro.

   Certo è che questo sostegno non appare più incondizionato. Anzi la dirigenza del MST ha dichiarato che terrà alta la vigilanza sull’operato del nuovo esecutivo e pronta la mobilitazione a tutela delle rivendicazioni specifiche e generali sia del proprio movimento che di tutti gli altri movimenti sociali in lotta in terra brasiliana.

                                DOPO IL 1° GENNAIO 2023

   Il 1° gennaio, al termine di una cerimonia di insediamento svoltasi con il timore, più che giustificato, di possibili attentati, Lula ha dato avvio al suo terzo mandato presidenziale, chiudendo la fase (novembre-dicembre 2022) del cosiddetto “gabinetto di transizione” che, disertato da Bolsonaro, ha scadenzato il passaggio dei poteri dalla precedente amministrazione di destra a quella di “sinistra”.

   Nel giro di pochi giorni il nuovo presidente del Brasile ha dovuto far fronte – come era del resto prevedibile – ad una situazione politica interna assai complessa, caratterizzata sia dalla reazione violenta della destra al suo definitivo insediamento che dalla ricerca di difficili equilibri nella composizione del suo governo.

TENTATO GOLPE O VELLEITARIA SOMMOSSA?

   Mentre in tutto il Paese si registravano ancora le violenze di piazza, blocchi stradali, scioperi indetti dai sindacati vicini a Bolsonaro (con gravi conseguenze per i rifornimenti di negozi e supermercati), l’8 gennaio, nella capitale Brasilia, migliaia di militanti di estrema destra davano l’assalto al Palazzo del Governo, a quello del Parlamento e ad altre sedi istituzionali. Un’azione che ha ricordato l’attacco del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill da parte dei sostenitori di Donald Trump.

   Il tardivo intervento – in un rimpallo di responsabilità e di accuse di complicità con i manifestanti – della polizia e dell’esercito ha posto fine alle violenze ed ai vandalismi degli assalitori.

   In quella drammatica giornata si è consumato un vero tentativo di colpo di stato o i disordini avvenuti al Planalto si sono rivelati alla fin fine solo un atto estremo e disperato della destra brasiliana per impedire “il ritorno del marxismo” alla guida del Paese?

   Dopo settimane di picchettaggio dinanzi ai cancelli delle caserme della capitale a paventare l’incipiente pericolo “rosso”, l’assalto del 6 gennaio costituiva probabilmente nelle intenzioni dei dimostranti la miccia che avrebbe dovuto innescare l’azione golpista delle forze armate. Ma così non è stato. Perché?

   Innanzitutto, la “solidarietà” della comunità internazionale – non ultimi l’amministrazione Usa, l’Unione Europea, i più influenti mass-media occidentali – che si è prontamente compattata attorno a Lula e alla “democrazia” (borghese) brasiliana hanno reso evidente agli alti vertici delle forze armate che un loro pronunciamento non avrebbe potuto contare sulla necessaria copertura internazionale.

   Poi, l’assenza dal “teatro delle operazioni” di Bolsonaro -rifugiatosi prudentemente in Florida, da dove ha seguito il susseguirsi degli eventi – non ha certo giovato alla causa dei suoi seguaci. Ora la posizione dell’ex Presidente – malgrado la sua successiva dichiarazione di voler far ritorno in patria – appare assai indebolita, tanto che le decisioni che alcuni Tribunali statali devono ancora prendere in merito ai ricorsi presentati dai bolsonaristi contro l’esito del voto di ballottaggio nelle rispettive giurisdizioni territoriali, appaiono sempre più scontate a favore della vittoria lulista. E nonostante che, in caso di elezioni politiche anticipate, il Partito Social Liberale di Bolsonaro potrebbe oggi, secondo alcuni sondaggi, diventare il primo partito del Brasile -prosciugando il bacino elettorale, soprattutto nei settori di ceto medio, di diversi partiti moderati e conservatori- è assai probabile che la destra brasiliana si ponga da subito alla ricerca di un nuovo e meno compromesso leader.

   Infine la nomina a Ministro della Difesa dell’ex giudice Monteiro Filho, assai ben visto negli ambienti militari – tanto che lo stesso Bolsonaro aveva pensato di conferirgli il medesimo incarico in caso di sua vittoria – ha probabilmente rassicurato le forze armate circa i propositi di riforma dell’apparato militare ipotizzati da alcuni settori della sinistra brasiliana e che nella considerazione degli alti vertici militari apparivano come l’avvio di una sorta di “chavizzazione” delle forze armate brasiliane.

   Ciò non ha comunque impedito al nuovo Ministro della Giustizia, l’ex governatore ed ex giudice Flavio Dino, di ottenere, dopo l’assalto al Planalto, la destituzione e la messa in stato d’accusa di diversi alti ufficiali dell’esercito e della polizia in servizio presso la capitale e di far eseguire più di 1500 arresti tra i rivoltosi, compresi alcuni imprenditori che avevano finanziato la sommossa e un buon numero di ex militari ed ex poliziotti che avevano partecipato all’invasione della cittadella delle istituzioni brasiliane.

   La decisa risposta di Dino – uomo molto vicino al Presidente Lula – alle violenze dell’8 gennaio, è stato motivo di un forte scontro tra i due ministri – a tal punto che Monteiro Filho ha minacciato di dimettersi. Ma questo non sembra essere che il primo caso di una lunga serie di probabili situazioni di tensione e di attrito all’interno della nuova compagine governativa brasiliana.

IL GOVERNO LULA: UNA “VARIOPINTA” TORRE DI BABELE

   Il nuovo governo Lula conta 37 ministri – in luogo dei 23 che componevano il governo Bolsonaro – e in esso vi sono rappresentati ben 11 tra partiti di vario orientamento e movimenti espressione della società civile brasiliana.

   Undici ministeri sono occupati da donne – il governo più “rosa” dalla fine della dittatura militare – e nella compagine governativa hanno trovato posto anche esponenti delle bistrattate -soprattutto durante la presidenza Bolsonaro – comunità indigene.

Appare chiaro, quindi, che Lula, nel tentativo di allargare la sua maggioranza parlamentare, si è lanciato nella composizione di un governo fondato su un delicato equilibrio tra forze politiche e sociali in molti casi assai distanti tra loro

   Il PT ha il controllo di 10 dicasteri, 11 sono stati assegnati a figure considerate indipendenti (ma che in realtà, per la maggior parte, fanno capo comunque a dei gruppi politici), 9 ministeri sono in mano a politici provenienti da partiti di centro o, addirittura, tendenti a destra. I rimanenti posti sono stati attribuiti perlopiù a esponenti di partiti di sinistra (tra cui due riservati ai comunisti del PCdoB).

   Dopo aver blindato già a metà dicembre – affidandone la direzione a suoi fedelissimi compagni di partito – alcuni ministeri chiave per l’attività politico-istituzionale del suo governo (la “Casa Civile”), una sorta di superministro (Rui Costa) incaricato di coordinare l’azione dei singoli ministeri; gli esteri (Vieira); le finanze con Haddad, Lula ha poi a più riprese completato la sua “squadra” di governo, cercando di “soddisfare” – anche attraverso lo “spacchettamento” di alcuni ministeri – le tante richieste pervenutegli ma creando così le premesse per prossime occasioni di duri scontri all’interno della nuova compagine ministeriale.

  Scontata la vicepresidenza (nonché il ministero dell’Industria e del Commercio) al già ricordato Geraldo Alckim (PSdB), spiccano nel suo governo alcune personalità in contrasto tra loro e con lo stesso Lula.

   Suddivisa l’area economico-finanziaria in ben quattro ministeri (tra cui quelle con a capo Alckim e Haddad), alla pianificazione economica è stata chiamata Simone Tebet (del MDB), giunta terza al primo turno delle ultime elezioni presidenziali e molto vicina all’agrobusiness, mentre alla gestione ed innovazione dei servizi pubblici è andata Esther Dweck, ben vista nei forum della finanza internazionale.

   D’altronde, per non scontentare gli ambientalisti è stata nominata Ministro dell’Ambiente Marina Silva (della Rete di Sostenibilità Ambientale), esponente dapprima del PT e, dopo la sua fuoriuscita, feroce critica della politica ambientale di Lula.

  Due incarichi quasi sovrapponibili paiono essere quelli affidati rispettivamente ad Aniene Franco (sorella della Marielle, uccisa nel 2018) in qualità di Ministro per l’Uguaglianza Razziale e all’attivista indigena Sonia Guajajara – ostile al varo di politiche industrialiste in Amazzonia – come Ministro per i Popoli Originari.

   Come, del resto, va sottolineato lo sdoppiamento dell’importante settore agricolo, con il Ministero dell’Agricoltura finito in dote a Carlos Favaro del PSdB e rappresentante di Aprosoja, (la forte associazione degli imprenditori e degli esportatori di soia) ed il Ministero dell’Agricoltura Familiare controllato dal PT tramite un suo esponente vicino al movimento MST.

   Ed altri ministeri ed incarichi potrebbero essere ancora ricordati come manifestazione della volontà di Lula di ricompensare coloro che lo hanno appoggiato nella battaglia finale contro Bolsonaro e di inglobare nella sua maggioranza parlamentare un arco di forze talmente variegato da dare la stura a comprensibili dubbi sulla effettiva tenuta di questo governo.

I PRIMI PASSI DEL NUOVO GOVERNO IN PATRIA

   Ed in effetti i primi provvedimenti adottati dall’esecutivo Lula all’indomani del 1° gennaio hanno già suscitato non pochi malumori all’interno della composita maggioranza governativa.

   L’immediato stanziamento, votato dal Parlamento al di fuori del “teto de gastos” (norma che limita la spesa pubblica), di ingenti fondi finalizzati al rilancio del Welfare – in particolare la Bolsa Familia – ha causato preoccupazione in merito alla copertura finanziaria del provvedimento, che si vorrebbe assicurare, da parte del Ministero delle Finanze, con una prossima riforma fiscale più “incisiva” verso i patrimoni dei ceti più ricchi della società brasiliana. Questa ipotesi finirebbe, però, per scontentare quei partiti moderati della coalizione – e, all’interno del governo, ministri come la Dweck ad esempio – che chiedono, al contrario, una minore pressione fiscale nei confronti del ceto imprenditoriale quale condizione per rilanciare gli investimenti e l’occupazione. La disputa, appena agli inizi, ha da subito provocato dei contraccolpi in Borsa e l’indebolimento del real, la moneta brasiliana.

   Inoltre, altro motivo di forte discussione, il sostegno sociale alle famiglie risulterebbe subordinato all’adesione delle stesse ad una campagna vaccinale obbligatoria – con plauso da parte dell’OMS – ed alla paventata carcerazione per quei genitori con figli minori che non dovessero adempiere a tale obbligo (di quest’ultima minaccia si stanno facendo propugnatori in particolare i parlamentari del PSdB).

  Varate poi disposizioni più restrittive sulla concessione del porto d’armi e sul loro possesso ed utilizzo (ampiamente favoriti invece dalle leggi volute dall’ex militare Bolsonaro), il nuovo governo ha bloccato il processo di privatizzazione di interi comparti di Petrobras, la potente compagnia petrolifera brasiliana, e di servizi pubblici come le Poste o l’Azienda Pubblica delle Comunicazioni (EBC).

  Queste decisioni non hanno avuto di certo il gradimento di investitori interni ed internazionali desiderosi di accaparrarsi fette consistenti dell’esteso mercato brasiliano. Ma il governo Lula aveva, perlomeno in questa fase, la necessità di rassicurare e di tutelare i lavoratori di questi importanti settori pubblici, anche in considerazione del fatto che il Ministero del Lavoro è controllato proprio dal PT.

   Altri fondi dovrebbero essere poi stanziati dal governo a favore di istruzione e cultura ma una partita determinante che il governo Lula si troverà a breve a dover giocare è quella della riforma delle pensioni, su cui si concentrano pressioni esterne da parte di organismi sovranazionali (FMI) “attenti” ai conti del bilancio statale brasiliano.

   Tra i primi atti anche l’istituzione – mal digerita dalle componenti più conservatrici della maggioranza – della segreteria per i diritti delle persone LGBT, fortemente voluta dal Ministro per i diritti umani, l’afrodiscendente Silvio Almeida.

…E FUORI DAI CONFINI NAZIONALI

   L’equilibrismo di cui Lula ha fatto sfoggio negli affari interni del Brasile ha il suo corrispettivo nelle posizioni assunte dal neopresidente fuori dai confini nazionali.

   Dopo essersi abilmente districato -da politico di lungo corso qual’è il “presidente operaio” – tra le diverse e spesso ostili tra loro (Usa-Russia, Usa-Venezuela, Ucraina-Russia) – delegazioni estere presenti alla cerimonia d’insediamento, Lula ha immediatamente lanciato il suo Brasile, sulla base di una visione multipolare delle relazioni tra gli stati, alla conquista di un ruolo da protagonista nel convulso scenario internazionale.

   Innanzitutto, a margine della riunione a Buenos Aires degli stati centro-sud americani aderenti alla Celac, l’Argentina del Presidente Alberto Fernandez ed il Brasile di Lula hanno avviato solide trattative per addivenire all’adozione di una moneta unica (il “SUR”) per i due paesi, con l’obbiettivo di contrastare il predominio del dollaro USA nelle transazioni commerciali tra gli stati del continente americano.

   Quindi una delegazione brasiliana è volata in vari stati africani per stringere nuovi accordi commerciali relativi all’import-export di materie prime e di altre risorse.

   Il Ministro degli Esteri brasiliano, in una sorta di equidistanza tra le grandi potenze mondiali, ha confermato la disponibilità del suo Paese ad un dialogo da pari a pari con gli Usa e la UE ma ha riaffermato al contempo l’importanza delle buone relazioni che intercorrono tra il Brasile e la Cina. Ma, soprattutto, Vieira ha opposto un netto rifiuto alla richiesta avanzata al nuovo governo da alcuni stati europei di inviare armi all’Ucraina. Salvo poi il rappresentante brasiliano votare in sede ONU a favore della nuova mozione di condanna della Russia, approvata a larga maggioranza ad un anno dall’inizio della guerra.

   Lo stato sudamericano pare volersi attestare sostanzialmente sul piano diplomatico, in relazione alla spinosa questione della guerra russo-ucraina, su una posizione di “neutralità attiva”, che gli garantisce spazi sufficienti per muoversi più agilmente nel richiedere una soluzione negoziale del conflitto.

LA SINISTRA BRASILIANA DOPO LA COSTITUZIONE DEL GOVERNO LULA

   Molti analisti sia brasiliani che internazionali sono convinti che questo nuovo governo Lula non sopravvivrà a lungo, schiacciato dalle molteplici contraddizioni interne e dalle forti pressioni che si riverseranno su di esso dal complesso quadro internazionale. Lula si troverà, a loro giudizio, a dover fare scelte che lo porteranno a scoprire uno di quei due fianchi che, al momento, è riuscito a porre sotto controllo.

    Se si sposterà troppo a sinistra, ciò potrà rappresentare un’occasione di rilancio per la destra, anche estrema, soprattutto se emergerà nelle sue file un leader più credibile di Jair Bolsonaro. Se volgerà verso posizioni troppo moderate, si potranno aprire spazi per l’azione delle forze politiche che si collocano alla sua sinistra.

   Ma, a dirla tutta, quale sinistra e soprattutto quali gruppi della sinistra radicale potrebbero veramente approfittare di un eventuale scenario politico di questo tipo?

   Considerando che il PCdoB ed il PsoL sono parte della maggioranza parlamentare ed esprimono anche alcuni ministri (rappresentanti dei rispettivi partiti o figure d’area che siano) nel nuovo governo; che il PCB, pur ponendosi risolutamente all’opposizione, appare molto isolato nel Paese (per non parlare di altri minuscoli gruppetti di varia tendenza: trotzkisti, maosti, guevaristi, ecc.), solo un sommovimento dal basso, di realtà sindacali o sociali più coscienti potrebbe portare a soluzioni più avanzate.

   Certo è che il controllo esercitato dal PT e dalla CUT sulle masse popolari e proletarie brasiliane è molto forte. Lo si è riscontrato in occasione della recente e violenta reazione fascista alla vittoria di Lula, quando la proposta avanzata da alcuni settori della sinistra di creare nel Paese squadre popolari di autodifesa -sull’esempio dei “Colectivos” venezuelani – è stata prontamente rigettata. La stessa tutt’altro che massiccia mobilitazione popolare in difesa di Lula dai tentativi della destra di rovesciarlo nei primi giorni dell’anno è almeno in parte il risultato dell’azione frenante del PT volta ad imbrigliare i settori più combattivi del proletariato, evitando così una decisiva resa dei conti tra gli opposti schieramenti nelle strade e nelle piazze.

   Come, d’altra parte, questa “tiepidezza” popolare potrebbe anche significare – e ciò costituirebbe un non trascurabile campanello d’allarme per il “presidente operaio” – una sorta di delusione delle masse brasiliane verso le scelte compiute da Lula nella formazione del governo che lo affiancherà nella guida del Brasile.

   D’altronde non raramente – e ciò non solo in Brasile – le masse popolari ed il proletariato si possono rivelare più lungimiranti, rispetto a ciò che li attende, degli stessi gruppi dirigenti dei partiti che li dovrebbero difendere dallo sfruttamento e dall’oppressione padronale.


[1] Basti pensare che la moglie dell’ex Presidente si è recata al voto indossando una maglietta con sopra stampata la bandiera di Israele. Ovviamente fotografata, la sua foto è stata diffusa, senza alcuna rimostranza, sulle principali reti social.

[2] Che è conseguente dall’essere una sinistra borghese, ovvero che intende agire all’interno dei rapporti di produzione capitalisti, che non intende superarli.

[3] La “società civile” nell’imperialismo è costituita da tutti quegli organismo e da quelle istituzioni (sistemi di rappresentanza, partiti, sindacati, apparato ecclesiastico, apparati culturali, compreso la scuola e l’università,  mass media, organismi sportivi, terzo settore e ONG ecc.) che a diversi livelli, interfacciandosi con vari strati borghesi intermedi, hanno il compito di gestire, direttamente o meno, la società e quindi il proletariato e le masse popolari in funzione della costruzione del consenso necessario al dominio economico, politico e militare del capitale finanziario di Stato. La società civile esercita quindi il dominio egemonico poggiando sui centri economici dominanti e sulla macchina burocratico-militare. Il suo compito principale è quello di garantire il massimo consenso possibile al capitale finanziario e ai suoi apparati repressivi. La società civile, soggetta al logoramento ciclico dei processi di costruzione del consenso, deve provvedere di volta in volta a “rinnovarsi” e quindi a contribuire a rinnovare la classe intellettuale e di governo al fine di ripristinare il consenso su nuove basi. Ciò avviene o almeno viene tentato attraverso rivoluzioni passive. il fascismo, la socialdemocrazia, il liberalismo ecc. emergono di volta in volta come esito dell’affermazione di una determinata rivoluzionaria passiva. Le rivoluzioni passive cercano di chiudere fasi di profonda crisi economica e di acute contraddizioni politiche, sociali, e ideologiche a favore degli interessi e delle finalità strategiche del capitale finanziario. In questo modo imponendo tali rivoluzioni passive il SCMS cerca di sopravvivere, di ristrutturarsi e persino rinnovarsi.

[4] Trotskista della componente morenista.

DA MK-NAOMI A MK-ULTRA

•giugno 3, 2023 • 1 commento

   Il primo attacco di guerra biologica di cui abbiamo memoria risale nel 1364, epoca in cui i mongoli catapultarono all’interno delle mura di Caffa, colonia genovese costiera della Crimea, i cadaveri infetti da un letale batterio: un episodio che dava inizio alla grande pandemia europea della pesta nera[1]. Seguivano i britannici che nel 1763 britannici che nel 1763 consegnavano coperte infettate dal virus del vaiolo ai nativi americanidi Fort Pitt (oggi Pittsburgh)[2], e quasi duecento anni dopo i giapponesi infestarono le città cinesi col batterio dell’antrace e le aspergevano con pulci infettate e colera[3].

   Siamo così alla Seconda guerra mondiale e alle aberrazioni della sperimentazione dei vari Dr. Joseph Mengele e Dr.Shiro Ishii che, lungi dall’essere mostri isolati, avevano al seguito buona parte del settore medico-farmaceutico tedesco. E siamo così al Progetto Paperclip.

   L’operazione Paperclip fu un programma segreto della Joint Intelligence Objectives Agency (JIOA) portato avanti specialmente dagli agenti speciali del CIC. In questo progetto più di 1.600 scienziati, ingegneri e tecnici tedeschi, come Wernher von Braun e il suo team del missile V-2, furono portati dalla Germania agli USA, affinché fossero assunti dal governo statunitense, principalmente tra il 1945 e il 1959. Alcuni erano ex-membri del partito nazista[4].

   Difficile non individuare il contagio di ideologie malate relative a razza, eugenetica[5], controllo sociale, guerra psicologica e biologica in progetti sinistri quali Mk-Naomi, nome in codice di un programma di ricerca e sperimentazione iniziato nel 1952 e terminato (solo ufficialmente) nel 1969) per volere di Richard Nixon[6], che in quello stesso anno aveva annunciato la rinuncia americana alla sperimentazione di agenti tossici e biologici: un’iniziativa culminata nel 1972 nel Biological and Toxin Convention (Brcw), trattato che vietava la produzione, il possesso, lo stoccaggio di armi tossiche e biologiche a uso offensivo. Firmato contemporaneamente a Londra, Mosca e Washington, non sarebbe stato rispettato da nessuno.

   MK-Naomi era una joint-venture fra la CIA e il Pentagono, e più precisamente fra la Technical Service Division della CIA e la Special Operation Division del comando militare di Ft. Detrick: un progetto nel cui contesto l’esercito era stato chiamato ad affiancare l’agenzia per immagazzinare patogeni letali o incapacitanti e per sviluppare congegni preposti alla loro diffusione.

   Negli anni Cinquanta e Sessanta il Dr. Saul Krugman, ricercatore dell’università di New York, aveva deliberatamente infettato col virus dell’epatite i bambini affetti da ritardi mentali della Willowbrook State School di Staten Island: una “ricerca”[7] autorizzata dalla New York University Scholl of Medicine e un consenso estorto ai genitori dicendo loro che i bambini avrebbero ricevuto un vaccino[8].

   Disturbante anche quanto è successo nel 1963 al Jewish Chronic Disease Hospital, ai cui pazienti erano state iniettate cellule cancerogene vive per determinare quanto più a lungo le stesse potessero vivere in pazienti debilitati ma sani rispetto a quelli malati[9].

   Da menzionare anche che nel 1952 cellule cancerogene erano già state iniettate da un ricercatore dello Sloan Kettering Institute ai detenuti del penitenziario dello Stato del Ohio.

   Impossibile valutare l’esatta portata di tanto orrore, essendo stata la documentazione al riguardo volutamente distrutta nel 1973 per ordine del direttore della CIA Richard Helms. Quanto è rimasto è però stato oggetto dell’indagine di due commissioni di inchiesta americane: una prima nel 1975 e una seconda nel 1977. Recitava quest’ultima: “La Technical Division della Cia ha dato vita a ben 144 sotto-progetti relativi al controllo del comportamento umano… Sotto il progetto Mk-Noemi l’esercito ha assistito la Cia nello sviluppo e nella sperimentazione di agenti biologici e dei loro sistemi di trasmissione, per un utilizzo contro esseri umani animali e raccolti…Siamo ora in possesso dei nomi di 185 ricercatori e assistenti non governativi e di 80 istituzioni implicate in tale attività… Le istituzioni includono 44 collegi o università, 15 fondazioni o compagnie farmaceutiche, 3 istituti penali, 12 ospedali o cliniche[10].

   Ospedali, cliniche, e ricercatori dunque: una classe medico-scientifica corrotta che ha fatto del giuramento di Ippocrate carta straccia, che si è posta al servizio di un potere deviato e ha esteso i suoi tentacoli en oltre a fine della guerra, dilatatasi nel tempo e nello spazio. Impossibile non ravvisarne la nazi-connection sullo sfondo e non chiedersi dove sia arrivata la sua forza d’urto. Lo stesso New York Times avrebbe in seguito denunciato l’estensione del sostegno dai vari servizi segreti USA agli scienziati nazisti, entrando nei dettagli in alcuni casi[11]

   È emerso che il processo di degenerazione della ricerca medica del dopoguerra non era il prodotto della follia criminale di pochi ex nazisti o di medici emarginati e simpatetici della causa nazista, quanto piuttosto il risultato di una più estesa mobilitazioni dei ceti di riferimento, una mobilitazione che si era avvalsa di un complessa rete di relazioni, di un intrecci di istituzioni politiche, accademiche, ospedaliere e farmaceutiche. Analoga conclusione era emersa anche dal processo ai medici di Norimberga, dove veniva menzionata la sistematica mobilitazione del settore medico-farmaceutico a sostegno del progetto di ridefinizione raziale.

   Mk-Naomi era una branca del famigerato Mk-Ultra[12], un progetto mirato a modificare e pilotare il comportamento umano. Questo progetto era stato autorizzato da Allen Dulles nel 1953, epoca in cui aveva assunto la direzione della CIA: una decisione ufficialmente motivata dalle confessioni e auto-confessioni di responsabilità rilasciate dai prigionieri statunitensi durante la guerra di Corea fossero attribuiti alla somministrazione di chissà quali sostanze psicotiche.

   Era stata una mossa puramente formale, con la quale Dulles aveva legittimato una sperimentazione già esistente dal 1951 come Project Bluebind[13].Finalizzata all’epoca a esasperare ulteriormente tecniche già estreme di interrogatorio e tortura in località segrete quali Camp King[14] (Germania), nel 1952 era stato rinominato Project Artichoke (Progetto Carciofo), dal nome del vegetale preferito da Allen Dulles, che alla sua direzione aveva posto Sidney Gottlieb, biochimico reclutato in quello stesso anno e da lui subito assegnato al programma di guerra biologica di Camp Detrick.  

   Gottlieb ottenne un’autorità assoluta su tutti i progetti di controllo mentale, esperimenti che nel corso degli anni avrebbero assunto nomi in codice diversi. Fra questi, il più diabolico, era sicuramente Project Monarch, che era un programma di ricostruzione mentale iniziato negli anni Sessanta e così chiamato dal nome di una specifica farfalla americana.

   Questa tecnica di controllo consisteva nell’infliggere alla vittima di turno un trauma violento alla mente di sfociare in una dissociazione strutturata della mente. Che così indebolita, veniva esposta a rieducazione, riprogrammazione e creazione delle personalità multiple richieste. Si presume sia ascrivibile Monarch la creazione della schiavo e dell’assassino perfetto: il candidato manciuriano.

   Ma perché Monarch? Perché il trauma subito produce nella vittima una leggera sensazione di vertigine paragonabile alla svolazzare della farfalla. Parliamo in pratica di un sadismo tale da suggerire l’influenza degli scienziati nazisti clandestinamente importati negli USA con il Progetto Paperclip: un’influenza resa evidente dalle strette correlazioni esistenti fra i sottoprogetti di Mk-Ultra e gli esperimenti esistenti nei campi di Auschwitz e Dachau, ma anche dai numerosi casi documentati e pervenuti nel corso degli anni.

   Fra questi, un esempio era quello del Dr. Hubertus Strughold, scienziato che aveva supervisionato orribile esperimenti effettuati nel campo di Dachau quali, fra i tanti, immersioni in acque gelate e invasivi interventi chirurgici effettuati allo scopo di verificare il livello di sopportazione del dolore: esperimenti che spesso conducevano alla morte.

   Importato negli USA con Paperclip e ingaggiato dalla NASA, Strughold era stato naturalizzato statunitense, incensato e celebrato quale padre della medicina aereospaziale statunitense, almeno fino alla sua morte (1986), quando le indiscrezioni sul suo passato iniziarono a trapelare.

   Con MK-Ultra si entra nel campo della militarizzazione della scienza e della psicologia con tecniche designate a riprogettare il cervello umano per arrivare al controllo della mente.

  Si potrebbe dire che Mk-Ultra fu una joint-venture fra la sperimentazione americana e quella nazista. Che grazie a tutto questo i seguaci del Dr. Mengele tornarono in azione.


[1] https://www.scienzainrete.it/articolo/breve-storia-della-guerra-biologica/francesco-aiello/2012-02-28

https://it.wikipedia.org/wiki/Assedio_di_Caffa

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_di_Pontiac#:~:text=Usando%20la%20guerra%20batteriologica%20gli,uccise%20buona%20parte%20della%20popolazione.

https://www.geopop.it/il-massacro-dei-nativi-americani-come-e-perche-gli-europei-sterminarono-gli-indigeni/

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Unit%C3%A0_100

https://it.wikipedia.org/wiki/Crimini_di_guerra_giapponesi

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Paperclip

http://api2.edizpiemme.it/uploads/2014/02/9788856636543-operazione-paperclip.pdf

[5] L’eugenetica non nasce nella Germania di Hitler. Tra i sostenitori e i finanziatori del movimento eugenetico negli USA ci sono i Ford, i Bush, gli Harriman e i Rockefeller. In particolare nel 1952 John D. Rockefeller aveva fondato il Population Council, think tank che avrebbe in seguito ospitato la sede della American Eugenics Society. E lo aveva fondato con John Foster Dulles, che si apprestava a diventare segretario di Stato. Il fratello era all’epoca già vice direttore della CIA.

[6] Il 25 novembre 1969 Richard Nixon, con ordine esecutivo, annunciava la rinuncia americana all’uso di armi biologiche e nel febbraio 1970 decretava la cessazione della ricerca e ordinava la distruzione dell’arsenale di armi biologiche per uso offensivo disposizione disattesa dalla CIA.

[7] Da mettere tra parentesi ricerca poiché quello era nella realtà era un esperimento nazista.

[8] Andrew Goliszek, In the Name of Science, St. Martin press, 2003.

[9]                                         C.s.

[10] US Senate Select Committee in intelligence and Subcommitte on Health and Scientific Research of Committee on Human Research, Washington, 3 agosto 1977.

[11] Eric Lichtblau, Nazi Were Given ‘ Safe Hassen in US, Report Say, The Ney York Times, 13 novembre 2010.

[12] Germana Leoni, Deep state L’ombra del Quarto Reich, NEXUS EDIZIONI, Battaglia Terme (PD), 2023, p. 37.

[13]                                                              C.s.                                                                                                             p. 38.

[14] . Durante la Seconda guerra mondiale Camp King era un centro di interrogatori nazista, poi trasformato dagli americani in centro di detenzione e sperimentazione clandestina.

LE DIVERSE FASI DELL’ERA POST-SOVIETICA

•Maggio 31, 2023 • Lascia un commento

   Nel 1992 venne pubblicato un libro particolare che immediatamente suscitò un accesso dibattito dividendo i lettori tra avversari ed estimatori: La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama. Nonostante il successo di pubblico, si trattava di un libro dedicato alla classe dirigente dell’Occidente imperialista ed in particolare modo a quella USA, è un libro celebrativo della “presunta vittoria” del cosiddetto mondo “libero” sull’Unione Sovietica e sul blocco di quello che veniva definito “socialismo reale”.

   Negli anni Novanta le classi dirigenti dell’Occidente imperialista furono pervase da un autentico delirio di onnipotenza che Fukuyama ebbe lo spirito cortigiano ma anche un innegabile coraggio di tradurlo in un libro allo scopo d’ammantarlo di una nobile veste tessuta di filosofia della storia. Il politologo USA, in nome e per conto delle classi dirigenti occidentali imperialiste, in sintesi si potrebbe dire per conto della Borghesia Imperialista (ovvero la frazione dominante della borghesia negli USA e negli altri paesi occidentali), annunciava “urbi et orbi” che la Storia (quella con la S maiuscola) universale dell’uomo, non intesa come concatenazione cronologica di avvenimenti, ma come movimento complessivo dell’umanità espresso nel termine tedesco di Weltanschauung (visione del mondo)[1], era finalmente giunta al suo epilogo. Questa tesi del libro si concentrava sull’analisi delle ragioni che avevano determinato le sconfitte in tutto il mondo da un lato del “totalitarismo comunista” e dall’altro dei regimi dittatoriali di destra, disfatte che avevano aperto la via, all’affermazione mondiale della democrazia liberale e del suo indissolubile “compagno di strada”: il capitalismo del “libero mercato”.

   Nel libro di Fukuyama si possono scorgere tre livelli di lettura: una è quella di una distorta interpretazione filosofica della storia poiché riguarda l’aspetto celebrativo che nasce da una sequenza di eventi tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta che potevano dare adito della vittoria definitiva del campo occidentale (e dunque del modo di produzione capitalistico) nella guerra fredda. Nella realtà la fine della sfida tra USA e URSS (che fino a che non prevalsero i revisionisti nei paesi socialisti era una contraddizione tra due modi produzione differenti) non seguì una Pax Americana, ma bensì una brutale serie di regolamento di conti in pure stile gangsteristico e di conflitti. In altre parole, la vittoria delle democrazie borghesi è stata anche la vittoria di un liberismo senza regole che è stato portatore di sciagure sia al di qua che al di là della cortina di ferro.

  Sul banco degli imputati per lesa maestà nei confronti della Casa Bianca finirono a vario titolo e con diverse condanne: la Repubblica Democratica Tedesca, la Jugoslavia, l’Iraq, perfino l’Italia (o meglio la classe dirigente del regime democristiano – da comprendere i dirigenti del PSI che cogestivano questo regime in maniera concorrenziale rispetto ai DC – che non intendeva allinearsi ai nuovi equilibri politici ed economici del dopo crollo del Muro di Berlino) e sotto un certo punto di vista anche la Gran Bretagna con la controversa morte della principessa del Galles Diana Spencer che fece da viatico ai governi più collaborazionisti targati Tony Blair  e Gordon Brown. Al contrario la sua risibile analisi filosofica e storica, l’impalcatura europee ideologica fornita da Fukuyama alle bisognose classi dirigenti americane e in subordine europee è stata quella che ancora oggi pervade la cultura politica del mondo occidentale. Anzi, mai come oggi, con la crisi dell’imperialismo USA, La fine della storia e l’ultimo uomo fornisce il cemento ideologico ad una Borghesia Imperialista declinante e per questo più dispotica su entrambe le rive dell’Oceano atlantico. Fukuyama scrive le tavole della legge: la democrazia liberale fondata sui partiti è l’unica forma di rappresentanza della volontà popolare possibile; il sistema capitalistico è l’unica forma d’organizzazione economica affidabile; la salvaguardia di alcune forme di diritti sono la ragione suprema del fare politica.

   Per il politologo questi diritti sono:

  1. L’esenzione dal controllo dallo Stato del cittadino per quanto riguarda la sua persona e la sua proprietà;
  2. L’esenzione dal controllo per quanto riguarda l’espressione di opinioni religiose e la pratica del culto;
  3. L’esenzione dal controllo in materie che non riguardano il benessere dell’intera comunità in maniera talmente chiara da rendere necessario il controllo stesso.

    Mancano all’appello i diritti economici e sociali e segnatamente quelli del lavoro, di un’equa tassazione, di una corretta redistribuzione del reddito che teoricamente dovrebbero essere i capisaldi di una politica socialdemocratica nell’ambito di un sistema di democrazia liberale.

   Su questo punto Fukuyama è chiaro e perentorio: “Quella di premere per il riconoscimento di vari diritti economici di seconda e terza categoria quali il diritto al lavoro, alla casa e all’assistenza sanitaria, è stata prassi comune a tutti i paesi socialisti. Ma un simile allargamento della lista presenta un grosso problema, e cioè l’incompatibilità del riconoscimento di questi diritti con quello dei diritti di proprietà e di libero scambio”. Questo passaggio fondamentale è alla base del definitivo divorzio tra i diritti civili e sociali, disgiunzione necessaria per elevare i privilegi ed i vizi della classe borghese dominante a “diritti civili”, fenomeno giunto al suo compimento ai nostri giorni.

   Un altro concetto di Fukuyama che è oggi alla base del processo di mitizzazione del sistema democratico borghese, al quale non serve essere sostanziale ma solo formale: “La democrazia invece è il diritto universale ad avere una parte del potere politico, ovvero diritto di tutti i cittadini di votare e di partecipare all’attività politica… Nel giudicare quali paesi siano democratici, noi ci atteremmo ad una definizione della democrazia strettamente formale. Un paese è democratico se permette ai propri cittadini di scegliersi il governo che vogliono attraverso elezioni periodiche, pluripartitiche e a scrutinio segreto in base a suffragio universale ed eguale”. Votare non è più il mezzo di espressione della volontà popolare per far prevalere una determinata linea politica, ma è semplicemente un atto fine a sé stesso in quanto elettore si trova a scegliere partiti e programmi sostanzialmente identici. Ecco la ragione per la quale è corretto affermare che allo stato attuale la democrazia borghese incentiva l’astensione.

L’illusione da parte dell’Occidente imperialista della vittoria

   Negli anni Novanta gli Stati Uniti e la Borghesia Imperialista internazionale (la frazione dominante della borghesia che aveva individuato negli USA, per via della potenza militare e tecnologica, la potenza dominante) pretese la fine dell’economia mista (frutto del ciclo economico espansivo che c’è stato nel secondo dopoguerra e della presenza di un forte movimento operaio nel nostro paese) e quindi dei partiti che la proteggevano (seppure in maniera concorrenziale tra di loro). La Democrazia Cristiana, innanzitutto, nemmeno il PCI fu graziato, semplicemente la sua esecuzione fu affidata ai suoi dirigenti piuttosto che alla Procura della Repubblica come accaduto per la DC e il PSI.

   Per quanto riguarda la Germania e lo smantellamento della DDR bisogna partire dall’uccisione del Presidente della Deutsche Bank il 4 dicembre 1989, attribuito alla RAF. Egli era la mente della strategia dell’unificazione tedesca (borghese ovviamente) imperniata sul principio di “uno stato – due sistemi, nella sostanza prevedeva un’economia mista pubblico-privata come in Italia.

   Questa strategia fu abbandonata a favore della linea di Helmuth Kohl che era quella di liquidare completamente la DDR e annetterla alla Repubblica Federale Tedesca “manu militari”. Il modello di annessione adottato nei confronti della DDR fu adottato a tuti gli altri paesi del cosiddetto “socialismo reale”. Tale modello di annessione prevedeva la totale cancellazione dell’organizzazione produttiva e sociale dei paesi dell’Est e la loro brutale ed immediata assimilazione ai sistemi occidentali, rendeva però obsoleta ed inadeguata la vecchia organizzazione della Comunità Europea e questa fu la ragione che determinò i 12 governi della vecchia CEE a adottare d’urgenza il trattato di Maastricht il 7 febbraio 1992.

   Un fattore da tenere conto che ha favorito ed accelerato l’integrazione europea è il fatto che la fine della cosiddetta guerra fredda ha visto l’acutizzarsi delle contraddizioni interimperialistiche, tra i diversi poli imperialisti (U.S.A., Europa – Germania e Francia in particolare – e Giappone).  Ad accentuare questo contrasto, dalla metà degli anni’ 70 c’è la crisi economica che esaspererà la concorrenza.

   Quest’accentuazione della concorrenza serve a decidere chi deve fare le spese dell’eccedenza del capitale, essendo l’attuale crisi economica, una crisi di sovrapproduzione di capitale.

   Può aiutarci a capire tutto ciò, l’analisi condotta da Marx, che dimostra che nell’ambito del modo di produzione capitalistico a un certo punto, quando il capitale accumulato giunge a un certo livello e di conseguenza il saggio medio di profitto scende, si crea un conflitto tra creazione di plusvalore e realizzazione del profitto prodotto. I capitalisti dovrebbero investire tutto il plusvalore estorto, anche se così facendo il tasso di profitto diminuisce. Se i profitti attesi diminuiscono, i capitalisti cessano l’accumulazione, con la conseguenza di non valorizzare tutto il plusvalore estorto. Ma per sua natura il capitale non può accettare né produrre meno plusvalore né non valorizzare tutto il capitale, e da questo tipo di dinamica che nasce la crisi attuale.   

   In questa fase diminuisce il capitale impegnato nella produzione e aumenta il capitale impegnato nella sfera finanziaria.

 Quest’aumento del capitale finanziario fa sì che la crisi in questa fase assume la veste di crisi finanziaria. I movimenti propri del sistema finanziario diventano essi stessi un ulteriore fattore di sconvolgimento del capitale impegnato nella produzione di merci e una via attraverso cui la crisi compie il suo cammino.

   Ne deriva un’enorme accelerazione del processo di concentrazione dei capitali che tentano di raggiungere la “massa critica” indispensabile per reggere lo scontro con i concorrenti. Tale processo, nel corso degli anni, ha trovato una proiezione nello sforzo di ciascuna grande potenza imperialistica di costituire aree economiche integrate, al cui interno si cerca di portare al minimo la concorrenza tra i capitali, in modo da concentrare i propri sforzi nella lotta contro i concorrenti esterni. In tal senso si sono mossi gli U.S.A., che hanno cercato attraverso il Nafta di costituire un’area di libero scambio. Allo stesso modo il Giappone, che si muove da tempo per cercare di sottomettere alla propria influenza un’area del Pacifico dai confini sempre più ampi e che rappresenta un punto focale dello scontro interimperialistico, lo stesso discorso vale per la Cina.

   Confrontarsi con queste aree a dominanza statunitense, giapponese e cinese è divenuto impossibile senza gettare sul piatto della bilancia un potenziale economico del medesimo ordine di grandezza: i paesi europei, con la Germania in prima devono cercare di abbandonare ogni ambizione di contare nelle relazioni internazionali per la supremazia se avessero continuato ad agire in ordine sparso senza avere, presi singolarmente, una capacità economica paragonabile a quella dei concorrenti. Dentro questo quadro dei rapporti mondiali è nata l’esigenza materiale dell’integrazione europea.

   La borghesia dell’Europa occidentale voleva partecipare al banchetto del patrimonio industriale dei paesi orientali, lasciando agli USA il bottino principale: la Russia di Boris Eltsin.

   Grazie a questo tacito accordo, la Germania riunita fu in grado di costruire la sua poderosa organizzazione industriale che l’ha resa la locomotiva d’Europa. L’acquisizione a prezzi di saldo dei complessi orientali, come il caso della ceca Skoda entrata nel gruppo Volkswagen già nel 1991 unitamente ai suoi operai qualificati, permise alla borghesia tedesca di delocalizzare la filiera dei semi lavorati e della componentistica in paesi efficienti ma dal lavoro a basso costo, concentrando le produzioni ad alto valore aggiunto in Germania dove il costo della manodopera era più alto.

   Questo schema coinvolse anche il Nord Italia, le cui piccole e medie imprese, perduti i grandi committenti pubblici dovettero rivolgersi ai nascenti conglomerati teutonici, e per fare questo dovettero comprimere il costo della loro manodopera, processo subito iniziato con l’abolizione della scala mobile avvenuta il 31 luglio 1992. Non appagata dalla realizzazione di questa catena del valore industriale, già a partire dal 1998 Berlino pensò di dotarsi di vie per l’importazione diretta del conveniente gas naturale russo con il quale fornire di abbondante energia la sua struttura manifatturiera. Questo progetto si concretizzò il 6 settembre del 2011 con la messa in esercizio del North Stream 1, al quale Angela Merkel cercò di far seguire subito il North Stream 2 in modo da rendere ancora più performante l’industria tedesca, e difatti il North Stream 2 era pronto ad entrare in esercizio già agli inizi del 2022. Ma il governo tedesco, nel frattempo, era cambiato e pure gli interessi degli USA, ed il sabotaggio di entrambi i gasdotti attuato dagli americani nel 2022 ha messo fine al sistema di creazione di valore “mitteleuropeo”. 

   Gli anni Novanta furono invece fulgidi per la Germania unita e per il suo sistema continentale, non più CEE e non ancora Unione Europea, tanto da guadagnarsi, suo malgrado, lo scomodo titolo di “perla” dell’impero americano.

   Col termine “perla” di un impero si deve intendere un paese che per svariate ragioni, economiche innanzitutto, ma anche politiche e strategiche, rappresenta il cuore pulsante di tutto un sistema di dominio, a prescindere dalla sua estensione. La perdita della “perla” determina anche la perdita dello status di “egemone”, cioè di paese al centro di un potere politico, finanziario ed economico diffuso sia direttamente nei territori dominati, sia indirettamente nei confronti dei paesi terzi.

   Facciamo alcuni esempi storici: “perla” dell’impero veneziano (di ridotte dimensioni perché aderente al modello fenicio) fu l’isola di Creta, la cui perdita nel 1689 determinò il tramonto della Serenissima quale attore rilevante nella politica europea.

   La “perla” dell’Impero spagnolo, non furono mai i suoi estesi domini americani, oppure le Filippine, bensì le Fiandre, e la loro perdita definitiva avvenuta con la pace di Utrecht del 1713[2] determinò la fine del ruolo egemone della Spagna in Europa ed il definitivo passaggio del testimone a favore della Gran Bretagna.

   Le colonie inglesi in nord America non rappresentarono mai la “perla” dell’impero inglese, ed infatti   la loro perdita nel 1776 non determinò alcuna crisi nel crescente ruolo egemone di Londra. La “perla” dell’Impero britannico era l’India ed infatti la sua perdita avvenuta nel 1947 fu una delle cause che determinò la liquidazione di tutti i domini inglesi ed il trasferimento del ruolo di paese egemone a livello mondiale agli Stati Uniti.

   Anche Washington ha la sua “perla” nella Germania: la sua difesa ha determinato la politica USA del dopoguerra, a cominciare dalla scelta del fronte da chiudere a seguito della fondamentale sconfitta in Vietnam. Non è certamente un caso che l’allora Segretario di Stato USA Kissinger non ebbe alcun dubbio sul chiudere il fronte cinese e concentrarsi in Europa contro l’URSS fino alla “vittoria” del 1991 grazie anche all’uso massivo del “dollaro inconvertibile”.

L’AMERICA LATINA NON E’ PIU’ IL “CORTILE DI CASA” DEGLI USA

   Gli USA sin dal XIX secolo con la dottrina Monroe si erano autodefiniti protettori di tutto il continente americano, ed è per questo motivo che nel corso di questo secolo indussero direttamente oppure indirettamente le vecchie potenze coloniali europee: Spagna, Gran Bretagna e in misura minore la Francia a lasciare il controllo delle Americhe ai soli Stati Uniti. Tuttavia, gli USA non fecero altro che sostituirsi ai vecchi padroni europei nel medesimo rapporto di sfruttamento attraverso il controllo dei governi locali più o meno corrotti, dispostici e spesso criminali, ma soprattutto privi di una propria politica estera che non fosse dettata da Washington.

   Al di là dell’esperienza della rivoluzione messicana del 1910, la vera rottura storica con questo sistema fu indubbiamente la rivoluzione cubana del 1959. Ma gli Stati Uniti di allora riuscirono a tenere circoscritta questa “infezione” al resto dell’America Latina.

   Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta ci fu in America Latina un’ascesa di un movimento popolare e insurrezionale. Tra le cause del declino ci fu il riformismo egemone presente nel movimento operaio e l’immaturità politico-ideologica delle nuove formazioni rivoluzionarie sorte sulla scia della rivoluzione cubana.

   Le condizioni favorevoli a questa ascesa erano state determinate dal fatto che il sistema economico dominante era entrato in una fase di espansione, sviluppando così una crisi di crescenza che ha sviluppato tutta una serie di contraddizioni con le antiche forme di dominazione che vengono messe in discussione e superate grazie all’impatto provocato dallo sviluppo.

   Queste contraddizioni hanno comportato una lotta fra i diversi settori dei gruppi dominanti per l’egemonia e il controllo del potere e di conseguenza alcuni di questi settori si trovano nella necessità di sfruttare le esigenze del movimento popolare cercando di fare alcune concessioni.

   Anche se esiste una forte tendenza al riformismo e all’economicismo la pressione volta per ottenere migliori condizioni salariali e riforme sociali può essere permessa dal sistema solo a patto di non pregiudicare l’aumento del tasso di profitto.

   Alcune espressioni di questo momento di ascesa del movimento popolare furono:

  • La resistenza popolare al tentativo di colpo di Stato militare in Brasile nel 1961. A questo tentativo seguono una espansione del movimento operaio, contadino, studentesco e la radicalizzazione di alcuni settori dell’esercito;
  • La nascita del movimento guerrigliero in Guatemala fra il 1961 e il 1963, come risultato di una serie di sommosse derivanti dalla radicalizzazione di alcuni settori militari e dell’ampliarsi della resistenza armata nelle città;
  • La formazione in Nicaragua, nel 1961 del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale e la nascita del movimento guerrigliero;
  • L’inizio nel 1962 del movimento insurrezionale in Venezuela (di cui alcune espressioni sono la guerriglia cittadina, il grande sciopero dei trasporti, le sommosse militari in alcune città ecc.);
  • Il nuovo carattere che assume il movimento contadino in Colombia che nel 1964, culmina con i fatti di Marquetalia[3] e con la nascita dei movimenti guerriglieri con carattere insurrezionale;
  • Il movimento contadino nel sud del Perù, guidato da Hugo Blanco e la nascita del FIR (Fronte della Sinistra Rivoluzionaria), la formazione del MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria);
  • Inoltre, fra il 1960 e il 1963, si ebbero tentativi guerriglieri, anche se falliti in Paraguay, Argentina, Honduras, Ecuador e Brasile;
  • La nascita, praticamente in quasi tutti i paesi, di organizzazioni di sinistra col chiaro obiettivo di preparare l’insurrezione.

   Tutto questo avveniva quando da un punto di vista economico il capitalismo era ancora in una fase di ascesa (fase di boom soprattutto nei paesi imperialisti) e la contraddizione principale rimaneva quella tra operai e capitale.

   Da tenere conto, che in alcuni paesi latinoamericani, come l’Argentina, l’Uruguay, il Messico, il Brasile e il Cile, già alla fine del XIX secolo lo sviluppo delle forze produttive si esprime in un processo di industrializzazione, che si accentua dopo la prima guerra mondiale (coinvolgendo anche la Colombia) e specialmente dopo la crisi del capitalismo mondiale scoppiata nel ’29, è soprattutto a partire dalla seconda guerra mondiale che questo processo si intensifica e interessa la maggior parte dei paesi latino-americani.

   Questo processo di industrializzazione non si realizza senza scosse e contraddizioni. Esse anzi si manifestano nei tentativi di sviluppo posti in atto dalle borghesie nazionali che rivendicano di controllare almeno in parte il processo produttivo e lo sviluppo economico. Esse si manifestano anche nel nazionalismo populista che, essendo di origine borghese, fu radicalizzato dalla direzione piccolo-borghese del movimento popolare evolvendosi in molti casi fino all’antimperialismo e che, negli anni Cinquanta, si evidenziò in una serie movimenti di politici e convulsioni sociali. Come esempio, possiamo citare la rivoluzione boliviana del 1952-’53[4]; il tentativo antimperialista, poi sconfitto di Jacobo Arbenz in Guatemala; il controcolpo di Stato del generale Teixeira Lott in Brasile, che consolidò la posizione del presidente eletto Juscelino Kubitschek; e il movimento che portò al rovesciamento del dittatore Pérez Jiménez in Venezuela. In questo contesto generale, ma con caratteristiche che vanno al di là del nazionalismo populista, va inserita la rivoluzione cubana nel 1959 che, come momento culminante della radicalizzazione di questi tentativi di rivoluzione nazionalista, che evolve verso il socialismo.

   Si sviluppò nel frattempo l’offensiva imperialista a livello mondiale. Il suo obiettivo era estendere a tutto il mondo (esclusi i paesi “socialisti”) il controllo e il dominio del “complesso industrial-militare”.

   Quest’offensiva imperialista fu resa possibile da tre fattori:

  1. Il grande boom vissuto dall’economia USA nei periodi Kennedy-Johnson. A causa dell’accentuazione dell’espansione, della concentrazione e della centralizzazione dei grandi monopoli, questi ultimi hanno bisogno di allargare sempre di più i mercati per investire le loro crescenti disponibilità economiche penetrando nei settori più dinamici e importanti della vita economica dei paesi dipendenti;
  2. L’applicazione della politica della coesistenza pacifica com’essa venne enunciata e applicata dall’URSS a partire dalla fine della guerra di Corea;
  3. La crisi nel movimento comunista internazionale generata dalla divisione del campo socialista motivata dal conflitto cino-sovietico, provocata dalla presa del potere dei revisionisti nel PCUS.

    Quest’offensiva si annunciava con il blocco di Cuba e con la crisi dei missili, e le sue manifestazioni più decisive sono il colpo di Stato in Brasile, l’invasione della Repubblica Dominicana, e l’escalation in Vietnam, i colpi di Stato militari in Indonesia e in Grecia, la vittoria di Israele sul mondo arabo, ecc.

   La strategia militare USA nei confronti dell’America Latina si basò sulla controinsurrezione e sui programmi di azione civico-militare, e si concretizzava nei seguenti punti:

  1. L’elaborazione della teoria antisurrezionale[5];
  2. L’ammodernamento degli eserciti attraverso la vendita di equipaggiamento, la preparazione e l’addestramento del personale e la flessibile dei sistemi logistici (formazione di programmi di assistenza militare);
  3. I tentativi di coordinamento degli eserciti latino-americani.

   Come si diceva prima, verso la fine della guerra di Corea, inizia da parte dell’URSS la politica della coesistenza pacifica. La teoria della coesistenza pacifica fu originariamente formulata da Lenin, ma l’interpretazione che di essa hanno dato i sovietici a partire da Kruscev si allontana dall’analisi leninista. Sebbene fosse corretto proporre tatticamente la coesistenza fra paesi dai diversi sistemi economici e sociali, non lo era altrettanto estenderla ai rapporti fra le classi antagoniste.

   Dentro questo quadro, la stragrande maggioranza dei partiti comunisti legati all’URSS attuano una politica di collaborazione con le classi dominanti nazionali, per raggiungere i loro obiettivi riformisti.

   I principali presupposti di questa politica si basava sulla convinzione che il tempo giocava a favore del socialismo, nella misura in cui esso prova la superiorità dello sviluppo dell’economia pianificata, ciò detto, diventa necessario evitare qualsiasi possibilità di provocare situazioni di conflitto in cui il campo socialista sia costretto ad intervenire, distogliendo i propri mezzi e ostacolando quindi il progresso di un tale sviluppo. Queste situazioni di conflitto potrebbero essere provocate dai movimenti insurrezionali, la cui azione deve essere limitata. La lotta di classe nei paesi capitalisti deve essere condotta in modo da non mettere in pericolo la pace tra i due blocchi, in altre parole la lotta di classe deve essere frenata.

   Perciò la strada di questi partiti comunisti si andava trasformando in una strategia riformistica nella misura in cui non si capiva, che nelle nuove condizioni del capitalismo dipendente, la lotta antioligarchica e antimperialista doveva essere anche anticapitalista. La tattica riformista che è consistita nel far avanzare le conquiste popolari entro i limiti della democrazia borghese e nel cercare di consolidare e rafforzare tutte le concessioni accordate dalla borghesia non poteva che condurre al rafforzamento del capitalismo dipendente e reso più difficile lo sviluppo dei processi insurrezionali.

   A causa di questa deriva riformista, nacquero e maturarono le condizioni per lo sviluppo di una sinistra rivoluzionaria ispirata alla vittoria della rivoluzione cubana (che mise all’ordine del giorno la tattica del confronto armato come unica via per la presa del potere). Questa sinistra rivoluzionaria si opponeva alla tattica riformista della maggior parte dei partiti comunisti.

   In generale il comune denominatore della sinistra rivoluzionaria è consistito nel poter essere definita come l’insieme dei gruppi e delle organizzazioni che vedono nell’insurrezione come l’unica via per la rivoluzione. Fra questi gruppi esistono differenze sostanziali per quanto riguarda la definizione del carattere della rivoluzione, il modo di concepire le forme da adottare l’insurrezione e, di conseguenza l’orientamento del suo atteggiamento pratico. Possiamo quindi distinguere, fra le organizzazioni rivoluzionarie che nasceranno in America Latina a partire dal 1960, tre tipi fondamentali: i marxisti-leninisti che all’epoca venivano definiti “filocinesi”, i sostenitori della teoria del foquismo e quelli – in cerca di una definizione generica – si potrebbe definire nuova sinistra.

   Vi furono anche altri gruppi che almeno alla loro origine, non possono a rigore, essere ricondotti a nessuno di questi tre tipi. È il caso dei cristiani di sinistra (ad esempio l’Azione Popolare in Brasile) che riuscirono ad avere una grande influenza nel movimento popolare, specialmente sugli studenti.

   L’esperienza guerrigliera fondata sul foquismo fu sconfitta. indicativo fu la fine di movimenti dome i Tupamaros in Uruguay, il MRTA in Perù, il M-19 in Colombia, il FSLN in Nicaragua, il FMLN in Salvador, l’UNRG in Guatemala ecc. che si tradusse in fenomeni di una presenza legale nei rispettivi paesi, dove svilupparono una politica sostanzialmente revisionista. Nello stesso tempo si sono rivelati inefficaci tutti quei movimenti dediti soprattutto ad attività mediatiche come quello zapatista del Chiapas, che è stato per parecchio tempo un movimento “coccolato” dalla sinistra borghese e revisionista in quanto scambiato per l’alternativa “buona” alla guerriglia “cattiva”. Tutto ciò dimostra che non c’è alcuna possibilità di liberazione dalle catene dell’imperialismo, alcuna possibilità di una “terza via” tra capitalismo e socialismo.

   Che Guevara pensò e cercò con la sua vita di estendere un modello guerrigliero in altre realtà. Modello che partiva dal concetto, preso da Mao, della piccola scintilla che può incendiare la prateria. Ma non seppe, ne poté farlo poiché si basò su forze revisioniste (come il Partito Comunista Boliviano fedele alla linea dettata da Mosca).

   Alla fine degli anni Novanta ed agli inizi del XXI secolo, in un momento quindi che gli USA erano teoricamente al massimo della loro forza, si ebbero in numerosi paesi latinoamericani delle esperienze “socialiste”, “progressiste” che erano il tentativo di settori borghesi di uno sviluppo economico autonomo. Queste esperienze erano accompagnate da uno sviluppo del movimento delle masse.

   Esperienze che sono iniziate con Chavez in Venezuela, seguite da quelle di Lula in Brasile, da Evo Morales in Bolivia e da Raffael Correa in Equador. Per un breve periodo, persino uno stato tradizionalmente nazistoide come il Paraguay conobbe un esperimento “progressista” con la presidenza di Fernando Lugo dal 2008 al 2012.

   In alcuni paesi come il Venezuela questa mobilitazione delle masse popolari si radicalizzò.

   Facciamo una breve cronologia del processo in atto in Venezuela tra il 1989 e il 2003.

   27 febbraio 1989. Il presidente della repubblica, Carlos Andres Perez annuncia un pacchetto di misure economiche che prevedono drastici tagli al bilancio dello Stato, tra l’altro, un aumento del prezzo della benzina del 100% e dei trasporti pubblici del 30%. Scoppia un’insurrezione popolare spontanea, in tutte le principali città del paese, che sarà conosciuta come “Caracazo”. Carlos Andres Perez decreta lo stato di emergenza ed ordina di reprimere le mobilitazioni. Le forze armate agiscono con estrema durezza: le stime ufficiali parlano di trecento morti fra la popolazione, ma con ogni probabilità il numero reale ammonta a migliaia di persone uccise.

   4 febbraio 1992. Hugo Chavez Frias ed altri ufficiali organizzano un colpo di stato dal carattere progressista, contro la politica neoliberista di Carlos Andres Perez e contro la repressione del “Caracazo”.    Nel giro di quattro ore il golpe fallisce. Chavez ed altri organizzatori sono imprigionati.

   27 novembre 1992. Secondo tentativo di golpe contro Carlos Andres Perez, anch’esso fallito. Si apre una crisi politica senza precedenti nella storia del Venezuela contemporaneo. Perez viene destituito dal parlamento dopo essere stato accusato tra l’altro di corruzione.

   Dicembre 1993. Raffael Caldera, viene eletto presidente con il sostegno di diverse liste di sinistra e senza l’appoggio dei due partiti che avevano dominato fino ad allora la politica del paese. Ad[6] e Copei[7]. Pochi mesi dopo Chavez viene liberato.  

   6 dicembre 1998. Hugo Chavez, a capo del Movimento quinta repubblica, viene eletto presidente della repubblica con il 57% dei voti. I candidati di Ad e Copei non ottengono più del 5% dei voti.

   25 luglio 1999. Elezioni dell’Assemblea costituente. La nuova legge fondamentale dello stato venezuelano viene discussa da milioni di persone in tutto il paese in assemblee popolari.

15 dicembre 1999. La costituzione della Repubblica bolivariana del Venezuela (questa la nuova denominazione dello stato) viene approvata col 71,8% dei consensi.

   30 luglio 2000. Nuove elezioni presidenziali. Hugo Chavez viene riconfermato presidente col 59,7% dei consensi.

   2001. Vengono approvate dei 49 leggi abilitanti che ribadiscono il carattere pubblico delle risorse petrolifere ed idriche ed introducono una riforma agricola. L’opposizione e la mobilitazione contro il governo Chavez.

   11 aprile 2002. Colpo di stato da parte della cosiddetta “opposizione democratica” nei confronti del presidente Chavez. Il presidente di Fedecamara, la confindustria venezuelana, Pedro Carmona si dichiara nuovo capo dello stato e sospende tutte le principali cariche della repubblica. Il governo Bush riconosce subito il governo golpista. Il 13 aprile milioni di persone si riversano sulle strade di Caracas e delle altre città del Venezuela chiedono la liberazione del presidente. Il colpo di stato è sconfitto dall’azione spontanea delle masse.

   Dicembre 2022 – gennaio 2003. L’opposizione con la collaborazione della direzione burocratica e reazionaria della Ctv (la centrale sindacale) lancia una serrata padronale camuffata da sciopero generale. Dura 63 giorni e fallisce solo per l’intervento delle masse e soprattutto dei lavoratori della Pdvsa[8], che riattivano le raffinerie e gli impianti petroliferi sotto il loro controllo e gestione.

   2003. Acquisito pienamente il controllo della Pdvsa, il governo lancia un programma di investimenti nel campo dell’istruzione e della sanità, con una serie di progetti denominati “Missiones”. Più di 15 mila visite mediche gratuite sono state realizzate fino all’ottobre 2004 grazie alla “Mission Barrio Adentro”. Un milione e mezzo di persone hanno imparato a leggere e scrivere grazie alla “Mission Robinson”, mentre attraverso la “Sucre” e “Ribas” un altro milione e trecentomila venezuelani hanno potuto accedere all’istruzione elementare, superiore e universitaria.

   6 aprile 2003. Viene fondata la Unt (Union National de Trabajadores), in reazione del tradimento della Ctv, la vecchia centrale sindacale che aveva appoggiato il colpo di stato.

   Queste esperienze “progressiste” e “socialiste” segnarono profondamente la storia del Sud America, poiché furono in grado di convincere le vari caste militari, che sono storicamente state un serbatoio di golpisti al soldo degli USA, che per loro poteva esserci un ruolo superiore a quello di semplici “Carabineros de Gringos”. Questi governi “socialisti” e “progressisti” offrirono ai vertici militari l’opportunità di assumere un ruolo nella classe dirigente votata al perseguimento di uno sviluppo economico autonomo ed in grado di elevare quei paesi ad avere dei ruoli di maggior peso nello scacchiere internazionale. Certamente l’appannamento del controllo USA sull’America Latina a cavallo tra i due secoli ha permesso questa dinamica tra le caste militari.

   Indubbiamente, a questa flessione del potere USA, contribuì una particolare associazione di stati nata in alternativa ai G7 occidentali, denominata BRICS, acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Questi paesi hanno cominciato a “frequentarsi” più assiduamente e con uno spirito di marcata collaborazione a partire dal settembre 2006 a New York, a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU. Successivamente i ministri degli esteri dei paesi BRIC a partire dalla riunione tenuta nel maggio 2008 in Russia, si incontrarono periodicamente sempre in occasione dell’Assemblea generale dell’ONU. È in questa sede che, nel settembre 2010, si conviene d’invitare il Sudafrica a partecipare alle riunioni BRIC, modificando conseguentemente l’acronimo in BRICS. La prima posizione comune rilevante in sede internazionale si ebbe con la significativa astensione in Consiglio di Sicurezza nel marzo 2011, mentre il primo incontro a livello a livello di Capi di Stato e di governo si svolse Toyako (Giappone) il 9 luglio 2008, durante un G8.

LA CONTROFFENSIVA USA

      Dal 1991 di fronte alla crisi generale del capitalismo cominciata nella metà degli anni Settanta del secolo scorso (crisi non solo economica ma anche politica e culturale, crisi che investe l’insieme della società), approfittando del crollo del revisionismo nei paesi dell’Est e in Unione Sovietica dove ancora sussistevano alcune conquiste della fase della costruzione del socialismo cessata alla metà degli anni Cinquanta  e di fronte alle prime avanguardie della Rivoluzione Proletaria Mondiale (Perù, Filippine, India), l’imperialismo scatena un’offensiva controrivoluzionaria generale che pretende di scongiurare la rivoluzione come tendenza generale, storica e politica. Dalla prima guerra del Golfo, del 1991 gli USA si ergono a superpotenza generale.

   Attualmente a livello politico la contraddizione principale è imperialismo (principalmente USA) /popoli oppressi. Massima espressione di questa contraddizione sono le guerre popolari in atto condotte da partiti comunisti guidati dal marxismo-leninismo-maoismo.

   La contraddizione imperialismo/popoli oppressi si sta fondendo con la contraddizione fondamentale borghesia/classe operaia, poiché la classe operaia si è allargata a livello mondiale in termini assoluti.

  Se si considera (pur con dati parziali) che la classe operaia abbia superato il miliardo di componenti e tenendo conto delle migrazioni verso i paesi imperialisti, si può tranquillamente dire che nelle metropoli imperialiste siamo di fronte a una classe operaia multinazionale.

   Per capire maggiormente i rapporti che ci sono tra Stati Uniti ed Europa, bisogna partire dal fatto che   dopo la Seconda guerra mondiale gli USA hanno assicurato la persistenza o il ristabilimento del dominio delle classi borghesi nella parte continentale dell’Europa Occidentale, in Giappone e in buona parte delle colonie. In alcuni di questi paesi lo Stato borghese era completamente dissolto a seguito della guerra, in altre situazioni gli Stati borghesi erano molto indeboliti e prossimi al collasso. Di conseguenza, le borghesie dei paesi continentali dell’Europa Occidentale e del Giappone non ebbero di meglio che accettare l’autorità degli USA per ristabilire il loro dominio di classe. La Borghesia Imperialista USA aiutò la borghesia dei singoli paesi a ricostruire i propri stati. Difficilmente avrebbe potuto fare diversamente, cioè assorbire direttamente la parte continentale dell’Europa Occidentale, il Giappone e le colonie degli ex Stati coloniali nei confini del proprio Stato sotto un’amministrazione unificata: sia per il movimento popolare (che in molti paesi era a guida comunista) presente in molti paesi dell’Europa Occidentale che, tra l’altro, aveva l’appoggio dell’URSS, sia per l’opposizione delle borghesie europee (particolarmente di quella francese e in effetti nel 1966 la Francia uscì dall’alleanza militare, ma non da quella politica). Gli USA, tuttavia posero molti limiti alla sovranità di alcuni Stati, in particolare degli Stati giapponese, tedesco, italiano, greco, turco e anche la sovranità della Gran Bretagna e dei domini britannici, assicurandosi vari strumenti di controllo della loro attività e di intervento in essa.

   Nei 40 anni successivi i contrasti tra questi Stati e gli USA non hanno avuto un ruolo rilevante nello sviluppo del movimento economico e politico, con l’eccezione delle tensioni con Francia e Inghilterra in occasione della campagna di Suez (1956).

      Tutto questo non significa che era finita l’epoca delle guerre tra Stati imperialisti, come s’illudevano i revisionisti. Finché gli affari andavano bene, finché l’accumulazione del capitale si è sviluppata felicemente (e ciò è stato fino all’inizio degli anni ’70), non si sono sviluppate contraddizioni antagoniste tra Stati imperialisti, né potevano svilupparsi se è vero che esse sono la trasposizione in campo politico di contrasti antagonisti tra gruppi capitalisti in campo economico.

   Il problema si è posto a partire dalla metà degli anni ’70 e sta proprio e solo in questo: man mano che le condizioni di valorizzazione del capitale diventano difficili, gli USA continuavano a essere il miglior garante (sia pure in ultima istanza) della borghesia giapponese e quindi del suo dominio in Giappone, il miglior garante della borghesia tedesca e quindi del suo dominio in Germania ecc. nella misura in cui questo predominio è una garanzia per il buon andamento delle varie economie, degli affari delle varie borghesie.

      La lotta che gli USA per la difesa dell’ordine internazionale, è nella realtà la lotta dei capitalisti USA per garantirsi la stabilità politica negli Stati Uniti, cioè del dominio di classe sulle masse popolari USA anche a scapito della borghesia di altri paesi, diventando quindi un fattore d’instabilità politica degli altri paesi.

      Né i capitalisti operanti in altri paesi possono concorrere a determinare la volontà degli USA al pari dei loro concorrenti americani, benché vi sia una discreta ressa di esponenti della Borghesia Imperialista specie nei paesi minori a installarsi negli USA, a inserirsi nel mondo politico economico USA: dai defunti Onassis e Sindona, molti capitalisti di altri paesi hanno cercato di “mettere casa” negli USA.

      Esiste anche un’altra possibilità che man mano che aumentano le difficoltà dell’accumulazione del capitale, una frazione della Borghesia Imperialista mondiale tenti di imporre un’unica disciplina a tutta la Borghesia Imperialista costruendo attorno agli USA il proprio nuovo Stato sovranazionale: quest’ultimo dovrebbe assorbire più strettamente in sé gli altri Stati limitandone ulteriormente l’autonomia[9].

   Negli anni trascorsi dopo la Seconda guerra mondiale si è formato un vasto strato di Borghesia Imperialista Internazionale, legata alle multinazionali con uno strato di personale cresciuto al suo servizio.

   Sono stati collaudati organismi (monetari, finanziari, commerciali) sovrastatali nei quali questo strato di Borghesia Imperialista esercita una vasta egemonia.

      Parimenti si è formato un personale politico, militare e culturale borghese internazionale, di conseguenza il disegno della fusione dei maggiori Stati imperialisti in unico Stato ha oggi maggiori basi materiali di quanto ne avessero gli analoghi disegni perseguiti nella prima metà del secolo scorso, dalla borghesia anglo-francese (Società delle Nazioni), dalla borghesia tedesca (Nuovo Ordine Europeo nazista), dalla borghesia giapponese (Zona di Coprosperità).  Ma la realizzazione di un processo del genere, mentre avanza e si accentua la crisi economica, difficilmente si realizzerebbe in maniera pacifica, senza che gli interessi borghesi lesi dal processo si facciano forte di tutte le rivendicazioni e i pregiudizi e nazionali e locali.

   Quello che è successo dopo la metà degli anni ’70 con l’avvio della crisi generale del capitalismo, c’è stato l’avvio della crisi del Movimento Comunista Internazionale e del cosiddetto “blocco socialista” corrosi dal revisionismo, gran parte del mondo si è ridotto a un territorio di caccia delle scorribande dei vari capitalisti. Gli Stati nazionali sono ridotti ad essere principalmente delle agenzie addette ad estorcere soldi soprattutto per soddisfare le pretese delle istituzioni finanziarie e per sopperire alle spese pubbliche residue (alcuni voci delle spese sono in costante crescita: riarmo, aggressioni, repressione, controllo, prebende per imbonitori), i loro patrimoni pubblici sono venduti (e spesso svenduti) perché i capitalisti sono alla ricerca forsennata di terreni di investimento per i loro capitali e per lo stesso motivo crescono i debiti pubblici, lo Stato USA e alcuni altri Stati e centri di potere esercitano il ruolo di polizia internazionale con azioni all’impazzata (spacciati come “spedizioni umanitarie”, “azioni contro il terrorismo” ecc.), usando basi e agenzie che hanno installato in tutto il mondo, sfruttando l’uso che in tutto il mondo del radicato senso comune di avere periodiche votazioni a suffragio  universale (democrazia borghese) ha fatto sorgere in ogni paese una gigantesca macchina di diversione, di disinformazione e intossicazione delle coscienze e dei sentimenti. 

   Il corso delle cose che si determina porta a una crescita continua di conflitti e di guerre intestine e tra Stati. I gruppi imperialisti non riescono più (stante la crisi generale in corso) a creare in alcun paese ordinamenti politici stabili, riescono solo a distruggere quelli che ancora trovano come ostacolo. Il variopinto movimento islamico non ha prospettive di svilupparsi in un nuovo sistema di ordinamento sociale.

      I contrasti tra l’Unione Europea (UE) – soprattutto da parte della Germania – e gli USA si accentuano (la messa in scena del DATAGATE serviva per frenare gli USA è un indizio di tutto ciò). Così come i contrasti interni all’UE (indubbiamente il formarsi di formazioni populiste e sovraniste in Europa sono un sintomo evidente dell’accentuarsi di queste contraddizioni).  Il progetto (accarezzato da Mitterrand, Jacques Delors & C.) di costruire sotto l’ombrello della NATO comandata dagli USA, il polo imperialista europeo indipendente dall’imperialismo USA e quindi alla fin fine a esso contrapposto, fa acqua. La politica mercantilistica (esportare il più possibile e importare il meno possibile come linea guida) e monetarista (il pareggio delle entrate e uscite contabili, la stabilità dei prezzi come regola) della borghesia tedesca è la traduzione pratica del progetto.

   L’operazione svolta dagli USA in Europa è stata magistrale poiché Washington ha potuto conseguire tre risultati strategici con una manovra unica: ricondurre l’eccessivo attivismo polito tedesco entro ambiti accettabili; sostituire la propria influenza politica a quella dei paesi europei occidentali nei confronti dei regimi formalmente democratici (borghesi) e sostanzialmente fascistoidi e antirussi dell’Europa orientale; avanzare minacciosamente i confini della NATO verso la frontiera russa.

   Negli anni Novanta i signori di Bruxelles non avevano fatto i conti senza l’oste a stelle e strisce. Già a partire da quel decennio era iniziato l’allargamento dell’Unione Europea verso la Russia sulla direttrice baltica (ingressi di Svezia e Finlandia del 1995). Ma è partire dal 2004 che gli Stati Uniti incardinano un meccanismo che prevedeva l’ingresso dei paesi dell’ex blocco orientale nella NATO, con la promessa di essere mantenuti dalle ricche nazioni occidentali, Francia e Germania innanzitutto.  Sotto questo profilo le date sono chiarificatrici della strategia USA: Polonia e Repubblica Ceca entrano nella NATO nel 1999 e nella UE nel 2004; Repubbliche baltiche, Ungheria, Slovacchia e Slovenia aderiscono alla NATO e alla UE nel medesimo anno, sempre nel 2004; Bulgaria e Romania entrano nell NATO nel 2004 e nella UE nel 2007.

   La Commissione Europea conosciuta fino alla fine del secolo scorso non esisteva più, al suo posto era sorta l’Unione Europa, una pletora di paesi disuniti su quasi tutto, con poca stima reciproca ed ancor meno comprensione, ma accomunati nella ligia osservanza all’imperialismo USA e costretti nella camicia di forza della NATO. La controffensiva USA in Europa era stata un successo; eppure, anche in questa occasione non vi era stato nessun beneficio per gli indicatori macroeconomici USA. Il debito pubblico americano nei primi sette anni del nuovo secolo era passato di 5.674 miliardi di dollari nel 2000 ai 9.007 miliardi del 2007; debito quasi raddoppiato in un settennato. Il 2008 è l’anno decisivo, gli USA cogliono il balzo della crisi dei Subprime innescata dal fallimento della banca Lehman Brothers per rovesciare contro la Cina le terribili conseguenze della violenta contrazione dei mercati mondiali che hanno seguito il crack finanziario.

   Gli strateghi di Washington contano sulla forte interdipendenza tra le esportazioni cinesi negli USA, la creazione di maggior debito da parte del Tesoro per potere pagare, ed il ruolo sempre cinese di principale sottoscrittore dei bond americani. Secondo gli USA, Pechino non sarebbe stato in grado di gestire il collasso dell’ordine dagli States, la conseguente crisi industriale, economica e quindi finanziaria, similmente a quanto sta accadendo in Europa. La Cina invece dimostrò di essere in grado di superare la crisi rivolgendosi al proprio mercato interno, investendo circa 600 miliardi di dollari in opere ed infrastrutture domestiche.

   Indubbiamente c’è stata una sottovalutazione da parte degli USA in merito allo sviluppo economico della Cina e della sua capacità di reagire alla crisi. Tutto cominciò quando i gruppi dirigenti dell’imperialismo USA con Kissinger e Nixon, all’inizio degli anni Settanta, cominciò a penetrare in Cina approfittando del fatto che la Repubblica Popolare Cinese (RPC) aveva bisogno di essere spalleggiato dal punto di vista economico: il Partito Comunista Cinese (PCC) non riteneva possibile cominciare da zero come aveva fatto l’URSS negli anni Trenta (stante le condizioni diverse: la maggiore arretratezza, l’ostilità dell’URSS[10] e di gran parte del movimento comunista dei paesi imperialisti). A seguito dell’operazione Kissinger, i monopoli USA vanno a produrre in Cina e poi proseguiranno altrove: abbattono i propri costi di produzione, ma danno anche inizio alla decadenza produttiva e commerciale degli USA.

   Con l’operazione Kissinger i monopoli USA vanno a produrre merci non solo in Cina, ma anche in Europa orientale, Indonesia e nelle altre ex colonie dove i costi di produzione sono minori che negli USA e invece di esportare merci iniziano a importarne. La bilancia commerciale USA (import-export) è sempre più deficitaria. Quello che lo Stato non incassa come imposte lo raccoglie come debito pubblico (vendita titoli di Stato). La Borghesia Imperialista USA stampa a sua discrezione dollari, che si accumulano nel sistema bancario mondiale.

   I numeri della crescita del debito federale degli anni successivi alla crisi dei subprime sono impressionanti: 10.024 miliardi di dollari nel 2008, 13.561 miliardi nel 2010, 18.150 miliardi nel 2015, 22.179 miliardi nel 2019 alla vigila della pandemia d Covi 19. I dati dell’aumento del debito USA nell’ultimo triennio sono addirittura clamorosi: dall fine del 2019 all fine del 2022, cioè nei due anni di pandemia e nell’anno dell’intervento russo in Ucraina, gli USA hanno fatto nuovi debiti per 8.209 miliardi attestando il debito il 30.928 miliardi di dollari. Gli USA, a essere eleganti, sono in un’evidente condizione di default, ma guardando in faccia alla realtà i dati suggeriscono decisamente più prosaica ma adeguata: bancarotta e pure fraudolenta.  Perché fraudolenta? Perché nessun dollaro degli attuali 31.703 miliardi di debiti verrà mai restituito. Perché fraudolenta? Perché per essere sicuri che il tema non venga nemmeno posto da qualche creditore internazionale gli ultimi tre anni sono stati caratterizzati da continue e terribili crisi: due anni di Covid-19 in tutto il mondo ed una guerra per procura in Ucraina, crisi che non potranno più cessare fino a quando il mondo non avrà risolto il suo rapporto con il dollaro.

   Questa decadenza USA è compensata solo in parte dallo sviluppo del settore militar e delle nuove tecnologie, dall’allargamento della NATO all’estero, dalle sanzioni economiche e dalle guerre: elementi che compongono il complesso militare-industriale-finanziario USA.

   Tutta una serie di fattori (dedollarizzazione, ecc.) indicano che la supremazia mondiale degli imperialisti USA in campo economico e finanziario è in declino. È proprio la difesa del loro declinante ruolo economico e finanziario nel mondo che spinge l’imperialismo USA a completare l’accerchiamento della Federazione Russa in Europa, ad aspirare a coprire con basi e agenzie militari le repubbliche asiatiche sorte dalla dissoluzione dell’URSS e l’immenso territorio asiatico della stessa Federazione Russa.

   Così come li spinge:

  1. A imporre le loro merci (il gas, il petrolio e altro) ai gruppi imperialisti europei loro creditori oltre che loro concorrenti nello sfruttamento dei paesi oppressi e nella devastazione del pianeta;
  2. All’accerchiamento militare e a mille intrighi per sovvertire l’ordinamento politico della Repubblica Popolare Cinese, dove per alcuni decenni i capitalisti USA hanno fatto grandi investimenti;
  3. Così come li spinge a cercare di sovvertire l’ordinamento politico in tutti i paesi dove non hanno libertà di strozzare economicamente e finanziariamente, con in testa Cuba, Venezuela, Iran e Siria.

[1] Weltanschauung in Vocabolario – Treccani

[2] La pace di Utrecht del 1713 fu l’atto finale di quella che si può definire anche guerra degli ottant’anni, o rivolta olandese o rivolta dei Paesi Bassi, fu la ribellione delle Province Unite contro il dominio spagnolo, che si tramutò in un conflitto durato dal 1568 al 1648, quando l’indipendenza delle Province Unite fu sancita dalla Pace di Vestfalia

[3] Questa zona visse ai margini del potere centrale colombiano tra il 1958 e il 1964, a tal punto da essere talvolta descritta come una “repubblica indipendente”, nome rifiutato dai suoi leader, che preferivano parlare di “gruppo di autodifesa” o di “Zona organizzata del movimento contadino”. Fu utilizzato come rifugio dalle popolazioni in fuga dalle violenze delle zone limitrofe, prima di essere preso in consegna dall’esercito colombiano. La maggior parte dei guerriglieri riuscì a lasciare l’area e formò il nucleo iniziale delle FARC.  La resistenza avanzata dai guerriglieri all’offensiva militare contro Marquetalia costituisce un evento fondamentale per le FARC.

[4] Nel 1951 il MNR – partito politico boliviano di un nazionalismo di stampo peronista, vinse le elezioni, avendo l’appoggio dei minatori, degli operai delle industrie, degli studenti e di ex militari. Il 9 aprile 1952 ci fu un golpe militare, che dopo tre giorni di scontri di strada con la partecipazione di tutte le forze popolari, si  trasformò un’insurrezione vittoriosa che non solo costrinse il MNR stesso a mettere in atto le sue promesse elettorali quali la riforma agraria, la nazionalizzazione delle miniere e il suffragio universale – in Bolivia vigeva il voto “qualificato”, vale a dire che potevano votare ed essere eletti solo i maggiorenni che avessero un “patrimonio” e sapessero leggere e scrivere, in questo modo il 90% della popolazione era esclusa – si convertì in rivoluzione. L’esercito venne ridotto e sostituito dalle milizie armate dei lavoratori e degli studenti.

[5] Benché le basi di una tale dottrina siano precedenti, essa viene definita in tutti i suoi aspetti nel dopoguerra, quando si cerca di far fronte alla formazione del “blocco socialista” alla sua possibile minaccia (per l’imperialismo USA ovviamente) al continente.  Così, nel 1945, alla Conferenza sui Problemi della pace de della guerra, viene firmato l’Atto di Chapultepec che, a partire dal 1947, col Trattato Interamericano di Mutua Assistenza (Trattato di Rio de Janeiro), diviene la base delle relazioni fra gli Stati Uniti e l’America Latina. Nel 1948, con la creazione dell’OEA, si compie un passo ancor più decisivo verso la legalizzazione dell’influenza USA nel continente. Ma negli anni Sessanta tutta questa politica di “difesa” dell’emisfero, che si basava su presupposto di una possibile minaccia esterna da parte del blocco socialista, doveva essere riveduta, ampliata e rielaborata, non solo perché, giungendo la corsa agli armamenti alla fase nucleare, variano termini di un possibile conflitto fra le due grandi potenze, ma soprattutto perché ora si doveva affrontare una minaccia ancora più concreta, proveniente all’interno dei paesi, e cioè lo scoppio di tentativi insurrezionali capaci di sovvertire l’ordine vigente. Gli Stati Uniti hanno imparato bene la lezione di Cuba e l’amministrazione Kennedy si propose la missione di attuare teoricamente e praticamente la nuova strategia militare nel corso del decennio fu via via perfezionata dalle lezioni apprese dal laboratorio di insurrezione e controinsurrezione che era il Vietnam, che portò ad una riutilizzazione degli armamenti convenzionali, cercando di adeguarli meglio alla repressione della guerra popolare.

[6] Azione Democratica è un partito politico socialdemocratico venezuelano, fondato nel 1936 ma riconosciuto nel 1941. Molti suoi militanti ed esponenti si sono impegnati contro la dittatura di Marcos Pérez Jiménez. AD ha espresso quattro Presidenti tra gli anni ’60 e ’90. https://it.wikipedia.org/wiki/Azione_Democratica

[7] COPEI, ufficialmente Comité de Organización Política Electoral Independiente, noto anche col nome di Partido Socialcristiano, è un partito politico venezuelano di tendenza centrista. Il COPEI è erede di “Azione nazionale” e dell'”Unione nazionale degli studenti”, movimenti politici moderatamente conservatori. https://it.wikipedia.org/wiki/COPEI

[8] Petróleos de Venezuela, S.A. è la compagnia petrolifera statale venezuelana. Conduce attività nel campo dell’esplorazione, produzione, raffinazione ed esportazione del petrolio, così come anche l’esplorazione e la produzione di gas naturale. https://it.wikipedia.org/wiki/PDVSA

[9] Quando in certi determinati ambienti definiti “complottisti” parlano di “Nuovo Ordine Mondiale” ci si riferisce a questa ipotesi.

[10] Nel 1969 tra formazioni militari cinesi e formazioni militari russe ci furono sul fiume Ussuri degli scontri armati.

MALTERRITORIO EMILIA-ROMAGNA

•Maggio 29, 2023 • Lascia un commento

   L’Emilia- Romagna è terra di grandi bonifiche, dunque, oltre ai tanti fiumi e torrenti che scendono dalle Alpi e dall’Appenino, ha migliaia e migliaia di chilometri di canali di scolo e di irrigazione. Ha uno degli assetti idrogeologici più artificiali e ingegnerizzati del mondo, dunque – a dispetto di un’autonarrazione vanagloriosa, ben incarnata dal suo governatore[1]Bonaccini – ha un assetto oltremodo fragile.

   Con queste premesse, il territorio dell’Emilia- Romagna dovrebbe essere pochissimo cementificato. E invece no: l’Emilia-Romagna è la terza regione più cementificata d’Italia, col suo 9% circa di suolo impermeabilizzato – contro il 7,1 nazionale, percentuale già altissima – ed è la terza per incremento del consumo di suolo nel 2021: oltre 658 ettari in più ricoperti, equivalenti al 10,4 del consumo di suolo nazionale di quell’anno.

   Nel 2017 l’amministrazione Bonaccini ha prodotto una legge definita “contro il consumo di suolo”. In realtà è una legge fasulla, truffaldina, il cui scopo era permette la cementificazione, come denunciato invano da molti esperti – geografi, urbanisti, architetti, storici del territorio – e associazioni ambientaliste. Grazie a questa legge si è continuato a costruire e asfaltare, in preda a un vero e proprio delirio.

   Nella rivista Altreconomia Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano ricorsa che: “nelle aree protette (più 2,1 ettari nel 2020-20121), nelle aree a pericolosità di frana (più 11,8 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità idraulica dove l’Emilia-Romagna vanta un vero e proprio record essendo la prima Regione d’Italia per cementificazione in aree alluvionali: più 78,6 ettari nelle aree ad elevata pericolosità idraulica; più 501,9 in quelle a media pericolosità che è poi più della metà del consumo di suolo nazionale con quel grado di pericolosità: pazzesco”.

   Non è maltempo ma malterritorio. Attualmente i mille nodi stanno venendo al pettine, i nodi di una gestione idiota e predatoria, i nodi di una gestione idiota e predatoria, portata avanti da una classe dirigente – politica e imprenditoriale – perdutamente innamorata di asfalto e cemento[2].


[1] Questo termine è cominciato a essere usato da quando in lombardia dalla metà degli anni Novanta era stato eletto come Presidente della Giunta – termine istituzionalmente corretto – Robero Formigoni.  Tutto ciò era un segno di americanizzazione della vita politica italiana poiché ci si riferiva a governatori degli Stati che compongono gli USA.

[2] https://www.wumingfoundation.com/giap/2023/05/non-maltempo-ma-malterritori

QATARGATE

•Maggio 21, 2023 • Lascia un commento

   Su questa storia di corruzione, riguardante il Qatar, la sua ricchezza, le sue tangenti, i suoi ricatti, le sue celebrazioni con i mondiali di calcio edificati su 6000 proletari morti, schiavi di nuove piramidi. Bisogna prendere atto che questa è una storia di   scandali pilotati che hanno tenuto in scacco l’Italia e l’Europa stessa. Dove sono stati trovati i giusti capri espiatori, probabilmente tra i ladri nella grande lista dei papabili di ogni appartenenza, si procede per gradi per arringare la folla, per far indignare il popolo contro chi ha preso mazzette, tangenti, e meglio mostrarle in pile di piccolo e medio taglio, per alzare i toni dello scontro politico.

   Il vecchio e vetusto assetto europeo è sotto attacco, il potere ombra dietro ai nostri piccoli destini, che è quello del Capitale, necessita di un suo aggiornamento a costo anche del fallimento dell’UE.

   Morte e rinascita di un sistema, perché un’Unione Europea come quella odierna, per il Capitale è da riformare sacrificando i soliti pesci piccoli dell’acquario.

   Forse per questo motivo nel dicembre del 2022 è esploso l’enorme acquario del Raddisson Blu Hotel di Berlino con tutti i suoi belli esemplari ittici[1].

   Il cosiddetto Qatargate, rappresenta la solita prassi di riciclare denaro sporco nelle banche europee, attraverso operazioni illegali di Lobbying, mediante tangenti, favori, corruzioni varie, è scoppiato a macchia d’olio ed è parso ad un certo punto allargarsi.

   I Servizi Segreti sono all’opera per incastrare le mele marce e salvare il sistema, ben sapendo che “così fan tutti”, ma l’accertamento delle mele marce esorcizza e legittima futuri scempi.

   Ci si dovrebbe chiedersi sul perché di queste tensioni telluriche. Sul perché questi tsunami politici. Sul perché le fazioni del potere in guerra tra loro si stanno scontrando per poi accordarsi e riequilibrare la livella del macro potere, oggi sbilanciata ed a favore della piramide A che controlla i centrosinistra occidentali, quindi avvantaggiando la piramide B, quella tendenzialmente più conservatrice.

   Entrambe le piramide sono due aspetti illusori di un potere che si scinde per manifestarsi dicotomico e “democratico”[2], facendosi accettare dai popoli.

Scindendosi il potere oscuro, va a creare realmente due fazioni con i loro livelli intermedi che alimenteranno una perenne guerra fratricida, creando la realtà per come la percepiamo noi dai piani bassi. In questo momento, potrebbe esserci un regolamento di conti tra schieramenti, e allora vediamo da una parte e dall’altra, morti e feriti.

   Il tutto nel clima generale di una guerra tra Russia borghese e l’Occidente imperialista (dove in Ucraina si combatte militarmente) che pare non voler finire mai, nel mezzo di una crisi energetica ed ambientale senza pari, ma creata ad hoc, e durante i mondiali del reset in Qatar.

   Ad oggi, poi cambieranno i bersagli in corso d’opera, sono stati colpiti alcuni personaggi appartenenti all’area liberal.

   Potremmo inquadrare in questa guerra capillare anche le vittime nostrane come quella di Soumahoro, le minacce alla leader del PD Schlein, tramite l’attentato alla sorella, quelle un po’ più importanti in sede europea, come l’ex PD Panzeri, la greca Eva Kaili e burocrati di area socialista, fino all’ONG di Soros e, per osmosi, anche ai suoi ambienti filantropici e diplomatici di riferimento, essendo Soros un membro di quella piramide.

Non solo nel macro-mondo sono  veicolati certi messaggi.

   Leader conservatori come la Meloni, sono anche loro, velatamente minacciati e avvisati. In questo senso la guerra è labirintica e trasversale. Oggi tocca a me, domani a te!

Numeri, sangue, banconote saranno sempre più presenti nella megalopoli globale, rappresentando i simboli di questa guerra nascosta che talvolta si materializza agli occhi di noi profani.

Una guerra tra Fratelli coltelli per la leadership del comando, dove entrano in gioco nuovi assetti geopolitici, nuovi rapporti di forza e, soprattutto, chi e come dovrà gestirli.

   Nessuna mela marcia, semmai un sistema in decomposizione avanzata. 


[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/16/esplode-lacquario-cilindrico-piu-grande-del-mondo-strage-di-pesci-video/6907584/

https://tg.la7.it/esteri/germania-esplode-lacquario-gigante-allinterno-di-un-hotel-2-feriti-16-12-2022-178516

https://europa.today.it/attualita/aquadom-berlino.html

[2] Metto tra virgolette democratico poiché ciò dovrebbe significare potere del popolo nella realtà i popoli (in questo caso quelli europei) non contano niente.


 

I “NUOVI BUONI” DELLA SINISTRA BORGHESE

•Maggio 20, 2023 • Lascia un commento

   Una sinistra borghese in cerca d’autore ha partorito dal suo cappello magico le figurine dell’album Panini della politica del 3° millennio. Per prima la figurina dell’amico dei braccianti, poi quella della guardiana dei diritti civili e del mondo green. Un africano ed una giovane donna bianca per contrastare chi, una donna già questa scalata al potere l’ha già fatto.


   Vediamo casi umani come quello del buon Soumahoro, osservando la sua trasformazione da sedicente rivoluzionario naif creato dai media, con tanto di stivali rubati a veri braccianti, a sponsor “involontario” del peggiore malaffare delle cooperative per migranti.


   Vediamo anche la nascita di star elette alla leadership del PD, come la Schlein, interpretare i bisogni della comunità LGBTQ, oppure, le tematiche ambientaliste con marchio rigorosamente Green.

   Entrambi i personaggi confermano come la strumentalizzazione politica sia poi finalizzata a rimuovere le tematiche dei diritti dei lavoratori; tematiche sempre tenute volutamente in secondo piano ed al massimo sfiorate, giusto per compilare le ultime righe di un programma illusorio ed inesistente (o usate in maniera strumentale in quanto non si concettizzano in programmi di lotta).


   Loro sono i “nuovi buoni”, quelli che dovrebbero incarnare il ruolo di difesa degli ultimi, perché gli ultimi saranno i primi, ma spesso diventano più ultimi di prima; braccianti Docet.

   Da non trascurare il fatto per quanto riguarda la Schlein, l’attentato in Grecia ai danni della sorella diplomatica
[1] poiché potrebbe essere, forse, una sorta di messaggio ricattatorio.


   L’attentato minimizzato dai media, potrebbe indicare un avvertimento alla sua persona, forse si è voluto comunicare come funzionano le regole per il futuro.


   E’ poi lo stesso meccanismo, uguale/diverso capitato al buon Soumahoro, ovvero, una sorta di contrappasso.

   Della serie, ti sei voluto legare sentimentalmente alla famiglia che gestiva le cooperative che sfruttano i migranti, ti sei voluto parare il culetto facendoti eleggere, ottenendo l’immunità parlamentare ed un lauto stipendio senza fare nulla? Bene, ora levati dalle scatole, non servi più. Il tuo insulso partitino non ha più bisogno di te. Ora la destra fascista gongola poiché sei servito a sputtanare chi lotta onestamente e, senza fronzoli, in silenzio e senza quella putrescente retorica fastidiosa ed irritante, per i diritti dei proletari (migranti e italiani).


   Tutti questi personaggi, in modo diverso/uguale sono strumentali anche a loro insaputa, nascono per essere strumentalizzati e poi, magari, abbandonati al loro destino.


   Servono ai piani bassi per avere linfa vitale elettorale, illudendo chi crede alle fiabe del salvatore senza macchia, servono ai piani alti per spostare una sinistra borghese partitica sempre più a destra, in termini neoliberisti, ora sputtanandoli, ora svelando altarini, ora ricattandoli al momento giusto.


Ai piani bassi Soumahoro è servito al buon Fratoianni a superare lo sbarramento del 3%, che oggi può scaricare il suo inconsapevole ed ingenuo araldo, dicendo di non aver mai saputo nulla riguardo eventuali scandali passati. Molto cinico il buon Fratoianni, ma questa è la prerogativa dei ceti politici che sono nelle istituzioni.


   Stesso meccanismo varrà per la Schlein, ovvero, aggiornare il PD per le future generazioni, con tematiche strumentali e la retorica conseguente.


   Tutti questi epigoni di sinistra, non sono mai stati né comunisti, né socialisti, né mai realmente di sinistra.


   Sono più banalmente dei liberal neoliberisti schierati sul fronte sedicente progressista, ma che tale poi non è, in quanto mira all’eterna conservazione dello status quo capitalista.

   Proprio per questo motivo sono talvolta invitati come scimmiette ammaestrate a cantare bella ciao, perché in questo modo si danno un’identità che non hanno.

   Sono personaggi costruiti, promossi da ambienti filantropici, piacciono (o vengono fatti piacere dai media) soprattutto ai giovanissimi, perché vengono trattati strumentalmente i temi dei diritti civili, della comunità LGBTQ+, della medicalizzazione di massa e del ribellismo da Metaverso.

   Piacciono o potrebbero piacere a chi non ha coscienza di classe e servono, appunto, a far accettare da “sinistra”, sempre di più un clima neoliberista, come ineluttabile fenomeno imprescindibile di un eterno presente post-ideologico. Il tutto con lo zuccherino dei diritti civili che, ricordiamolo per l’ennesima volta, sono giusti e sacrosanti, peccato vengano sventolati come becera propaganda per far passare ben altro.


   Oltretutto, da quando il neoliberismo è nudo e palese al mondo cosciente, la strategia del potere è quella di imbarcare la zavorra strumentale dei diritti civili, del Green, evitando puntualmente di affrontare con serietà e spessore politico le contraddizioni del capitalismo e della lotta di classe.

Ergo, dall’alto di certi ambienti vengono scelti, cooptati e poi successivamente ricattati, personaggi peculiari o già appartenenti per lignaggio familiare al sistema, per incarnare strumentalmente la parte dei “buoni” contro i cattivi.


[1] https://www.repubblica.it/esteri/2022/12/02/news/atene_attentato_a_prima_consigliera_ambasciata_italiana_condanna_tajani_farnesina-377131043/

https://www.ilsole24ore.com/art/atene-rafforzata-vigilanza-sedi-diplomatiche-italiane-tajani-schlein-e-salva-miracolo-AE7kU2LC

https://www.corriere.it/politica/22_dicembre_08/attentato-susanna-schlein-rivendicato-anarchici-29ca43fc-76ed-11ed-8b31-7101dab59dee.shtml

MAFIA E CAPITALISMO

•Maggio 18, 2023 • 1 commento

   La realtà spesso e volentieri supera la fantasia. Dopo anni di studi, ormai è certo che esistono rapporti stretti, tra mafia, politica, servizi segreti, Massoneria, alta finanza e terrorismo internazionale.

   Nel 1979 Assim Akkaia racconta al dirigente della Squadra Mobile di Milano Enzo Portaccio che la città di Trento costituisce il punto di congiunzione tra la mafia turca e quella siciliana. Gli alberghi Karinali e Romagna di questa città erano appartenenti al trentino di origine altoatesina Karl Koefler che era collegato a Milano con i grandi trafficanti di armi e con la mafia che, tramite Angelo Marai e Leonardo Crimi.

   Gli alberghi che appartenevano a Koefler fungevano come centro di smistamento di morfina base e di eroina pura destinata alle raffinerie siciliane e quindi al mercato italiano e statunitense. Le indagini, che iniziarono nel 1980, condussero alla scoperta di 200 kg di tali sostanze nelle zone di Trento, Bolzano e Verona importate da un’organizzazione che in due anni aveva portato in Italia almeno 4.000 kg di sostanze stupefacenti.

   Questa massiccia importazione di sostanze stupefacenti, bisogna vederla dentro la dinamica che vide negli anni ’70, passare la direzione della commercializzazione delle sostanze stupefacenti nelle mani di Cosa Nostra siciliana.  La Sicilia divenne in quegli anni il maggiore laboratorio di produzione delle sostanze stupefacenti.

LA TRASFORMAZIONE DI COSA NOSTRA NEGLI ANNI OTTANTA

   Cosa Nostra siciliana conquistò in questo periodo una posizione di semi monopolio mondiale nel traffico degli stupefacenti. La conquista di tale posizione fu dovuta a una serie di condizioni. Una di queste è che essendo il cosiddetto blocco “socialista” fuori dal mercato illegale del crimine (pur essendo per via del forte debito integrato nel mercato mondiale), le mafie occidentali non dovevano fare i conti nel mercato criminale con competitori globali quali le mafie euroasiatiche: all’epoca la mafia russa era pressoché inesistente, e la mafia cinese, allora era incubata nelle comunità etniche d’origine come le Triadi in Cina e a Hon Kong.

   Tra le mafie occidentali, quella siciliana introduce la risorsa strategica e vincente dell’alleanza con la mafia americana, nel cui ambito le famiglie di origine siciliana avevano occupato posizioni di predominanza. Dopo lo smantellamento dell’asse turco-marsigliese nel campo del traffico internazionale degli stupefacenti a seguito della Task Force voluta dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e diretta da Henry Kissinger, sarà appunto Cosa Nostra siciliana a conquistare in questo campo posizioni di semi monopolio.

   Alla fine degli anni ’70 le famiglie siciliane mediante accordi con i fornitori turchi e asiatici monopolizzano l’acquisto di morfina base prodotta nei Paesi orientali. La morfina viene trasformata in eroina nei laboratori impiantati in Sicilia con un grado di purezza elevatissimo che la rende particolarmente appetibile. L’eroina prodotta viene trasferita negli Stati Uniti dove la stessa organizzazione siculo-americana provvede a distribuirla a volte cedendola ad altre organizzazioni criminali, a volte smerciandola direttamente al minuto.

   Il monopolio si estende anche al mercato europeo, con l’eccezione di alcuni settori settentrionali che vengono lasciati alla mafia turca.

   I miliardi così guadagnati vengono riciclati grazie all’intervento delle famiglie create appositamente nei Paesi del Sud America, del Canada, dell’Inghilterra, della Svizzera.

   Così Cosa Nostra si mondializza. Unendo i punti corrispondenti ai territori di produzione base (Oriente) a quelli di trasformazione del prodotto base (Sicilia) a quelli di smercio del prodotto finale (Nord America ed Europa) a quella del riciclaggio del capitale lucrato (Svizzera, Inghilterra, Florida, Aruba, Antille Olandesi, Canada, Venezuela, Brasile, Liechtenstein ecc.), si estendono i confini planetari del mondo della criminalità mafiosa siciliana dalla fine degli anni ’70 sino fine degli anni ’80.

   Le quantità prodotte e commercializzate sono di livello industriale. La morfina base acquistata a 13.000 dollari al kilogrammo viene rivenduta negli Stati Uniti a 110.000 dollari kilogrammi.

   Operando un calcolo globale sulla base della capacità produttività dei laboratori della morfina in eroina individuati nella prima metà degli anni ’80 (in media circa 200 Kg al mese per ogni laboratorio), di altri indici obiettivi (quali per esempio le quantità di anidride ascetica – ben 4.229 Kg nei soli primi sei mesi del 1982) delle dichiarazioni dei collaboratori, si perviene alla stima di un fatturato globale decennale di svariate migliaia di miliardi di dollari.

   Così Cosa Nostra entra nel club del capitalismo finanziario mondiale: sono gli anni Sindona, di Calvi, di Gelli, dello scandalo IOR.

   L’ingresso nel capitalismo finanziario internazionale comporta anche l’ingresso ufficiale di Cosa Nostra in alcuni circoli esclusivi del potere occulto nazionale e internazionale: in quegli anni alcuni capi della mafia siciliana entrano per esempio nella massoneria intessendo una ragnatela di rapporti, anche con esponenti dei servizi segreti nazionali e internazionali, entrando così nei sancta sanctorum del potere reale.

   Il culmine di questa parabola è raggiunto, quando Cosa Nostra dopo aver conquistato posizioni di quasi monopolio nel settore dell’eroina in Italia, nel Nord America e in Europa, divenendo fornitrice e grossista per altre organizzazioni come la Camorra e la ’ndrangheta, tenta di conquistare il monopolio nel settore della commercializzazione della cocaina in Europa e in Italia.

   Nell’ottobre del 1987 nell’isola di Aruba Cosa Nostra siciliana e il cartello colombiano di Medellin stipulano, infatti, un accordo commerciale di portata dirompente. L’accordo prevede lo scambio di eroina europea, monopolizzata da Cosa Nostra, con la cocaina prodotta in Colombia.

   Lo sviluppo del capitalismo commerciale di Cosa Nostra interagisce con il colpo di Stato con il quale i corleonesi conquistano il vertice dell’organizzazione inaugurando una stagione senza precedenti nella storia della mafia.

   Fino allora Cosa Nostra si articolava come una federazione di famiglie mafiose ciascuna delle quali aveva il proprio territorio e sceglieva i propri quadri di commando: il capofamiglia, i capidecina. In alcune famiglie, come quella di Santa Maria del Gesù, i capi erano eletti.

   Quest’articolazione determinava una frammentazione del potere tra le varie famiglie che si rifletteva anche sul piano dei rapporti di forza globali tra la struttura militare (dove la base di massa era di provenienza dalle masse popolari) e quei settori del sistema mafioso che facevano parte della classe dirigente: politici, imprenditori, finanzieri, professionisti, amministratori pubblici.

   I colletti bianchi si rapportavano non con l’intera organizzazione ma, di volta in volta con i componenti di questa o quella famiglia. Dietro il colletto bianco si proiettava l’ombra lunga dell’establishment di cui faceva parte per il suo stato sociale, dietro il mafioso militare l’ombra corta della singola famiglia di cui era membro.

   Inoltre, il colletto bianco particolarmente addentro a una singola famiglia aveva protezione di quella famiglia al pari di uno dei suoi membri. Se il componente di un’altra famiglia gli avesse fatto uno sgarbo o avesse provato a intimidirlo, avrebbe creato un incidente diplomatico suscettibile di un conflitto e sarebbe stato possibile di deferimento alla Commissione per violazione delle regole. Esisteva dunque un sistema di pesi e contrappesi, un bilanciamento tra le varie signorie territoriali delle famiglie mafiose che impediva una concentrazione del potere in unico vertice.

   Il colpo di Stato dei Corleonesi mediante lo sterminio di tutti i loro antagonisti interni, che fu definita la “seconda guerra di mafia” che scoppiò nel 1978 e finì circa nel 1983, provocò oltre 1060 omicidi.

   Esso determinò una rivoluzione nel gruppo dirigente della struttura militare di Cosa Nostra e dei suoi rapporti con la classe dirigente politica ed economica, ivi compresa quella sua componente (la borghesia mafiosa) che faceva parte del sistema mafioso.

  Riina e i suoi, infatti, pur lasciando formalmente inalterato il sistema di regole precedente, trasformano la struttura federale di Cosa Nostra in una dittatura, in una piramide controllata da un unico gruppo di comando che dal vertice dispone di tutte le risorse militari e relazionali con le varie famiglie in maniera ferrea e può decidere senza doversi più misurare con gli equilibri interni dei vari capimandamento o con poteri di veto di capi dissidenti.

   In tal modo i corleonesi vengono ad avere un’enorme concentrazione di potere in termini di risorse finanziarie e militari che squilibra il rapporto con i mondi superiori i cui esponenti i cui esponenti si trovano a confrontarsi non più con singole famiglie mafiose dal potere limitato e controbilanciato da quello di altre famiglie, ma con un enorme monolite, una macchina da guerra nelle mani di Riina e dei suoi. La cultura della mediazione affinata negli anni è soppiantata da una rozza cultura della prevaricazione.

   Quest’ascesa dei corleonesi è stata favorita da aiuti esterni da Cosa Nostra, da servizi segreti o da qualcuno in grado di influenzarli. Questa presa di potere ha avuto senza dubbio delle ripercussioni nelle diverse logge massoniche che in quegli anni erano sorte in Sicilia e collegavano mafiosi e imprenditori.

   Un’ipotesi da tenere in considerazione è che ci sia un collegamento tra l’ascesa dei corleonesi, lo sterminio dei loro rivali e la bancarotta di Sindona.

   Michele Sindona si era specializzato nell’esportazione di capitali e nel funzionamento dei paradisi fiscali, la sua spregiudicatezza nelle operazioni di Borsa gli permise di accumulare rapidamente una considerevole fortuna economica. Nel 1957 la famiglia della mafia americana dei Gambino gli affidò la gestione dei profitti dei loro traffici di droga. Nel giro di un anno, Sindona comprò la sua prima banca, la Banca privata finanziaria. Sindona fu in contatto con il cardinal Montini, arcivescovo di Milano che poi divenne papa con il nome di Paolo VI. Nel 1969 Michele Sindona inizio i suoi rapporti con lo IOR la banca vaticana: enormi capitali furono spostati dalle banche di Sindona, attraverso il Vaticano, vero le banche svizzere. Sindona divenne il terminale finanziario anche delle famiglie mafiose palermitane. La sua ascesa sembrò non incontrare ostacoli fino al 1971 quando fallì la sua operazione sulla finanziaria Bastoggi, che incontrò l’opposizione di Enrico Cuccia, il fondatore di Mediobanca.

   Nel 1972 Sindona conquistò il controllo della Franklin National Bank di Long Island, una delle prime venti banche statunitensi. Nel 1974 fu salutato come il “salvatore della lira” da Giulio Andreotti, ma nell’aprile dello stesso anno un rapido calo del mercato azionario provocò il crollo di Sindona. I profitti della Franklin National Bank persero il 98% rispetto a quelli all’anno precedente, Sindona fu così costretto a uscire dalla maggior parte delle banche che controllava. L’8 ottobre la banca di Sindona venne dichiarata insolvente per frode e cattiva gestione.

   Sindona riciclava i proventi del traffico di droga del gruppo Bontade-Badalamenti-Inzerillo-Gambino, famiglie che erano determinate a recuperare il loro denaro e per questo motivo aiutarono il finanziere per settanta giorni nel suo finto rapimento in Sicilia dal 2 ottobre al 16 ottobre 1979.

   Sindona è stato uno dei finanziatori del golpe Borghese, dall’inchiesta di Salvini risulta che una delle centrali dei finanziamenti USA al fascismo italiano era la Continental Illinois Bank di Cicero, Illinois che concentrava enormi capitali provenienti in massima parte dall’industria bellica statunitense. La Continental (come anche la Gulf and Western, che amministrava il capitale della mafia americana) forniva la copertura finanziaria alla Banca privata finanziaria, della quale si serve Sindona per la gigantesca operazione di trasferimento di medie industrie italiane sotto il controllo del capitale americano, che era iniziato nel 1968.

   Perciò una delle ipotesi sull’ascesa dei corleonesi è che sia stata favorita da chi avesse interesse allo sterminio dei creditori di Sindona, in altre parole dello sterminio della vecchia guardia mafiosa che aveva investito negli affari di Sindona.

   Se si guarda la sequenza degli avvenimenti, questa tesi appare plausibile.

   Nel 1970 si ha il tentato golpe Borghese, nel 1971 e 1972 ci furono i primi rapimenti per opera dei corleonesi, nel 1974 inizia il crollo di Sindona, nel 1975 viene arrestato a New York Sindona (ma fu subito scarcerato), nel 1977 iniziano a circolare notizie di un elenco di 500 persone che tramite lui avevano esportato capitali fuori dall’Italia, nel 1978 inizia la mattanza della vecchia guardia mafiosa, nel 1979 viene ucciso Ambrosoli il liquidatore della Banca privata finanziaria, ai primi dell’agosto 1979 inizia il falso rapimento di Sindona che termina il 16 ottobre quando viene ricoverato in Ospedale. In concomitanza con le uccisioni dei mafiosi delle vecchie famiglie mafiose, iniziò lo sterminio degli investigatori che si stavano occupando dei flussi finanziari di Cosa Nostra. Infatti, furono uccisi tutti quelli che stavano indagando sugli investimenti di Cosa Nostra. Furono omicidi commessi dai corleonesi ma che non riguardavano i loro traffici, bensì quelli dei loro predecessori.

   L’11 luglio 1979 fu ucciso Ambrosoli, il 21 luglio 1979 l’investigatore della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano. Ambrosoli e Giuliano si erano in precedenza incontrati a Milano, perché l’investigatore indagando su flussi finanziari dei traffici di Cosa Nostra avesse intravisto il ruolo di Sindona in questi traffici.

   Delle indagini di Giuliano si sarebbe dovuto occupare Cesare Terranova appena tornato di magistratura dopo alcuni anni da deputato indipendente eletto nelle liste del PCI. Il 25 settembre 1979 fu ucciso insieme al maresciallo Lenin Mancuso.

   Le indagini di Boris Giuliano furono riprese dal procuratore Costa. Il 6 agosto 1980 Costa fu ucciso a Palermo.

   Le sue indagini furono studiate da Pio la Torre deputato del PCI. Il 30 aprile 1982 Pio la Torre fu ucciso a Palermo.

  Il prefetto Dalla Chiesa fu inviato a Palermo e annunciò che non avrebbe risparmiato nessuno nelle sue indagini. Il 3 settembre 1982 Dalla Chiesa fu ucciso a Palermo.

   Il magistrato Rocco Chinnici iniziò a raccogliere il materiale che diede poi il via al maxiprocesso e il 29 luglio 1983 fu ucciso.

   Giovanni Falcone e Paolo Borsellino svolsero il ruolo dell’accusa in quel processo e nel 1992 furono uccisi entrambi.

   Dunque, se dietro la discesa dei corleonesi ci fosse il tentativo da parte di un soggetto esterno a Cosa Nostra di eliminare le tracce di un investimento dei capitali mafiosi e nello stesso tempo l’eliminazione degli stessi mafiosi creditori di questo investimento.

  Ma in cosa poteva consistere questi investimenti? Tanto da fare una macelleria per eliminare qualsiasi traccia.

   Proviamo fare delle ipotesi.

   Uno dei capitoli più controversi nella battaglia di Wojtyla contro il blocco “socialista” è quello dei finanziamenti segreti fatti arrivare a Solidarnosc.

   Nel biennio 1980-1981 tramite il Banco Ambrosiano presieduto da Roberto Calvi, il Vaticano comincia a versare capitali enormi al sindacato di Walesa. Tutto questo è avvenuto nel più assoluto segreto.

   Insieme con Roberto Calvi, deus ex macchina dell’intera operazione è Marcinkus, l’anima nera dello IOR, la banca del Vaticano. Con Roberto Calvi, Marcinkus imbastisce una rete di società fantasma nei paradisi fiscali di mezzo mondo, dove arrivano fiumi di soldi. Forte della benedizione vaticana, Calvi allaccia relazioni con Sindona, e il giro della P2. Quando nel 1981 viene condannato per reati valutari, e finisce in carcere a Lodi (dove tenterà il suicidio) il banchiere ha un problema che gli fa togliere il sonno: deve restituire decine di milioni di dollari al mafioso Pipo Calò e alla banda della Magliana. Lo IOR negli anni ’70 e ’80 diventa uno strumento del riciclaggio di denaro mafioso. Questi soldi sono utilizzati per contrastare il blocco “socialista” nell’Est europeo e impedire ogni avanzata delle forze avverse al Vaticano (e agli USA) nell’America Latina.

   Se si analizza il ruolo del Banco Ambrosiano, ha avuto sul piano internazionale, con una serie di proprie banche aperte in tutti paesi vediamo che il Banco ha finanziato tutti i regimi di destra e autoritari in America Latina.

   Il banco ha finanziato l’acquisto di armi, molto spesso di industrie italiane, per l’Argentina, per il Nicaragua e tutti i Paesi governati da regimi di destra. In Cile è stato costituito una finanziaria insieme a Pinochet. “In Nicaragua, quando Somoza entrò in crisi, il Banco di Managua, che faceva capo al Banco Ambrosiano, dirottò centinaia di milioni di dollari per sostenere il dittatore.” (“Intervista a Radio popolare sulla vicenda Calvi-Banco ambrosiano.”)

   In sostanza il Banco Ambrosiano è stato uno strumento dell’intervento politico del Vaticano in accordo con l’imperialismo USA.

   Il retroterra del buco dell’Ambrosiano sta appunto nel finanziamento di questi regimi. Ottocento milioni di dollari, su un buco di milleduecento, furono dirottati all’estero sulle finanziarie sudamericane del Banco Ambrosiano.

   Bisogna tenere conto che il “caso Calvi” avviene proprio in cui in Italia si chiude la fase del compromesso storico e si apre quella della riconversione politica, che punta non più al coinvolgimento del PCI ma al suo isolamento.  Siamo nel 1980-81, dove si apre una nuova fase del capitalismo italiano attraverso il rilancio della finanza, della borsa, dell’autofinanziamento e di un abnorme attività di speculazione finanziaria da parte dei grandi gruppi.

   Proprio in questo periodo, Calvi era riuscito a mettere assieme circa il 25% delle società quotate in borsa, le più ricche, quelle che fanno gola. Ad esempio, le compagnie di assicurazioni: attraverso l’alleanza con Pesenti e Bonomi, Calvi contava sulle Toro e sulla Ras. Era riuscito a mettere assieme la più grande banca privata italiana con la fusione tra il Banco Ambrosiano, la Banca Cattolica del Veneto e il Credito Varesino; a mettere le mani sull’informazione. Aveva capito, che il gioco in borsa si conduce attraverso messaggi da lanciare ai risparmiatori sui giornali e attraverso l’orientamento del risparmio fatto dalle banche e delle compagnie di assicurazione, che raccolgono grandi liquidità e poi le giocano in borsa. Proprio quando il capitalismo italiano tende a lanciarsi in questo senso, Calvi diventa un personaggio ingombrante, un personaggio che gioca pesante. E chi subentra a Calvi? Agnelli, che acquista la Toro, Rizzoli e il Corriere della Sera tornano nelle sue mani, che nel frattempo acquista pure la quota di maggioranza del Banco Ambrosiano.

   Vediamo adesso le conseguenze che l’ascesa dei corleonesi ha comportato nel settore dell’economia.

   La novità è che nel settore degli appalti pubblici, i capi dell’organizzazione decidono di non limitarsi più a taglieggiare a valle le imprese aggiudicatrici ma di entrare direttamente nella cabina di comando nella quale fino allora i vertici politici e imprenditoriali regionali e nazionali avevano monopolizzato la manipolazione dei grandi appalti.

   Cosa Nostra pretende e ottiene di sedere con i propri uomini al tavolo delle trattative di vertice; partecipa alle operazioni di pianificazioni e a volte arriva a imporre a politici e imprenditori le proprie condizioni con la minaccia di morte o lo strumento del ricatto.

   In questo nuovo sistema, i politici continuano a svolgere il ruolo di sempre occupandosi dei finanziamenti, mentre Cosa Nostra pianifica una turnazione nell’aggiudicare le gare di appalto che garantisce a quasi tutti gli imprenditori che contano l’aggiudicazione a rotazione degli appalti pubblici. Questo sistema consente di azzerare la concorrenza tra imprenditori nelle gare d’appalto e di predeterminare l’aggiudicazione tramite offerte concordate con ribassi minimi. Il maggior guadagno conseguito risparmiando sul ribasso d’asta è destinato a finanziare la percentuale di tangente destinato ai politici pari al 2%, quella di Cosa Nostra, pari a un altro 2% e quella riservata agli organi di controllo, pari allo 0,50%.

   Questo meccanismo coinvolgeva per ogni gara manipolata circa 50 persone in media tra politici, imprenditori, mafiosi, professionisti, pubblici amministratori, funzionari, soggetti inseriti negli enti di controllo. Se si moltiplica questo dato numerico per centinaia e migliaia di gare d’appalto, si ha la proiezione macrosistemica del fenomeno.

   Questo modello oltre che in Sicilia prese piede anche in Campania e in Calabria.

   Un altro indice di mutamento del mutamento dei rapporti di forza tra mafia militare e i vertici politici emerge dalla decisione di Cosa Nostra, in occasione delle elezioni politiche nazionali del 1987, di dare una “lezione” alla DC, da sempre il partito di riferimento dell’organizzazione e della cui politica i vertici mafiosi erano insoddisfatti.

   I corleonesi ordinarono di dirottare il consenso elettorale pilotato dall’organizzazione verso il PSI e il Partito Radicale che in quel periodo si erano fatti portatori di una linea politica fortemente critica nei confronti della magistratura, sfociata nella campagna per la promozione di un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati.

   Nei quartieri popolari di Palermo la DC registra un vistoso calo consensi che si riversano sul PSI e sui radicali. Il partito del garofano a Palermo passa dal 9,8% al 16,4%. I radicali, che sino allora in città quasi non esistevano, raccolgono il 2,3% dei voti.

MISSILI A COMISO E LA MILITARIZZAZIONE DELLA SICILIA

  All’inizio degli anni ’80 in Sicilia si assisté allo sviluppo di tre gravi fenomeni, oltre al terrorismo mafioso, ci furono l’installazione dei missili nucleari e la militarizzazione a tappeto.

   La Sicilia ha sempre avuto una centralità strategica, per il suo essere collocata al centro del bacino del Mediteranno, sia dal punto di vista militare che in quello commerciale.

   Durante la Seconda guerra mondiale imperialista in previsione dello sbarco in Sicilia il servizio segreto militare degli Stati Uniti reclutò diversi esponenti della mafia italo-americana ai quali fu affidato il compito di informare i servizi sulla situazione siciliana e di preparare il terreno e il personale politico per amministrare l’isola una volta conquistata.

   Il boss Lucky Luciano – alias Salvatore Lucania – che era che era detenuto nel penitenziario statunitense di Dannemora, fu contattato da ufficiali del NIS il servizio segreto dell’US Navy. In cambio della sua collaborazione Lucky Luciano chiese che a guerra finita gli fosse concessa la libertà sulla parola.  I patti furono rispettati, egli (che aveva una condanna a trent’anni di reclusione) fu liberato nel 1946.

   Torniamo negli anni ’80, in questo periodo il Mediterraneo non era più un mare americano ma un mare in tempesta. Oltre al conflitto tra palestinesi e israeliani, alle guerre arabo-israeliane (1948-49, 1956, 1967 e 1973) c’è la guerra civile in Libano e il relativo intervento bellico israeliano.

   Per completare il quadro della situazione nell’area bisogna ricordare i travagli interni nella Jugoslavia (in particolare nel Kosovo), il colpo di Stato in Turchia nel 1980, l’assassinio di Sadat nel 1981, in Tunisia dove nel gennaio 1984 ci furono i tumulti per il pane, in Marocco ci fu l’assassinio del generale Dlimi a seguito di un complotto antimonarchico sventato nel 1983, in Spagna c’era la guerriglia dei baschi da parte dei GRAPO e in Corsica ci fu un susseguirsi di attentati.

   A questo crogiolo di tensioni e di conflitti le grandi potenze hanno reagito passando da una strategia basata sulla proliferazione di basi e punti di appoggio a una nuova strategia basata sulla limitazione delle basi permanenti a pochi paesi considerati sicuri e sul continuo potenziamento della presenza delle flotte navali e dell’arsenale nucleare di cui erano dotate.

   Questa risposta delle grandi potenze deve essere inquadrata nella controffensiva da parte dell’imperialismo USA che ci fu negli anni ’80.

   Le misure più importanti applicate furono orientate in tre direzioni.

  • Continuare la guerra fredda con il riarmo ideologico del progetto borghese: passare dalla lotta difensiva interna caratterizzata dalla creazione dello Stato “sociale”, alla lotta offensiva interna: postmodernismo, nuovo individualismo utilizzando la penetrazione dei nuovi mezzi di comunicazione di massa (cinema, musica, televisione, ecc.).
  • Superamento dello Stato sociale.
  • Riprendere il controllo dell’orientamento delle politiche dei paesi dipendenti e controllati. Per questo sono applicate le misure più diverse: i colpi di Stato (America Latina, Africa), l’attacco contro il sistema delle Nazioni Unite, concentrando il potere nel Consiglio di Sicurezza e provocando la crisi finanziaria degli organismi vincolati al Nuovo Economiche internazionale (NOE), come l’UNCTAD o l’UNESCO; vince il dogma della stabilità politico economica globale, divenuto elemento prioritario della politica di controllo, di dominio imposto nel mondo anche attraverso organismi politico-economici internazionali (WTO, BM, BEI, OCSE, WTO ecc.).

   Si sviluppa in tutti i paesi imperialisti, il keynesismo militare. Negli Stati Uniti la corsa agli armamenti fa parte del sistema di accumulazione capitalista, in altre parole esso assorbe gran parte delle spese pubbliche, anche se chi ne beneficia, non sono imprese pubbliche, essa è servita indirettamente al funzionamento del sistema capitalistico dal punto di vista dell’accumulazione, poiché, attraverso la via militare, si è riusciti a trasformare l’impegno militare in produzione di beni e servizi per la distribuzione universale. Gli investimenti militari sono stati finanziati con il bilancio pubblico e il Pentagono era l’unità economica pianificata più grande del mondo. Gli USA sono consapevoli che senza egemonia militare non potrebbero imporre al mondo il finanziamento dei loro deficit, che gli consente di mantenere in maniera del tutto artificiale, senza alcun stabile e strutturale retroterra in alcun sistema macroeconomico.

   La strategia reaganiana rivolta al Mediterraneo si articolava in tre direzioni principali:

  • Gli accordi di cooperazione con Israele. Il 30.11.1981 gli Stati Uniti e Israele sottoscrivono un accordo di cooperazione strategica allo scopo di “scoraggiare qualsiasi minaccia proveniente dall’Urss nella regione”. Le clausole specificamente militari dell’accordo sono sempre rimaste segrete.
  • La costituzione della Rapid deployment force (Rdf). La Rdf rappresenta il compimento di un progetto lanciato da Carter fin dal 1977. Nella metà degli anni ’80 era composta di 230.000 uomini e dal 1983 il suo quartier generale era costituito c/o il Centcom (Comando centrale americano) in Florida. La Rdf ha l’obiettivo di proiettare la forza militare americana nel più breve tempo possibile a più di 10.000 Km di distanza.
  • Ruolo dell’Italia. L’Italia in questo contesto è destinata a svolgere un ruolo da protagonista grazie alla sua posizione geostrategica. Un esempio: è di questo periodo lo spostamento del comando delle forze navali americane in Europa da Londra a Napoli, dove si è andato a unire al comando NATO del sud Europa. Il ministro della “difesa” italiano dell’epoca il “socialista” Ligorio mette in discussione il “vecchio modello di difesa”, basato essenzialmente sulla “soglia di Gorizia”. La nuova “minaccia” viene dal Sud.

   Il primo episodio di tale impostazione della politica italiana è stato l’impegno italiano a garantire la “neutralità” di Malta. L’accordo del 15 settembre 1980 contiene l’impegno dell’Italia di intervenire anche militarmente in caso di “violazione della sovranità di Malta”. Quest’accordo nasceva dalla richiesta di Malta di essere sostenuta nella vertenza in atto con la Libia sul diritto di ricerca d’idrocarburi nella zona di mare di Medina.  L’accordo è viziato da un’assurdità esplicita: come può un paese come l’Italia che è integrato in un’alleanza militare (la NATO) a impegnarsi a garantire la neutralità di un paese?

   Il 1982 vede l’inaugurarsi l’era delle spedizioni italiane in Medio Oriente. La prima è collegata all’attuazione degli impegni di Camp David tra USA, Israele ed Egitto. Il governo italiano decide di contribuire con tre dragamine e un contingente militare alla Forza multinazionale da inviare nel Sinai e autorizza che il quartier generale sia insediato a Roma. Non passano tre mesi e l’invasione israeliana del Libano – scattata nel 1982 – fornisce l’occasione per ripetere in grande l’invio di forze militari NATO nella regione, al di fuori della cornice dell’ONU e con il pretesto del mantenimento della stabilità dell’area. Francia, Gran Bretagna, USA e Italia inviano dei contingenti di truppe che si impegnano a impedire l’ingresso delle truppe israeliane a Beirut. Ma proprio sotto gli occhi ci fu l’orrenda strage di Sabra e Chatila da parte degli israeliani. Con il passare dei mesi, il carattere della Forza Multinazionale appare in maniera evidente che il suo reale scopo non è certo quello di garantire la pace, ma di essere lo strumento d’intervento militare della NATO al di fuori dei confini dell’Alleanza Atlantica per sostenere il governo di destra di Beirut e combattere le opposizioni mussulmane e le forze della resistenza palestinese.

   In pieno agosto 1984 il governo egiziano si rivolge a Francia, Gran Bretagna, USA e Italia per lo sminamento di alcuni tratti del Mar Rosso.

   Nell’agosto del 1981 ci fu la notizia che a Comiso avrebbero dovuto essere installati 112 micidiali missili Cruise. Per quale ragione fu scelta la Sicilia e in particolare Comiso? La risposta sta nella carta geografica. Prendendo come ipotetico bersaglio dei Cruise quella parte dell’Unione Sovietica sulla quale sono piazzate le rampe dei SS-20, Comiso appare una delle zone di lancio più lontane. Se però il bersaglio si trovasse sull’Africa settentrionale e nel Mediterraneo, la Sicilia sarebbe la zona di lancio ideale. Perciò la scelta della Sicilia è una chiara espressione della volontà di allagare la volontà verso il sud il raggio di azione della NATO.

   In Sicilia si è andato concentrando un dispositivo militare impressionante. Ci sono missili atomici, aerei americani e italiani che possono essere armati con bombe nucleari, gli aerei radar più avanzati del mondo e i caccia più moderni di cui disponga l’aereonautica italiana; poi 20.000 ettari furono destinati a un enorme poligono di tiro. Dalle installazioni maggiori (Comiso, Sigonella, Trapani, i Nebroidi) alle decine di base secondarie; non c’è deposito, installazione radar, pista di aeroporto che non sia interessati dal processo di “ampliamento” e “ammodernamento”.

   Contro l’installazione dei missili a Comiso si sviluppò in Sicilia, in Italia e in tutta l’Europa occidentale, un forte movimento di lotta. Ci furono parecchie iniziative che avevano l’obiettivo di bloccare o almeno di ostacolare i lavori all’interno della pace. A Comiso si tenne la riunione internazionale contro i Cruise (Imac). Questo movimento in Sicilia s’impegnò non solo contro l’installazione dei missili a Comiso, ma anche contro i nuovi annunciati casi di militarizzazione: da Centuripe ai Nebrodi. Il progetto colossale poligono dei Nebrodi, che alcuni considerano il paravento di un’area di dispersione privilegiata dei Cruise di Comiso, dà l’occasione per realizzare un’unità di azione tra i militanti del movimento contro l’installazione dei missili e le popolazioni locali.

   Allora c’è un possibile nesso tra aumento del terrorismo mafioso e installazione dei missili e militarizzazione dell’isola?

   Torniamo a Sindona quale fu il vero scopo della sua fuga in Sicilia? Il bancarottiere e i suoi complici mafiosi e massoni hanno dato tante spiegazioni, molto frammentarie e poco convincenti. Si ha ragione a credere che Sindona e il suo clan venissero in Sicilia a compiere, in cambio di non si sa quali vantaggi personali, una missione politico- criminale: comprare l’appoggio e il sostegno armato dei più potenti gruppi di Cosa Nostra a un progetto reazionario, destabilizzante (per poi stabilizzare in senso conservatore) da attuare in Sicilia. Sindona doveva garantire con il “prestigio” che la sua persona aveva in questi ambienti quest’alleanza. Mandanti e ispiratori sarebbero stati settori del Partito Repubblicano, esponenti del pentagono e della CIA.

   Guarda caso al processo di New York Sindona ha esibito lettere di esponenti del Pentagono presentandole come le credenziali, l’avallo preventivo dato da autorevoli ambienti statunitensi a progetto di Colpo di Stato in Sicilia. Ovviamente i giudici americani, come in altre occasioni del genere, non hanno voluto approfondire questa pista, che rischiava di portare molto ma molto in alto.

   A quanto si diceva sopra del ruolo di finanziatore di progetti politici ed economici di Sindona, si può aggiungere quello che diceva il rapporto che fu presentato al Congresso degli Stati Uniti dal deputato Pike” “Sindona fu un elemento chiave nella distribuzione di milioni di dollari della Cia a partiti italiani di centro e di destra; parte di questi soldi servirono a finanziare il fallito colpo di Stato fascista del dicembre 1970”.

   Dopo la visita di Sindona la violenza mafiosa a Palermo fece un salto di qualità, assumendo connotazioni inedite, tanto che per definirle fu coniato il termine di “terrorismo mafioso”. A Palermo si registrò un’agghiacciante sequenza di assassini: le vittime, furono, fatto assolutamente nuovo, personalità politiche, magistrati funzionari di polizia; i grandi delitti di Palermo decapitarono in breve tempo tutti i vertici politici e istituzionali.

BANCHE ARMATE DELLA NUGAN BANK ALLA BCCI

   Il 5 luglio 1991 scattò in Europa il più grosso blitz contro un istituto di credito, la Banca di credito e commercio internazionale (Bcci).    

   Lo scandalo era iniziato negli Stati Uniti nel 1989, quando la filiale di Miami era stata indagata per aver riciclato denaro proveniente dal traffico di droga. Un tribunale di Tampa (Florida) aveva condannato sette dirigenti dell’istituto per traffico di stupefacenti e aveva indicato nella Bcci la banca personale di Manuel Noriega.

   In seguito, dopo vari tentativi di tenere il caso sotto controllo, cominciarono a emergere implicazioni di servizi segreti (in particolare della CIA), traffici di armi e di componenti per bombe atomiche per conto del Pakistan, Iraq e Argentina.

   La banca era nata con l’uomo d’affari pachistano Agha Assan Abedi, protetto   dall’allora dittatore Zia. Tra i fondatori vi furono cinque principi sauditi, quattro sceicchi, la Bank of America, l’Unione delle Banche Svizzere (Ubs) e il finanziere saudita Gaith Pharaon che usò la banca per alcune delle più spregiudicate avventure finanziarie in tutto il mondo, tentando in Italia anche la scalata della Montedison.

   Sin dalle prime dell’inchiesta sulla Bcci, condotta in vari paesi, dagli Stati Uniti a Hon Kong, da Londra a Zurigo, si appurò che l’istituto era implicato nei più loschi traffici di armi, droga e terrorismo, in convivenze con Noriega, con il trafficante di droga di Hong Kong Lauw Kin-Men (correntista con 25 milioni di dollari).

   La Bcci aveva seguito una linea di sviluppo caratterizzata di mettere a disposizione ai propri clienti servizi “molto speciali”.

   Questa strutturazione era evidenziata dalla presenza di un alto numero di ex funzionari dei servizi segreti e di terroristi, collocati all’interno dell’organigramma della banca in posizioni gestionali, e spesso in stretto collegamento con operatori dei servizi segreti dei paesi imperialisti e in particolare quelli statunitensi.

   L’organizzazione e la struttura della Bcci presentavano profonde analogie con quella di un altro istituto di credito privato, la Nugan Hand Bank di Sidney, che aveva cessato di operare nel 1980.

   L’origine della Nugan Hand Bank ha origine dalle attività dei servizi segreti USA contro la Cuba castrista.

   Nel tardo 1959, l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Nixon, con la diretta partecipazione e cooperazione del Direttore della CIA Allen Dulles, si assunse la direzione e il reclutamento di cubani di destra espatriati a Miami e fece istituire due basi segrete di addestramento militare, una a sud di Miami, e l’altra in Guatemala. L’addestramento era compiuto da agenti della CIA, l’obiettivo di quest’operazione era di infiltrare segretamente questi cubani a Cuba, dove avrebbero dovuto animare centri di guerriglia contro il governo rivoluzionario cubano. Tali forze avrebbero dovuto attuare attacchi terroristi alle infrastrutture economiche di Cuba, rendendo difficile la gestione dell’economia.

   Per l’avvio di questo programma Nixon prese contatto segretamente nei primi mesi del 1960 Robert Maheu, capo del personale e direttore de facto del miliardario impero finanziario di Howard Hughes, per partecipare a un incontro segreto che si tenne nel 1960 in Florida con due uomini che rappresentavano il mafioso dell’Avana don Santo Trafficante. Questi possedeva all’Avana un favoloso Casinò, un Hotel e un’organizzazione di sfruttamento della prostituzione, ma nel 1959 aveva seguito la sorte di Battista, che era un socio di affari.

  In quest’incontro si convenne che l’Operazione 40 (quella con i cubani di destra, che tra l’altro non era stata autorizzata del Congresso) sarebbe stata integrata da una sub operazione “privata” all’interno della prima, che sarebbe stata direttamente diretta da Santo Trafficante. Compito di quest’unità era di assassinare Fidel Castro, suo fratello Raul Castro, e altri cinque leaders cubani. I membri di quest’operazione erano addestrati in Messico, il gruppo era composto da mafiosi legati a Santo Trafficante e da cubani legati a Battista. Il nome che si diede a questo gruppo era Shooter Team.

   Quando Kennedy divenne presidente, fu ragguagliato dell’Operazione 40, ma non risulta che fu informato dell’esistenza del Shooter Team. Tra il gennaio e l’aprile del1961, la strategia d’infiltrazione con azioni di guerriglia dell’Operazione 40 fu trasformata in un piano di invasione militare di Cuba. L’invasione, condotta da uomini dell’Operazione 40, fallì disastrosamente nell’aprile del 1961.

   Nel 1961 Robert Kennedy riaggregò i resti dispersi dell’Operazione 40 e riprese l’iniziale strategia d’infiltrazione capillare e dei raids di guerriglia all’interno di Cuba. L’Operazione 40 fu ribattezzata Operazione Mongoose. Questa guerra segreta fu condotta dall’amministrazione Kennedy dal giugno 1961 al novembre 1963. Supervisione di quest’operazione era Theodore Shackley, il suo vice era Thomas Clines.  Quest’operazione funzionava in società con Santo Trafficante e aveva la sua base in alcuni edifici del campus universitario dell’Università di Miami.

    Nel 1963, diversi partecipanti a questa operazione furono arrestati per spaccio di droga. Questo ricorso a criminali legati a Battista e a Trafficante cominciò a porre “problemi di controllo”. Ma nonostante questo il programma continuò.

   Nel 1965 l’Operazione Mongoose fu chiusa, Shackley e Clines furono trasferiti nel Laos, come responsabili delle operazioni della CIA in questo paese.

   Shackley e Clines fornirono segretamente aiuti aerei a Van Pao capo della popolazione locale Hmong, che era impegnato a controllare una parte del commercio di oppio del Laos. Durante il 1965, i concorrenti di Van Pao nel traffico di oppio furono assassinati. Nello stesso tempo fu portato avanti un addestramento degli Hmong, che dovevano essere usati nelle azioni di “guerra non convenzionale”. Quest’attività includeva anche l’assassinio politico. Queste operazioni iniziarono nel 1966, erano segretamente finanziate da Van Pao.

 Nel 1964 fu costituito in Saigon, un gruppo per operazioni speciali. Questo gruppo era un’operazione militare multiuso, nota come “Special Operations Group” del Comando di Assistenza del Vietnam. Questo gruppo, tra gli altri compiti, controllava le attività segrete di assassini politici dell’unità segreta degli Hmong; comunque, il gruppo operava di fatto sotto la supervisione di Shackley e di Clines. Dal 1966 al 1968, il comando dello Special Operations Group fu del generale John K. Singlaub. 

  Dal 1965 al 1975, lo Special Operations Group, mediante l’unità segreta degli Hmong, finanziata dai profitti del traffico di oppio di Van Pao, assassinò segretamente oltre 100.000 sindaci di villaggio non combattenti, contabili, impiegati e altri funzionari nel Laos, in Cambogia e in Thailandia.

   Nel 1968 ci fu un incontro a Saigon tra Santo Trafficante e Van Pao, dove si accordarono per l’esportazione di eroina negli Stati Uniti. Santo Trafficante divenne il primo importatore e distributore di eroina del Sud Est asiatico in America. I profitti di Van Pao, di conseguenza aumentarono ed egli erogò il suo contributo finanziario al progetto di assassinio politico e di guerra non convenzionale del gruppo segreto degli Hmong.

   Nel 1972 Shackley e Clines, furono trasferiti negli Stati Uniti, dove divennero responsabili delle operazioni CIA nell’emisfero occidentale. Questa divisione della CIA diresse le operazioni in America Latina.

   Con questo ruolo, diressero le operazioni in Cile contro il presidente Allende che fu deposto e assassinato nel settembre 1973.

 Poco prima del rovesciamento del governo cileno, il duetto divenne responsabile delle operazioni in Asia orientale della CIA.

   In questo ruolo, dal 1974 al 1975 diressero nel Vietnam il progetto Phoenix che attuò la missione segreta di assassinio di membri del mondo economico e politico vietnamita, con lo scopo di paralizzare questa nazione dopo il totale ritiro degli amerikani dal Vietnam. Il progetto Phoenix, in tutto il corso, eseguì in Vietnam l’assassinio di circa 60.000 sindaci di villaggio, tesorieri, insegnanti ed altri funzionari amministrativi.

   Anche ilprogetto Phoenix fu finanziato dalle ingenti somme di denaro provenienti dai traffici di oppio di Van Pao.

   Il denaro proveniente da questi traffici era amministrato da Shackley e Clines tramite un ufficiale di Marina USA di stanza nell’ufficio delle Operazioni Navali di Saigon, Richard Armitage.

   Il denaro eccedente a quello che viene speso in Vietnam venne segretamente portato in Australia, dove fu depositato in un conto bancario personale e segreto presso la Nugan Hand Bank di Sidney. Questa banca ben presto fu sotto il controllo del gruppo degli agenti CIA che facevano capo a Shackley e Clines.

   In quello stesso periodo tra il 1973 e il 1975, Shackley e Clines fecero che sì che migliaia di tonnellate di armi di armi, munizioni ed esplosivi USA fossero segretamente trasportati in segreto in Thailandia.

   Dopo l’evacuazione degli americani dal Vietnam Shackley e Clines furono inviati in Iran.

   In Iran Armitage (l’amministratore dei fondi di Van Pao destinati alle operazioni segrete), tra il maggio e l’agosto 1975, creò una base finanziaria segreta per depositare i fondi provenienti dai traffici di droga di Van Pao nel Sud Est asiatico. Scopo di questa base era il finanziamento di operazioni nere (non autorizzate ufficialmente dalla CIA) all’interno dell’Iran. Tali operazioni dovevano ricercare, individuare ad assassinare gli oppositori dello Scià.

   La Nugan Hand Bank, negli anni ’70, operò a livello internazionale come polmone finanziario del traffico di eroina e armi, agendo non solo nel Sud-Est asiatico, ma anche in altre aree, dalla Libia di Gheddafi al Nicaragua di Somoza. Sin tanto che, nel 1980 dopo la scoperta delle sue connessioni con i traffici di droga e armi, fallì: uno dei suoi fondatori, Frank Nugan, morì “sucida”.

  Quando il Congresso degli Stati Uniti approvò il Boland Amendment nel tardo 1983 con il quale ordinò alla CIA e alla Casa Bianca di interrompere ogni aiuto ai Contras che stavano svolgendo una guerra contro il governo sandinista. Fu riattivato il Secret Team (ovvero il gruppo d’intervento per operazioni sporche di Shackley e Clines) per compiere forniture militari ai Contras. Ma non ci fu solo questo, quando il governo USA decise tra il 1985 e il 1986, di effettuare una vendita segreta all’Iran, essi usarono sempre il Secret Team per condurre questa operazione.

   Il Secret Team acquistava le attrezzature militari del Pentagono a prezzi di fabbrica e le rivendeva all’Iran a prezzi di mercato. I profitti in eccedenza ricavati dalla vendita furono riversati tramite la Lake Resource, Inc., Compagnie de Services Fiduciaires, nel conto, in Grand Cayman, a nome della CSF Investments, dove il Secret Team teneva in deposito i fondi che adoperava per finanziare la guerra dei Contras contro il Nicaragua sandinista.

   A questo bisogna aggiungere il traffico di cocaina colombiana fornita dai cartelli di Escobar e Ochoa, verso gli Stati Uniti, dove i profitti servivano a finanziare i Contras.

   Torniamo adesso a parlare della Bcci. Nel gito di un anno della sua fondazione nel 1971, aprì sei uffici, a Londra, a Lussemburgo, a Beirut e negli Emirati arabi del Golfo. Si trovò in breve ad avere 146 filiali in 32 paesi, di cui 45 filiali nel Regno Unito dove divenne la più potente banca straniera.

  L’istituto si divise in due società diverse, una con sede a Lussemburgo, l’altra nelle isole Cayman.

   La Bcci riusciva a conquistare nuovi clienti muovendosi nella tradizione dell’antica città di Lahore.

   Gli uomini della Bcci si procuravano nelle antiche città d’oriente bellissime donne giovani per i loro clienti.

   I clienti della Bcci avevano tutti una grande passione per l’esotismo.

   Nell’imponente hacienda del padrino colombiano della droga, Pablo Escobar, appena fuori Medellin, c’era uno zoo esotico che accoglieva tra l’altro cacatua del valore di 14.000 dollari ciascuno e un canguro ammaestrato capace di giocare a calcio. 

 In Pakistan Abedi era visto come un grande benefattore: forniva posti di lavoro, borse di studio, cure mediche ai poveri e (importante in un paese mussulmano) consentiva ai mussulmani privi di mezzi di compiere il loro pellegrinaggio alla Mecca.

  Abedi riuscì a far entrare l’istituto negli Stati Uniti grazie a figure chiave a Washington, come Clark Clifford (ex segretario alla “Difesa” e figura di spicco del Partito Democratico), che fece poi da avvocato, e Bert Lance, responsabile del Bilancio con Jimmy Carter.

  La Bcci acquistò quattro banche negli USA, la più grande delle quali, la Financial General (FG), era anche la più importante di Washington e deteneva i conti personali delle persone più importanti della capitale: in seguito prese il nome di First American.

   Tra i prestanome della banca, vi erano numerosi suoi azionisti, come il saudita Gaith Pharaon e Kamal Adham, capo dei servizi segreti militari dell’Arabia Saudita. Il primo provvedeva agli agganci nel mondo degli affari; il secondo curava i rapporti con Washington.

   Nel 1976, la Bcci aprì a Ginevra la Banque de Commerce et de Placements (Bcp), che avrebbe svolto un ruolo essenziale in operazioni sui cambi collegate a transazioni petrolifere.

   Nel 1977 il generale Zia rovesciò Bhutto e assunse il potere in Pakistan. Il suo regime permise agli associati della Bcci di acquistare il grosso dei pozzi pachistani di petrolio. Il 4 ottobre 1978 veniva costituita una società, la Italfinanze, che mise insieme intorno a interessi petroliferi operatori pachistani e italiani.

   A partire del 1979 ci furono una serie di avvenimenti che propiziò un più stretto legame tra i servizi segreti americani e i governi del Medio Oriente.

 Il primo fu il rovesciamento nel 1979 dello Scià Reza Pahalavi, che era un fedele alleato di Washington nella regione. Il secondo fu l’invasione da parte dell’U.R.S.S. dell’Afghanistan e il terzo lo scoppio della guerra fra Iraq e Iran.

   La Bcci con i suoi stretti legami con Washington e Riyadh ovviamente fu coinvolta profondamente in queste vicende. Il Pakistan cercò aiuti finanziari nei paesi arabi per far fronte alla minaccia dell’U.R.S.S. Il generale Zia volò immediatamente in Arabia per battere cassa e si recò in seguito negli Stati Uniti. Insieme con il governo pachistano, la CIA s’impegnò in una campagna di sostegno ai ribelli afghani e fu in quest’operazione che la Bcci emerse ancora una volta, e sempre più chiaramente, come uno strumento di collegamento dei servizi.

  La Bcci aveva agito in diverse operazioni segrete per conto dei sauditi: i suoi denari avevano raggiunto l’UNITA angolano e Noriega a Panama. In seguito, fu utilizzata dal National Security Council, per la compravendita di armi nel progetto Iran-Contras e la stessa CIA usufruiva regolarmente dei conti della Bcci di Monte Carlo. Grazie all’impegno della banca, i sauditi erano riusciti a impossessarsi dei missili cinesi Silkworm e l’istituto fungeva addirittura da intermediario negli acquisti di armi delle agenzie di spionaggio israeliane e occidentali.

   Con il coinvolgimento della Bcci, si creò all’interno della banca un istituto bancario occulto. La sua sede era Karachi, città della quale la rete svolgeva il ruolo di operatore finanziario per tutte le esigenze della CIA. Con i suoi 15.000 dipendenti agiva con le stesse modalità della Mafia, ed era un’organizzazione profondamente integrata: finanziava e promuoveva la compravendita occulta di armi fra diversi paesi, eseguiva spedizioni con una flotta di sua proprietà, le assicurava con una sua agenzia e forniva la manodopera per garantire la sicurezza lungo il percorso. I funzionari della Bcci in Pakistan sapevano chi corrompere, quando e come farlo. Alla metà degli anni ’80 questa rete nera controllava il porto di Karachi e gestiva tutte le operazioni doganali delle spedizioni della CIA dirette in Afghanistan, comprese le indispensabili tangenti per l’ISI (il servizio segreto pakistano). Era suo compito anche assicurarsi che le armi e le altre attrezzature militari fossero scaricate prima possibili.

   Con il procedere del conflitto i costi continuavano a lievitare lungo la pipeline che alimentava i mujaheddin, il denaro non bastava mai, e per questa ragione l’ISI e la CIA cominciarono a cercare altre fonti di finanziamento. Una che si dimostrò accessibile fu il contrabbando di droga. L’Afghanistan era un importante produttore di oppio, ma riforniva solo i piccoli mercati delle regioni circostanti; l’ISI si assunse dunque il compito di aumentare la produzione, di lavorare l’oppio e di contrabbandare l’eroina sui mercati occidentali. Ai mujaheddin che avanzavano e conquistavano nuove regioni, fu detto di imporre una tassa sull’oppio per finanziare la guerra. Per pagarla i contadini piantavano più papaveri, e i narcotrafficanti iraniani, che si erano trasferiti in Afghanistan dopo la presa del potere da parte degli islamici, concedevano a loro degli anticipi sul valore del raccolto, mettendo inoltre a disposizione le competenze necessarie per raffinare l’oppio in eroina. In meno di due anni la produzione di papavero conobbe una crescita considerevole, e in breve alla tradizionale economia agricola se ne sostituì una fondata sulla droga. Con l’aiuto dell’ISI, i mujaheddin aprirono centinaia di raffinerie per la produzione di eroina. Nello stesso periodo la zona di confine tra Pakistan e Afghanistan divenne il maggiore centro mondiale di produzione dell’eroina, che finì nelle strade americane, soddisfacendo il 60% della domanda di narcotici degli Stati Uniti. Si è calcolato che i profitti oscillassero fra i cento e i duecento miliardi di dollari all’anno.

   La strada preferita dai contrabbandieri passava dal Pakistan: l’ISI utilizzava l’esercito pakistano per trasportare la droga, mentre la Bcci forniva l’appoggio finanziario e logistico a tutta l’operazione. Gran parte dell’eroina era venduta e consumata nel Nord America. Nel 1991 la produzione annua nell’area tribale controllata dai mujaheddin aveva raggiunto la sorprendente cifra di 70 tonnellate di eroina di primissima qualità, con un aumento del 35% rispetto all’anno precedente.

   I principali finanziatori di questa jihad antirussa furono gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. Lo scopo principale da parte degli americani era quello di infliggere un colpo mortale all’Unione Sovietica. Già nel 1983, i russi si erano resi conto dell’errore commesso e stavano meditando di ritirarsi, e nel 1985, quando Gorbaciov salì al potere, il Politburo del PCUS era favorevole a uscire dal conflitto nel giro di un anno. L’amministrazione americana, invece, intensificò lo scontro, la CIA propose addirittura che l’ISI portasse la guerra oltre i confini dell’Afghanistan, fin nelle regioni dell’Asia centrale. In pratica, nel 1986 fu l’incremento degli aiuti americani che impedì ai russi di abbandonare l’Afghanistan.

   Nel frattempo, però, l’ufficio del Servizio doganale USA di Tampa (Florida) iniziò l’operazione C-Chase, un’investigazione segreta tesa a identificare i riciclatori del denaro derivante dalla droga: un agente doganale aprì il conto presso la filiale della Bcci di Tampa. Poco dopo tramite alcuni funzionari della banca, iniziò un’operazione di riciclaggio di denaro proveniente dai traffici di droga.

   Fu l’inizio della fine per la Bcci: un trafficante confessò agli inquirenti che lui e Noriega utilizzavano la Bcci per i propri traffici.

   Il 4 febbraio 1988 una giuria federale accusò Noriega di traffico di stupefacenti, di riciclaggio di denaro, di aver fornito assistenza ai maggiori trafficanti di droga, di aver versato milioni di dollari di tangenti. Durante il periodo dell’incriminazione, la Bcci aiutò Noriega a nascondere 23 milioni di dollari in conti bancari europei.

   La Bcci, quell’epoca, aveva 417 uffici in 73 paesi e 1.300.000 clienti, con un attivo totale di 20,6 miliardi di dollari. Era diventata la settima banca privata del mondo.

 Nell’agosto 1989, l’FBI fece un’incursione nella filiale di Atlanta della BNL italiana e “scoprì” che aveva prestato bilioni di dollari all’IRAQ. In seguito, si “scoprirono” i rapporti che erano intercorsi tra la BNL e la Bcci.

   Il 20 dicembre 1989 le truppe americane invasero Panama. Il 3 gennaio 1990 Noriega si arrese. Venne chiamato in giudizio il giorno dopo alla Corte federale di Miami. Il 5 febbraio successivo un giudice federale di Tampa accolse la dichiarazione di colpevolezza della Bcci e applicò una sanzione di circa 14 milioni di dollari.

  Nell’ottobre 1990, Abedi e Naqvi furono obbligati a dimettersi dalla banca. Il Dipartimento della “Giustizia” americano annunciò la messa in stato di accusa del precedente manager della filiale di Atalanta che fu accusato di frode in connessione con i prestiti della BNL all’Iraq.

   Il 5 luglio 1991, la Commissione d’inchiesta formata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Lussemburgo, isole Cayman, Spagna, Svizzera, e Francia sospese l’attività della Bcci. Nelle settimane successive seguirono nuove rivelazioni con notizie precise sui legami con i servizi segreti e sui collegamenti con il terrorismo.

   Negli anni 1991-92, il liquidatore della Bcci dichiarò la banca responsabile dei reati contestati dagli USA e convenne di confiscare tutti gli utili USA della banca, per un valore stimato in 550 milioni.

   Per comprendere l’incredibile sviluppo internazionale della banca è necessario tenere conto del fatto che, fin dalla metà degli anni ’70, grazie alla sovrabbondanza di petrolio si era sviluppata una produzione sfrenata nei paesi arabi produttori. Si creò così una triangolazione: le metropoli imperialiste cercano di trarre profitto dal riciclaggio dei petroldollari con la vendita di qualsiasi prodotto verso i paesi dipendenti, mentre i leader di questi paesi cercano di mantenere fondi nazionali/personali nei paesi imperialisti. Di conseguenza, la stessa necessità di assicurare un flusso di liquidi vero le metropoli imperialiste determinarono un’accelerazione dei finanziamenti.

  I governi dei paesi imperialisti, soprattutto quello di Washington incoraggiò le banche ad aiutare questo processo finanziario attraverso un pompaggio di denaro verso i paesi dipendenti, sotto forma di prestiti aggiuntivi che servivano ad assicurare una liquidità valutaria.

   In sostanza le banche dei paesi imperialisti avevano la funzione di salvare i fondi che gli stessi leader dei paesi dipendenti avevano sottratto ai loro paesi, per poi riprestarli nuovamente. In questa situazione, l’economia dei paesi dipendenti cominciò a mostrare il collasso. Con la crisi che cominciava a mostrare i suoi primi effetti, le banche dei paesi imperialisti soprattutto quelle degli Stati Uniti presero le distanze.

   Come si vede l’imperiamo non rende nemmeno i borghesi delle diverse nazioni uguali fra loro, ma confina quelli dei paesi periferici a una condizione di paria, cui è concesso pure di arricchirsi, o di mandarsi i propri figli in prestigiosi college internazionali, ma a condizione di aprire completamente le porte ai voleri e alle esigenze del grande capitale internazionale, a svendere completamente il proprio paese. In caso contrario sono destinati a subirne la distruzione, la rimozione mani militare dei loro governi.

RUOLO DEI POTERI OCCULTI IN ITALIA E NEGLI ALTRI PAESI IMPERIALISTI

  Come abbiamo visto i poteri occulti sono una realtà ingombrante e insidiosa. Solo per limitarsi all’Italia le inchieste della magistratura e del Parlamento si sono occupate delle attività illecite dei servizi segreti, delle trame terroristiche, della Loggia P2 e della mafia. Manca una visione d’insieme del fenomeno, dovuto in parte dalla ripugnanza di molti studiosi a occuparsi di un argomento sfuggente e altamente inquinato.

   Questa ripugnanza non è del tutto negativa, giustamente si vede la storia, quella con la S maiuscola, è fatta dai grandi movimenti con le varie ispirazioni ideali, religiosi e politici, si studia la loro natura di classe e non certo l’opera di una minoranza di cospiratori. La teoria della cospirazione ha origine nel pensiero controrivoluzionario dei tempi della Rivoluzione francese. Dalla presunta congiura di pochi philophes illuministi, alla trama massonica sottesa a tutti i grandi avvenimenti storici, sino all’invenzione della cospirazione ebraica per il dominio del mondo, divulgata dai Protocolli dei Savi Anziani di Sion, e fatta propria dal nazismo e dal fascismo. 

   Detto questo, non si può negare il ruolo che molti di questi che sono chiamati poteri occulti svolgono nelle società imperialiste. Prendere coscienza di questa realtà non significa modificare la propria concezione marxista della società e della storia, ma semplicemente tenere conto dei fatti, anche quelli più scomodi.

   È necessario innanzi tutto delimitare il campo della ricerca e definire i soggetti. Secondo Bobbio, la democrazia “è idealmente il governo del potere visibile, sotto il controllo della pubblica opinione”.

   Di conseguenza, secondo Bobbio (e del pensiero liberale borghese) il problema dei poteri occulti non si pone neppure, o si pone in termini radicalmente diversi, poiché solamente negli stati assoluti di ancién regime e nelle dittature, tutta l’attività di governo appartiene agli arcani imperi ed è coperta dal più geloso segreto.

   In realtà, tutta l’esperienza storica del Movimento Comunista testimonia la giustezza della tesi di Lenin, che la repubblica democratica è il miglior involucro politico possibile per il capitalismo, che gli apparati militari e burocratici si mantengono e si rafforzano a prescindere dei regimi politici, se il proletariato non riesce a spezzare la macchina dello Stato: “Questo potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale, con un altro esercito di impiegati di mezzo milione accanto a un altro esercito di mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia assoluta, al cadere del sistema feudale la cui caduta aiutò a rendere più rapida”.

   La prima Rivoluzione francese sviluppò la centralizzazione “e in pari tempo dovette sviluppare l’ampiezza, gli attributi e gli strumenti del potere governativo. Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo dello Stato”.

   “La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare, nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare questa macchina, invece di spezzarla

 “I partiti che successivamente lottarono per il potere considerano il possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino principale del vincitore”.

   Lo Stato borghese, anche quello formalmente più democratico riposa sulla separazione e sull’estraneità del potere delle masse. Nella società capitalista, la democrazia è sempre limitata dal ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico. La maggioranza della popolazione è esclusa dalla partecipazione alla vita politico-sociale. Tutti i meccanismi dello Stato borghese creano delle limitazioni che esclude le masse popolari dalla politica. Tutto ciò significa che se la socializzazione dei mezzi di produzione deve significare che la società emancipandosi dal dominio del capitale, diviene padrona di sé e pone le forze produttive sotto il proprio controllo cosciente e condotto secondo un piano, la forma politica nella quale può compiersi quest’emancipazione economica del lavoro, non potrà che essere incentrata sull’iniziativa e l’autogoverno dei proletari.

   Torniamo a tentare di definire i poteri occulti. Nonostante la visione liberale che afferma che la democrazia sia idealmente il governo del potere visibile, nella realtà l’esercizio concreto del potere comporta un’area opaca, ci sono momenti e funzioni coperti dal riserbo: segreti di ufficio, segreti militari. In una certa misura questa condizione vale anche per i partiti e le associazioni. Questo non significa che tutte le realtà politico e associative siano “poteri occulti” altrimenti questa definizione perderebbe ogni significato reale.

  I poteri occulti sono definiti da tre requisiti principali:

  • Il segreto, che copre tutto o in parte i membri, le azioni e talvolta gli stessi fini e addirittura l’esistenza dell’organizzazione.
  • Il perseguimento autonomo di fini propri di potere, diversi o contrari al potere ufficiale.
  • Il carattere chiaramente illegale dell’attività, e della stessa organizzazione occulta.

   Seguendo questi ragionamenti si può individuare i principali poteri occulti operanti in Italia:

  • I servizi segreti nazionali, poiché assumono il carattere di corpi separati, sottratti a ogni controllo politico reale e i servizi segreti stranieri che hanno agito sul territorio italiano con metodi illegali e spesso anche senza l’autorizzazione del governo italiano.
  • Le logge massoniche segrete, come la P2.
  • La grande criminalità organizzata come la Mafia.
  • Le organizzazioni terroristiche che hanno attuato la strategia della tensione (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale ecc.).

   Due aspetti è necessario rilevare subito:

  • La dimensione internazionale nella quale operano e sono organicamente inseriti.
  • Il complesso dei rapporti che li lega, pur conservando ciascuno la propria autonomia.

   In termini più generali si potrebbe osservare che i poteri occulti rappresentano in una certa misura il rovescio difficilmente eliminabile del regime democratico borghese. Quanto più le masse tentano di controllare la gestione del potere, tanto più aumenta la tentazione dei gruppi di potere di operare per vie traverse e coperte, per conseguire i propri fini, eludendo la volontà della maggioranza. Non è un caso che nell’analisi della Trilaterale sulla situazione della democrazia nei paesi imperialisti riteneva che ha partire dagli anni ’60 c’era stata un’offensiva egualitaria e democratica, dove lo Stato aveva ampliato le sue funzioni ma diminuito le sue capacità di scelta. Tutto ciò era dovuto al sovraccarico di domande economiche, politiche e sociali che lo Stato non poteva rispondere. Da qui l’obiettivo diventava il recupero della governabilità.

   Se si aggiunge in un paese come l’Italia, dove ci sono e hanno il sopravento, gli interessi particolari delle varie corporazioni (pensiamo a realtà come notai e avvocati, dove il mestiere si tramanda da padre e figlio) e il sistema politico è travagliato da una crisi morale e politica profonda, questi poteri occulti trovano terreno fertile.

   In Italia si costituì nel secondo dopoguerra un autentico Sistema Criminale che occupò il paese

   L’esistenza di un Sistema Criminale potrebbe apparire il frutto di persone malate di complottismo, ma un pentito di mafia caduto nel dimenticatoio Vincenzo Calcara, pur dandone un altro nominativo, ne rilevò l’esistenza. Nel suo memoriale rivela che denunciò a Borsellino dell’evidenza delle cinque entità che occupano e influenzano la vita politica ed economica italiana: “L’unica persona che io ricordi all’esistenza di queste cinque Entità è stato Buscetta. Al di fuori di lui, nessun altro pentito ha voluto parlarne. In realtà, queste Entità possono essere pensate anch’esse come idee, forti e apparentemente indistruttibili. Per fare un esempio, è chiaro che l’idea di un palazzo è più importante del palazzo stesso: il palazzo può crollare, ma la sua idea non ne rimane scalfita. Quando si parla di Cosa Nostra e delle altre Entità ad essa collegate, bisogna tenere ben presente questo fatto: quello che conta è la qualità di queste idee.

   Quella nobile grande idea di cui parlavo può essere allora definita come un’Idea Madre che racchiude al suo interno tutte le cinque Idee rappresentate dalla cinque Entità. Eccole:

  • Cosa Nostra.
  • ‘Ndrangheta.
  • Pezzi deviati delle istituzioni.
  • Pezzi deviati della Massoneria.
  • Pezzi deviati del Vaticano (un 10% direi)”.

   I poteri occulti non sono un residuo di un passato feudale, essi sono un fenomeno nuovo, specifico dell’età contemporanea che si sviluppa soprattutto con l’evoluzione delle forme di conflitto che si sono manifestate a partire dagli anni ‘50/’60 del XX secolo. Accanto alla guerra convenzionale, combattuta dagli eserciti regolari, si è, infatti, generalizzato il ricorso a forme di conflitto a bassa intensità militare (come il terrorismo) ma con grande efficacia politica, che sono in grado di evitare o limitare il rischio di una guerra aperta tra le potenze.

   In una fase la condizione di belligeranza endemica tra le potenze, causa il logoramento delle regole tradizionali della guerra e dei rapporti fra gli Stati. È questo il terreno privilegiato in cui si dispiega l’azione occulta dei servizi segreti, assunti a ruolo di protagonisti.

   In questo contesto, l’Italia zona d’importanza strategica decisiva nell’area mediterranea, ma anche con gli equilibri politici molto precari, si potrebbe definire il “ventre molle” della NATO, è particolarmente esposta a questo tipo di interventi, diventando uno dei principali campi di battaglia. Una guerra combattuta dai diversi servizi segreti, coinvolgendo altri poteri occulti, come la mafia. Precisiamo, qui non si tratta di immaginare una specie di cospirazione universale, o un’unica centrale che manovra come pezzi su una scacchiera tutti i poteri occulti. Ciascuno di questi pezzi ha una sua autonomia, persegue i propri fini, o almeno si sforza di farlo.

   Nei servizi segreti si possono distinguere tre funzioni fondamentali, alle quali corrispondono in genere tre diverse sezioni di lavoro:

  • Analisi delle notizie e studio delle situazioni.
  •  Raccolta e controllo delle informazioni per mezzo delle reti di spionaggio e controspionaggio.
  • Operazioni clandestine volte a interferire nella politica di altre nazioni (o anche del proprio paese).

 Le forme di quest’attività clandestina (Cover Action secondo la classificazione della CIA), sono molto differenziate, e possono andare dal semplice finanziamento di partiti politici, giornali e gruppi editoriali, alla manipolazione delle notizie, alla corruzione e ricatto di personalità politiche, sino alle cosiddette operazioni speciali. Queste costituiscono il tipo più brutale e diretto di interevento, come l’assassinio politico, l’organizzazione o l’uso strumentale di gruppi terroristi, l’impiego di formazioni paramilitari.

   È appunto sul terreno dell’azione clandestina e in particolare nelle operazioni speciali, che si determina la connessione tra servizi segreti, associazioni criminali e organizzazioni terroristiche. Di norma nessun servizio di una grande potenza imperialista, si lascerebbe coinvolgere direttamente con i propri agenti in questo genere di attività sporche, col rischio di farsi cogliere con le mani nel sacco. Nel caso che l’operazione sporca sia scoperta è infatti essenziale che il governo responsabile possa opporre una smentita plausibile ad ogni accusa o sospetto coinvolgimento in un’azione illegale.

   Ovviamente ci sono delle eccezioni, come nel caso di Abu Omar, l’egiziano che venne rapito a Milano il 17 febbraio 2003 in pieno giorno. Ma questo fatto nasce, come ha rivelato Luigi Malabarba (che quando era senatore fu membro del Copaco l’organismo di “controllo” parlamentare sui servizi segreti), dal fatto che la CIA e il suo Capocentro a Milano, Robert Seldom Lady alla questura di Milano erano di casa, e avevano fornito computer e strumentazione alla Digos nell’attività di collaborazione contro il cosiddetto “terrorismo islamista”.  Questa circostanza è confermata dalla CIA e dallo stesso giudice Dambruoso. Questa commistione fra servizi segreti americani e procuratori è affermata dal marocchino Daki. Daki, assolto due volte dal tribunale di Milano e in seguito espulso dall’Italia dal ministro Pisanu nel dicembre 2005, ha sostenuto che in quel periodo fu interrogato nell’ufficio di Dambruoso da americani che si dicevano del FBI, ma lui era convinto che fossero della CIA. Un interrogatorio illegale, dove gli interroganti erano incappucciati.

  Per le operazioni clandestine i servizi segreti, di norma ricorrono a persone e organizzazioni disposte ad agire, a volte inconsapevolmente, per conto di terzi. Secondo l’ex agente della CIA Victor Marchetti, la CIA impiega di preferenza agenti a contratto e mercenari. Ma per operazioni più impegnative e di ampio respiro gli strumenti preferiti sono la criminalità organizzata e i gruppi terroristi. Le agenzie delle grandi potenze imperialiste possono giovarsi di un’altra risorsa: l’impiego come proprio braccio secolare, dei servizi segreti dei paesi subalterni, i quali spesso e volentieri non agiscono direttamente.

   L’Italia è uno dei casi più emblematici di subappalto di lavori sporchi da parte dei servizi segreti della potenza dominante. Il direttore dei servizi segreti militari, da cui dipendeva la pianificazione Stay Behind (ovvero Gladio), da punto di vista istituzionale rispondeva al Presidente del Consiglio, oltre che al Ministro della “Difesa”, ma dal punto di vista effettivo, in quanto capo di Stay Behind era legato a una catena di comando esterna in ambito NATO che rispondeva ai capi dei vari servizi segreti americani. Egli aveva addirittura il potere di decidere se comunicare o meno l’esistenza della pianificazione al Presidente del Consiglio ed era colui che concedeva, di fronte agli alleati il nulla osta sicurezza allo stesso Presidente del Consiglio. Così il direttore del servizio segreto militare, che formalmente dipendeva dal Presidente del Consiglio, aveva il potere di bloccarne la nomina.

   Quando il SIFAR, in attuazione del piano Demagnetize, che aveva lo scopo di ridurre l’influenza “comunista” in Italia e in Francia con qualsiasi mezzo, per organizzare una rete paramilitare in grado di compiere le “azioni diversive” previste, ricorse a gruppi fascisti. Dall’altra parte della barricata i servizi bulgari e cecoslovacchi operavano in Italia e negli altri paesi dell’area mediterranea per conto del KGB. A quanto risulta i servizi bulgari utilizzarono elementi della mafia turca.

    A volte può essere sufficiente indirizzare verso l’obiettivo prescelto alcuni delinquenti, senza che si rendano conto dei reali fini politici della loro azione. È questo il caso del sequestro di Guido De Martino (5 aprile 1977) da parte di malavitosi napoletani; una scelta incomprensibile per un rapimento a scopo di estorsione, considerate le condizioni economiche della famiglia, che non era certamente multimiliardaria. Il rapimento guarda caso fu eseguito poco prima del congresso di Torino del PSI. La P2 e il SISMI tramite Carboni e Pazienza tenevano legami diretti con la camorra e le bande di Turatello, Bergamelli. De Martino, interrogato dalla commissione P2, ha più volte fatto capire che il rilascio di suo figlio ha avuto come contropartita la sua rinuncia a tornare ad assumere il ruolo dirigente nel PSI. Egli ha affermato infatti: “il rapimento di mio figlio ha avuto lo stesso significato politico dell’assassinio dell’onorevole Moro”.   Il significato di questa frase sta nel fatto che da allora De Martino, pur rimanendo deputato, ha rinunciato a rappresentare l’alternativa nel PSI a Bettino Craxi.

   Ma in genere le operazioni speciali richiedono rapporti più complessi e impegnativi con la criminalità e con le organizzazioni terroriste. In molti casi il metodo consiste nel reclutare o strumentalizzare singoli elementi, da impegnare nelle operazioni più sporche e rischiose, dopo averli sottoposti a lavaggi del cervello, condizionamenti del comportamento, che li trasformano assolutamente indecifrabili. Un esempio qui in Italia è dato dal cosiddetto “anarchico” Gianfranco Bertoli,

    Carlo Digilio, il primo e vero pentito dello stragismo italiano davanti al Giudice di Milano Antonio Lombardia che seguiva il procedimento inerente, la strage. Digilio dichiara: “Neami gli stava spiegando, con una specie di vero e proprio lavaggio del cervello, cosa avrebbe dovuto dire alla Polizia in caso di arresto e gli faceva ripetere le risposte che avrebbe dovuto dare e cioè che era un anarchico individualista e che si era procurato da solo, in Israele, la bomba per l’attentato.

Capii subito da Soffiati e Neami che Bertoli era un debole e mi dissero infatti che gli piaceva bere e lo avevano convinto anche con la promessa di un po’ di soldi.

Mi dissero che era che era già da parecchi giorni e che lo facevano bere e mangiare a sazietà.

Anch’io rimasi qualche giorno a dormire in Via Stella, su un vecchio divano, e in quei giorni, non in Via Stella, ma a Colgnola, vidi anche Minetto, il quale era al corrente di cosa si stava preparando e aveva personalmente procurato i soldi per Bertoli tramite gli americani.

Non si trattava comunque di una grande somma, ma di pochi milioni e infatti si capiva subito, con un’occhiata, che Bertoli poteva essere comprato per pochi soldi.

Neami dormiva con Bertoli, nella stanza da letto, per controllare i suoi eventuali colpi di testa, mentre io dormivo su un divano nel salotto e il divano era posto Neami dormiva con Bertoli, nella stanza da letto, per controllare vicino all’ingresso.

Ricordo che Bertoli fumava beveva era scostante non legò con Neami gli stava spiegando, con una specie di vero e proprio lavaggio del cervello, cosa avrebbe dovuto dire alla Polizia in caso di arresto e gli faceva ripetere le risposte che avrebbe dovuto dare e cioè che era un anarchico individualista e che si era procurato da solo, in Israele, la bomba per l’attentato.

Capii subito da Soffiati e Neami che Bertoli era un debole e mi dissero infatti che gli piaceva bere e lo avevano convinto anche con la promessa di un po’ di soldi.

Mi dissero che era che era già da parecchi giorni e che lo facevano bere e mangiare a sazietà.

Anch’io rimasi qualche giorno a dormire in Via Stella, su un vecchio divano, e in quei giorni, non in Via Stella, ma a Colgnola, vidi anche Minetto, il quale era al corrente di cosa si stava preparando e aveva personalmente procurato i soldi per Bertoli tramite gli americani.

Non si trattava comunque di una grande somma, ma di pochi milioni e infatti si capiva subito, con un’occhiata, che Bertoli poteva essere comprato per pochi soldi.

Neami dormiva con Bertoli, nella stanza da letto, per controllare me faceva discorsi strani, diceva che comunque fosse andata egli sarebbe diventato un grand’uomo”.

   Non so se ci si rende conto di quello che stava dicendo Digilio, egli parla della programmazione di un individuo per diventare un assassino e confessare un delitto.

   Negli USA, gli avvocati di Shirhan Sirhan, l’uomo che uccise R. Kennedy nel 1968, chiese che fosse rilasciato dalla prigione, sostenendo che era stato vittima del controllo mentale. Essi sostengono che nel processo contro il loro cliente che fu fatto nel 1969, furono ignoratele prove che vi fossero due tiratori presenti durante l’assassinio di R. Kennedy.  La squadra legale di Shirhan sostiene che “Anche se la programmazione/controllo mentale tramite ipnosi non è affatto nuova, il pubblico è ignorante riguardo il lato oscuro di questa pratica” perciò “La persona media non è a conoscenza che l’ipnosi può e viene usata per indurre una condotta anti sociale negli esseri umani”.  La CNN spiega che ho dettagli che gli avvocati diShirhan avevano di recente scoperto le registrazioni audio che dimostra che furono sparati ben 13 colpi al momento dell’attentato a R. Kennedy: “Gli avvocati sostengono inoltre che Sirhan venne ipno-programmato per fungere da diversivo al vero assassino, il fatto che sia arabo avrebbe poi facilitato anche la propensione di colpevolezza. Sirhan, 67 anni, è un palestinese cristiano nato a Gerusalemme che nel 1950 assieme alla famiglia emigrò negli States.

Sirhan ‘fu un partecipante involontario dei crimini commessi in quanto venne sottoposto a sofisticate programmazioni ipnotiche e tecniche per impiantare memorie che lo resero incapace di controllare coscientemente i suoi pensieri e azioni al momento in cui i crimini vennero commessi”.

   Daniel Brown esperto di ipno-programmazione all’Harvard Medical School ha recentemente lavorato con Shirhan, dicendo di averlo aiutato con successo a ricordare l’assassinio.  Brown afferma che Shirhan nel 1969, a causa del controllo mentale, pensava di trovarsi in un poligono di tiro.

   La Massoneria per la sua struttura settaria e per il carattere iniziatico costituisce il potere occulto per eccellenza, poiché presente in profondità nelle istituzioni e nella classe dirigente, e avendo solidi e ramificati rapporti istituzionali. Lo spiritualismo esoterico e l’ideologia elitaria e cospirativa, largamente circostanti al suo interno, insieme con la pratica segreta e iniziatica, formano un ambiente culturale omogeneo a quello del radicalismo di destra: uno sfondo nel quale massoneria e organizzazioni neonaziste e neofasciste s’incontrano spontaneamente, e che è il territorio naturale dei signori del potere occulto.

   E bene ricordare che la Massoneria ha conosciuto e attraversato esperienze complesse e contraddittorie. In contrasto, ma spesso in sincretismo con l’ispirazione illuminista, liberale, filantropica che la pubblicistica apologetica e quella ostile, per opposti motivi, hanno privilegiato, vive in essa un’anima aristocratica e reazionaria divenuta predominante. Da questa ebbe origine già nel Settecento la potente massoneria di rito scozzese, che faceva propria l’eredità di una certa tradizione torbida dell’esoterismo rinascimentale. Fondamento teorico del rito scozzese è, infatti, il mito di una dottrina occulta sovrumana, venuta dalla notte dei tempi, riscoperta dai templari nelle rovine del tempio di Gerusalemme, e tramandata segretamente da ordini cavallereschi e confraternite segrete (Templari e i Rosa-Croce). La massoneria scozzese involta in questa nebbia esoterica, divenne ricettacolo di tendenze irrazionalistiche e misticheggianti, di riti misterici e pratiche occultiste. D’altra parte, il moltiplicarsi degli alti gradi, secondo una complicata gerarchia articolata in numerosi gradi compartimentali, accentuava il carattere iniziatico della massoneria scozzese, trasformatasi in un temibile centro occulto, dominato da gruppi conservatori e reazionari e aperto agli intrighi di avventurieri e impostori di ogni risma.

   E in questa tradizione culturale e politica affonda le radici, l’anima esoterica, occultista e conservatrice che resta tuttora una componente essenziale del mondo massonico, e ne ispira alcuni dei gruppi di potere più esclusivi, segreti e potenti. Ed è impressionante costatare che questo guazzabuglio di dottrine esoteriche e miti aristocratici e cavallereschi, che appartengono alla tradizione massonica, costituisce il fondamento ideologico del filone estremo del radicalismo di destra: quello delle SS tedesche, del neonazismo europeo, di Julius Evola e dei suoi seguaci italiani di Ordine Nuovo, da Pino Rauti e Freda, da Paolo Signorelli a Mario Tuti.

   Questo è il contesto culturale e politico sotteso ai collegamenti politici e operativi tra un certo settore di Massoneria che si può benissimo definire nera (in particolare la Loggia P2) e le trame terroristiche e golpiste di destra. Non sorprende quindi di scoprire alcuni esponenti neofascisti tra i massoni. Dalla fine degli anni ’60 entrarono nella Massoneria, molti spiritualisti evoliani ed estremisti neri, tra i quali spiccano i nomi di Sandro Saccucci e di Loris Facchinetti, leader di Europa e Civiltà. Ed è significativo che esponenti dell’eversione nera affiliati alla Massoneria e giunti a controllare la casa editrice Atanor, specializzata in libri massonici ed esoterici, siano implicati nell’inchiesta della magistratura romana sul covo-arsenale di Via Prenestina e sulla società pubblicitaria Adp, copertura di una centrale di supporto di organizzazioni terroristiche nere come i NAR (ma anche a…Prima Linea).

  Né può essere una coincidenza che in tutte le trame golpiste (dal tentativo di colpo di Stato del 1970 organizzato da Junio Valerio Borghese, quello progettato per l’agosto 1974, alla Rosa dei Venti) si ritrovino in ruoli chiave diversi affiliati alla Massoneria. Nel caso del golpe Borghese, non solo il suo braccio destro, Remo Orlandini, ma anche il generale Duilio Fanali, Salvatore Drago e Sandro Saccucci sono Massoni, ma è pure documentata l’adesione di una loggia del ceppo di Piazza del Gesù, si pure ritirata all’ultimo momento con una lettera del suo rappresentante Gavino Matta, che tuttavia parteciperà personalmente all’impresa abortita.

  In questo contesto la Loggia P2 di Licio Gelli si configura con i suoi autentici caratteri di una sovrastruttura parallela e segreta di comando all’interno del mondo massonico, con fini di potere e di condizionamento politico, collegata con i servizi segreti e con altri gruppi di potere. Indubbiamente, una deviazione rispetto alla tradizione illuminista, liberale della Massoneria ufficiale, ma anche per converso interprete dell’anima reazionaria e oscurantista di essa. Non è un caso che un amico e apologeta di Licio Gelli, Pier Carpi (tra l’altro iscritto anche lui nella Loggia P2 dove era 3° grado), autore di un pamphlet in sua difesa, sia un cultore dell’esoterismo e un grande ammiratore di Réné Guenon (il pendant francese di Evola) autore di un libro sulle profezie di Giovanni XXIII, ove si dice che Angelo Roncalli avrebbe dettato per misteriosa ispirazione, congiunto in mistica catena con i fratelli della società segreta dei Rosa-Croce, alla quale sarebbe stato iniziato quando era nunzio in Turchia.  Un libro pubblicato dalle Edizioni Mediteranee, specializzate in esoterismo, occultismo e opere di Julius Evola.

  La logica dell’intreccio e collaborazione tra i diversi poteri occulti è assai complessa, contorta ed esoterica, e fondata in sostanza sul principio della reciproca utilità. La grande criminalità riceve dai servizi protezione e impunità, specie ai suoi più alti livelli colludenti con settori della classe politica e delle istituzioni, mentre il terrorismo rappresenta quanto meno un efficace diversivo, che impegna su un altro fronte le energie dello Stato. I servizi segreti trovano nella criminalità comune e nel terrorismo gli esecutori, spesso in parte inconsapevoli, delle operazioni clandestine, ma anche, partecipando a traffici illeciti come quello degli stupefacenti.

   Di esempi ce ne sono tanti, passando da Haiti, ove “i combattenti della libertà” erano finanziati attraverso il riciclaggio del narcotraffico, in Guatemala, in cui i vertici militari erano finanziati dai traffici di droga nel sud della Florida, e per la Jugoslavia, ove la Germania e poi gli USA diedero il loro contributo a organizzare.

Finanziandolo con il narcotraffico, un movimento di guerriglia con il fine di destabilizzare la Jugoslavia.

   Il ruolo centrale dei servizi segreti statunitensi nell’organizzazione del narcotraffico non è una deviazione istituzionale. Il ruolo degli enti statunitensi come la DEA era di impedire l’afflusso di droghe differenti da quelle approvate dalla CIA.  La cosiddetta “lotta alla droga” promossa dagli USA è stata in realtà una copertura di politiche volte alla protezione e alla funzionalizzazione del narcotraffico alla politica dell’imperialismo statunitense nei paesi oppressi e nelle metropoli imperialiste.

   Questo problema non riguarda ovviamente solamente gli USA. Fu la Francia a prima a utilizzare i proventi del traffico di oppio per finanziare le operazioni coperte contro i popoli dell’Asia. Sino al 1954, il Laos e il resto dell’Indocina erano una colonia francese. E l’oppio aveva anche un compito di pacificazione all’interno della vita coloniale. Sulla base della distribuzione dell’oppio, lo Stato francese annichiliva la popolazione vietnamita già stremata dalla mancanza di cibo e dal lavoro nelle piantagioni e nelle miniere.

   L’alleanza tra servizi segreti e organizzazioni criminali nasce dal fatto che sono alleati naturali. Essi, infatti, usano le stesse armi clandestine ed hanno lo stesso tipo d’immoralità. Un’operazione illegale come un assassinio, un colpo di stato chi le fa? Mica quelli che vanno in ufficio tutti i giorni, né quelli che vanno a scuola. Al limite li utilizza per qualche rissa. No, si utilizzano quelli che lo fanno come mestiere, e non hanno scrupoli.

   In ciascun paese, che non sia in preda a una guerra civile aperta e dichiarata, il campo dei poteri occulti e saldamenti tenuto da una realtà che si potrebbe definire un “governo invisibile”, vale dall’insieme dei servizi segreti e delle altre funzioni di potere, che dietro le quinte e collegati a essi, operano dall’interno delle istituzioni, in autonomia e talvolta in contrasto con esse.

BORGHESIA MAFIOSA, CRIMINE TERANSAZIONALE E CAPITALISMO

   Quando si parla di poteri occulti, soprattutto in un paese come l’Italia, non si può non parlare della Mafia e del suo ruolo non solo a livello criminale ma anche politico ed economico.

  Il termine di borghesia mafiosa è stato usato da tutta una serie di studiosi (il più famoso è senza dubbio Arlacchi) che erano preoccupati di un’eccessiva dilatazione dell’idea di mafia se non di una criminalizzazione della società siciliana, allarmati anche della riproposizione di schemi ideologici che erano considerati obsoleti.

   Essa fu contestata da altri studiosi (Pezzino e Centorrino) secondo cui se il concetto di aggregato mafioso si allarga a intere classi sociali, non resta che sperare in un cambiamento generale della società. Se invece ci si limita di considerare la mafia come Cosa Nostra, cioè una struttura armata, ci si limita individuare il polo più debole del patto fra Mafia e istituzioni e poteri economici che hanno consentito alla prima di affermarsi.

  La prima analisi imperniata sul concetto di borghesia mafiosa ha dei precedenti remoti. Il precedente storico è dato dalle riflessioni di Leopoldo Franchetti (1847-1917), un economista e senatore del regno che nel 1876 realizza insieme a Sonnino una celebre inchiesta sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia. Il volume che viene pubblicato al ritorno impone per la prima volta alla coscienza politica nazionale, l’esistenza della mafia che i viaggiatori hanno verificato dominare i rapporti sociali nelle campagne dell’isola, con un apporto al dibattito sulla Questione meridionale. Egli parlava di “facinorosi della classe media” che praticavano “l’industria della violenza” e sosteneva che tutti i capi della mafia erano “persone di condizione agiata” e che il capomafia, rispetto ai “facinorosi della classe infima” esecutori dei delitti, svolgeva “la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore”.

  Negli anni ’70 Mario Mineo del Circolo Lenin di Palermo (che aderì nello stesso anno al Manifesto e in seguito fu uno dei fondatori della rivista Praxis) parlava di borghesia capitalistico-mafiosa come strato dominante della società siciliana, diffusa in tutta l’isola, Sicilia orientale compresa, e proponeva con 12 anni di anticipo sulla legge antimafia l’esproprio della proprietà mafiosa. Questa tesi si scontrò con la disattenzione completa del Manifesto nazionale; non solo, ma suscitò le critiche dei militanti siciliani dello stesso gruppo, che consideravano la mafia, un residuo arcaico già emarginato se non seppellito dallo sviluppo capitalistico e per la Sicilia orientale parlavano di una borghesia imprenditoriale che niente aveva a che fare con la mafia (dopo si sarebbe visto di che pasta erano fatta i Cavalieri di Catania). Critiche radicali vennero da parte di Achille Occhetto, che era all’epoca segretario regionale del PCI, fortemente impegnato ad avviare il “patto autonomistico”, versione siciliana del compromesso storico, con i cosiddetti “ceti produttivi”, secondo cui il gruppo di Mineo vedeva dappertutto Mafia.

   Emanuele Maccaluso, storico dirigente del PCI siciliano (e della destra migliorista del PCI) riteneva che il concetto di borghesia mafiosa fosse “estremista” e rischiava di identificare la lotta contro la mafia con quella alla borghesia (e perciò dargli un senso anticapitalista cosa che ovviamente Maccaluso e il PCI certamente non voleva), mistificando il concetto affermando che questa cultura antiborghese metteva insieme la sinistra radicale antimafiosa e la DC che esercitava il potere usando la mafia. E aggiunge “La borghesia siciliana nel dopoguerra tentò, usando l’autonomia regionale e i poteri dello statuto, l’emancipazione, ma venne schiacciata, negli anni del boom capitalistico, dalla grande industria del Nord, dalla” nuova classe” democristiana e dal radicalismo di sinistra”. L’operazione di Maccaluso di mettere assieme sinistra radicale antimafiosa e DC collusa con la mafia, entrambi corresponsabili di aver sconfitto la borghesia siciliana non vuol dire altro che rinverdire l’atteggiamento dei dirigenti del PCI che criminalizzavano ogni tentativo di opposizione alla linea dominante.

   Andando nei giorni nostri, oltre ad Arlacchi l’espressione di borghesia mafiosa è stata rilanciata da qualche magistrato (in particolare da Pietro Grasso e da Roberto Scarpinato), che nel corso delle indagini ha rilevato la presenza di soggetti del mondo imprenditoriale e professionale legato ai mafiosi e ne ha tratta l’idea che c’è una borghesia che si può definire mafiosa, per la conseguenza dei legami e la condivisione d’interessi.

   Bisogna denotare due fenomeni che sono strettamente connessi alla borghesia mafiosa:

  • Il ruolo della violenza privata e dell’illegalità nei processi di accumulazione e di formazione dei rapporti di dominio e di subalternità.
  • Il sistema relazionale entro cui si muovono i gruppi criminali e senza di essi non potrebbero agire o comunque avere il ruolo che ha avuto e continuano avere.

   Quando si dice che la violenza e l’illegalità hanno avuto un ruolo decisivo nei processi di accumulazione e nei rapporti sociali bisogna fare riferimento a fasi storiche ben determinate: il passaggio da feudalesimo al capitalismo, l’affermazione del Modo di Produzione Capitalistico, la cosiddetta globalizzazione.

   Nello studio del processo di transizione dal feudalesimo al capitalismo bisogna vedere la Sicilia come una delle regioni tipiche che si è sviluppato il fenomeno mafioso come una periferia anomala dove si sono visti fenomeni paramafiosi: l’impunità di delinquenti garantiti perché legati a soggetti di potere; reati con funzione accumulativa (come le estorsioni e l’abigeato) che implicano un dominio territoriale. Nella fase di affermazione del capitalismo la violenza mafiosa ha un ruolo fondamentale nel controllo della forza lavoro, con la repressione sanguinosa del movimento contadino, con le stragi (Portella delle Ginestre) e i delitti politico-mafiosi.

   Nell’attuale fase economica, il crimine organizzato non è un intruso che ha un ruolo marginale ma un protagonista dei processi economici in atto, che utilizza le occasioni offerte da processi di emarginazione dei quattro quinti della popolazione mondiale e dai processi di finanziarizzazione.

   Questo cosa significa? Che tutte le attività illegali, come il traffico di droghe e quelle legali (imprese, appalti ecc.) attribuiti a capi mafia come Riina e Provenzano, che sono quasi analfabeti, non sarebbero possibili, neppure a livello di ideazione senza la collaborazione di altri soggetti del mondo delle professioni, dell’imprenditoria e delle istituzioni.

   Nel contesto politico italiano attuale caratterizzato dall’inserimento della cosiddetta mafia sommersa che ha rinunciato (apparentemente) ai delitti eclatanti, il modello di accumulazione, è caratterizzato dalla riduzione o dall’abolizione dei controlli. Di fronte a questo scenario ogni tipo di approccio formalistico – legalitario delle attività contro la mafia, è condannato a essere ininfluente. Se tutti si risolvesse nel rispetto delle leggi, a prescindere del loro contenuto, anche le leggi razziali di Hitler e di Mussolini dal punto di vista formale procedurale sono leggi a tutti gli effetti e anche le leggi ad personam di Berlusconi lo sono. Mentre sarebbero da escludere forme di lotta come l’occupazione delle terre attuate del movimento contadino.

   Vediamo adesso di accennare un inizio di un’analisi sul rapporto che esiste tra il crimine transazionale e capitalismo.

  La criminalità organizzata opera a livello mondiale, ma questo non significa che esiste una sola organizzazione che si sia imposta su tutto il pianeta.

   In un documento della Conferenza ministeriale mondiale delle Nazioni Unite che si svolse a Napoli nel novembre 1994, si dava una definizione sulla criminalità organizzata transazionale. Secondo questa definizione la criminalità organizzata è il risultato dell’associarsi di più persone allo scopo di intraprendere un’attività criminale su una base più o meno durevole. In genere esse si dedicano alla criminalità d’impresa, cioè alla fornitura di beni e servizi illeciti, o di beni leciti acquisti con mezzi illeciti, come il furto o la truffa. In sostanza l’attività della criminalità organizzata rappresenterebbe un’estensione del mercato lecito nei terreni normalmente proibiti.

   Le attività dei gruppi criminali per fornire beni e servizi illeciti richiedono un livello notevole di cooperazione e di organizzazione. Come ogni attività economica, quella criminale richiede competenze imprenditoriali una considerevole specializzazione e una capacità di coordinazione, con in più il ricorso alla violenza e alla corruzione per facilitare lo svolgimento delle attività.

   Quanto alle dimensioni delle organizzazioni criminali il documento registrava le diverse posizioni degli esperti: c’è chi concepiva la criminalità organizzata come un insieme di grandi organizzazioni gerarchiche, strutturate come le imprese tradizionali, e chi invece parla di strutture deboli, flessibili ed elastiche, configurando la criminalità come una rete di scambi sociali all’interno della collettività che come una struttura formale rigida.

   Il documento delle Nazioni Unite passando a considerare le organizzazioni criminali internazionali, usa il termine transazionale. Con questo termine si vuole indicare in genere il movimento di informazioni, di denaro, di beni, di persone attraverso le frontiere nazionali quando almeno uno degli attori non è governativo.

   Le organizzazioni criminali sono sempre implicate sempre di più in attività oltrefrontiera. La mondializzazione del commercio e della domanda dei consumatori di prodotti voluttuari fa sì che le organizzazioni criminali passino da un’attività nazionale a operazioni transazionali. Non tutte le organizzazioni criminali operano a questo livello, ma ci sono relazioni molto complesse tra il quadro locale e mondiale e la dimensione internazionale della criminalità ha assunto un’importanza senza precedenti. Le frontiere nazionali non hanno mai arrestato totalmente la fornitura di beni e servizi che non sono considerati leciti. Qui non si tratta del contrabbando che era effettuato per evitare di pagare le tasse e sfuggire alla dogana per i prodotti leciti, il traffico transazionale riguarda prodotti come gli stupefacenti, le armi, i rifiuti industriali, le persone umane e mira a occupare altri mercati e aggirare la repressione da parte degli Stati.

   Le organizzazioni criminali s’installano in regioni, dove corrono rischi minori e forniscono beni e servizi illeciti, dove i profitti sono più alti. Esse immettono i capitali ricavati dalle loro attività nel sistema finanziario mondiale, attraverso i paradisi fiscali e i centri bancari. Le organizzazioni criminali internazionali sono diventate soggetti di primo piano dell’attività economica mondiale e agenzie chiave delle industrie come la produzione e il traffico di droghe, diffuso a livello mondiale e i cui proventi superano il prodotto nazionale lordo di molti Stati.

  Le organizzazioni criminali internazionali hanno numerosi punti in comune con le multinazionali. In un certo modo si possono considerare come lo specchio delle multinazionali. Come queste hanno per obiettivo principale il profitto e cercano di aumentare al massimo la loro libertà di azione e ridurre al minimo i controlli.

   Quanto alle spiegazioni dell’escalation del crimine internazionale, il documento delle Nazioni Unite comincia con il dire che esso riflette la società contemporanea che è soggetta a continue e profonde trasformazioni. Ci si richiama all’interdipendenza crescente tra le nazioni alla facilità degli scambi e delle comunicazioni, la permeabilità delle frontiere, la mondializzazione delle reti finanziarie. La fine della cosiddetta guerra fredda ha facilitato l’introduzione nell’ex U.R.S.S. e negli altri paesi dell’Est, di un capitalismo senza regole. In questi paesi, la confusione, il declino delle strutture istituzionali e dell’autorità, il risorgere di conflitti etnici ha offerto nuove possibilità alle attività criminali che spesso servono a finanziarie il commercio di armi. La crescita dell’emigrazione favorisce l’espansione delle attività criminali.

   L’estensione del sistema finanziario mondiale consente alle organizzazioni criminali di trasferire i proventi delle loro attività rapidamente, facilmente e con una relativa impunità. Il riciclaggio dei capitali è solo uno degli aspetti di un problema più ampio: il sistema si evolve secondo le regole del Modo di Produzione Capitalistico e si evolve così rapidamente che le regole appena emanate sono già superate.

   La visione delle Nazioni Unite, che accoglie il visone imprenditoriale del crimine organizzato è riduttiva.

   La mafia siciliana, che costituisce ancora oggi l’esempio più famoso e noto di criminalità organizzata, è qualcosa di più complesso: l’aspetto economico è certamente rilevante e primario, ma esso s’inserisce in un insieme più vasto, ricco d’implicazioni politico-istituzionali, culturali ecc.

   La mafia non è solo un’impresa economica ma è anche un soggetto politico-istituzionale, essendo una sua caratteristica, la signoria sul territorio; il fenomeno mafioso è la simbiosi tra crimine, accumulazione, potere, codice-culturale e consenso. Esso forma un blocco sociale interclassista, rinsaldato da modelli comportamentali, la cui funzione dominante è svolta dalla borghesia mafiosa, formata da soggetti illegali (capimafia) e legali (politici, imprenditori, professionisti ecc.).

   L’estensione del modello mafioso a livello mondiale non significa che Cosa Nostra è una Spectre alla conquisa del pianeta. Significa che Cosa Nostra e le altre organizzazioni criminali storiche come le triadi cinesi e la yakusa giapponese, si sono sempre di più proiettate sul piano internazionali, senza abbandonare le loro radici, che si sono formati nuovi gruppi criminali, come i cartelli colombiani, la mafia russa e quella nigeriana, e che tutti questi gruppi presentano le linee fondamentali della mafia siciliana, cioè l’interazione crimine ricchezza-potere, assieme ad aspetti culturali specifici legati alla loro storia e al territorio in cui si sono formati.

   È bene precisare che fenomeni di tipo mafioso non si sono formate ovunque il Modo di Produzione Capitalistico si è affermato. La mafia siciliana nei suoi prodromi e nei suoi primi sviluppi è assimilabile alle forme di accumulazione primitiva ma non tutte le forme di accumulazione originaria hanno prodotto mafie.

   Il motivo che in alcuni Stati non sono state prodotte mafie è che c’era il monopolio della violenza da parte dello Stato a garantire l’accumulazione del capitale. In Sicilia l’oligopolio della violenza, fondato sul condominio di autorità centrale e signori locali, ha avuto una parte fondamentale nell’evoluzione in mafia di quelli che prima definivo fenomeni paramafiosi, identificabili nelle forme di delinquenza garantita, cioè di criminalità impunita e nei crimini con finalità economica: estorsioni, abigeati.

   Schematicamente si può dire che nei processi di transizione dal feudalesimo al capitalismo nascono organizzazioni di tipo mafioso in aree circoscritte (mafia in Sicilia occidentale, triadi in Cina, la yakusa in Giappone); che il capitalismo maturo ha sviluppato tali fenomeni in presenza di determinate condizioni (immigrazione, mercati neri originati dal proibizionismo), mentre nell’attuale fase si acuiscono le contraddizioni economiche con la presenza di fattori che comportano l’estensione dell’accumulazione illegale e il proliferare di gruppi di tipo mafioso

   Gli aspetti più criminogeni dell’attuale fase del capitalismo stanno nell’aggravarsi degli squilibri territoriali e dei divari sociali, risultato della congiunzione di politiche neoliberiste e degli aggiustamenti strutturali; la liberalizzazione della circolazione dei capitali e l’ulteriore finanziarizzazione e opacizzazione del sistema finanziario.

   La liberalizzazione della circolazione del capitale e la creazione di grandi mercati regionali (Unione Europea, NAFTA in Nord America, APEC per l’area del pacifico) favorisce la simbiosi tra capitale legale e quello illegale e l’impiego delle tecnologie elettroniche rendono sempre più difficile distinguere la natura dei capitali in trasferimento.

   Le misure antiriciclaggio, già adottate ameno formalmente o in programma, sono delle misure tampone inadeguate a fronteggiare la portata di tali fenomeni. Più esse rimangono sulla carta, o per la scarsa collaborazione delle banche e delle istituzioni finanziarie o per la natura delle convenzioni internazionali, che anche quando sono state firmate e ratificate stentano a trovare applicazione.

   Mentre l’economia capitalista valica tranquillamente le frontiere e impone tranquillamente il suo ruolo di marcia, il diritto penale internazionale su questi temi, anche limitato al quadro comunitario, trova ancora continui intoppi. E ciò si spiega con il fatto che le politiche di liberalizzazione della circolazione del capitale e di creazione dei grandi mercati regionali corrispondono agli interessi dei grandi gruppi finanziari-industriali, nel caso europeo in primo luogo di quelli tedeschi.

   Quando si parla di riciclaggio, l’attenzione va soprattutto ai cosiddetti paradisi fiscali, ma essi non sono isole sperse negli oceani, se non dal punto di vista geografico, ma stazioni di servizio del capitale. Non è un caso che molti di essi proliferano nelle vicinanze dell’Europa e degli Stati Uniti. Un esempio: il 30% delle 500 più importanti compagnie britanniche hanno società controllate nelle isole britanniche del Canale.

   I 500 miliardi di dollari annui cui ammonterebbe il giro d’affari del crimine, secondo le stime più caute, mentre altre stime danno cifre più elevate, sono il frutto di un’accumulazione che si espande sia nelle aree periferiche che in quelle centrali, che cavalca tutte le occasioni e le convenienze offerte tanto dell’aggravarsi del sottosviluppo che dalle contraddizioni sistemiche dello sviluppo capitalistico nell’attuale fase della sua mondializzazione. Lo sviluppo del crimine internazionale non rispecchia tanto il caos della giungla quanto il capitale nel suo complesso.

   Certamente la crescita dell’accumulazione illegale e il proliferare di gruppi criminali di tipo mafioso costituiscono una risposta alla crisi nelle zone dove le politiche che impongo le agenzie internazionali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) e le dinamiche del capitalismo mondializzato smantellano gli apparati produttivi esistenti e impongono l’azzeramento delle attività economiche statali e dello Stato sociale. Ciò avviene in interi continenti come l’America Latina e l’Africa, in buona parte dell’Asia come pure nei Sud presenti all’interno delle metropoli imperialiste.

   Mentre nelle aree di crisi l’attività illegale è l’unica forma di accumulazione in buona salute e offre redditi di sussistenza a chi non ne ha altri, il grosso dei capitali illegali fluisce nelle roccaforti del capitalismo e nel circuito finanziario internazionale mondiale per le maggiori convenienze offerte dall’investimento in attività legali e dagli sbocchi economici speculativi. Tali fenomeni sono una risposta alla crisi dell’accumulazione capitalistica nel suo complesso e l’incremento di capitale mafioso, assieme a quella del capitale speculativo, è insieme manifestazione di tale crisi e forma del capitalismo realmente esistente. In sostanza, l’economia illegale non è solo la stampella di un’accumulazione legale in crisi ma opera un’interazione tra legale e illegale dovuta alla fisiologia della crisi capitalistica, così come si manifesta in questa fase. Il mercato mondiale è una realtà pluridimensionale, ed economia legale, quella sommersa e quella illegale più che corpi estranei appaiono come scomparti in relazione funzionale tra di loro. Si può tranquillamente dire che il Modo di Produzione Capitalistico nell’attuale fase della sua mondializzazione, attiva tutte le forme di accumulazione e l’accumulazione illegale presenta insieme i caratteri dell’accumulazione originaria (o di via criminale al capitalismo) nei luoghi periferici e per i soggetti sociali “ultimi arrivati” e di accumulazione deregolata (via criminale del capitalismo) che sfrutta tutta le convenienze offerte dal capitale per le contraddizioni sistemiche che esso presenta.

   Per questo motivo una lotta alla mafia che non sia anticapitalistica e affidata solamente agli apparati dello Stato borghese è inconsistente. Per lo stesso motivo chi si crede dentro una prospettiva rivoluzionaria anticapitalista e non mette dentro la lotta alla mafia, non va da nessuna parte.

IL PENTAGONO ASSUME IL CONTROLLO DEL 5 G

•Maggio 17, 2023 • Lascia un commento

   Il Chief information officer (direttore informatico) del Dipartimento della “Difesa” degli Stati Uniti assumerà la supervisione diretta del dipartimento per il 5G, mentre i funzionari cercano di eliminare l’influenza cinese nel mercato delle comunicazioni[1].

   Il Pentagono anni fa ha lanciato progetti pilota 5G in cinque installazioni militari per un importo di 600 milioni di dollari e da allora ha raddoppiato la sperimentazione, commercializzata poi dalle compagnie telefoniche in ambito civile. La tecnologia wireless viene utilizzata per semplificare la logistica nei cosiddetti magazzini intelligenti, come alla base navale di Coronado, in California, e rendere il comando e il controllo più mobili e interattivi. Molti dei maggiori appaltatori della difesa del mondo stanno investendo nel 5G. Lockheed Martin sta collaborando con Verizon (dell’ex ministro della Repubblica italiana Vittorio Colao), Northrop Grumman con AT&T e General Dynamics Information Technology con T-Mobile.

   Tutto questo non dovrebbe meravigliarsi se pensiamo che in Ucraina, la guerra è anche elettromagnetica, nell’Era dell’immersione di radiofrequenze del 5G, il governo di Kiev punta al digitale mutuando la prima identità digitale sanitaria in identità digitale di guerra, così come ampiamente preannunciato dal Pentagono sull’infrastruttura militare di ultima generazione sostenuta dai finanziamenti civili (anche di Smartphone), dai territori di guerra avanza l’EW, ovvero la Guerra Elettromagnetica (Electromagnetic War). La denuncia arriva dalNew York Times[2], secondo cui i militari NATO e russi avrebbero ingaggiato un tipo di conflitto inusuale, avendo a disposizione armi sempre più complesse per trovare informazioni sensibili, interrompere le comunicazioni nemiche,deviare missili o combattere droni. Questa guerra elettronica èuna guerra in un mondo invisibile, quello della sfera elettromagnetica. I militari la chiamano ‘guerra elettronica’ o EW. Nelle ultime settimane in Ucraina sono state scoperte sul terreno diverse armi misteriose“, riportano le cronache dei giornali.


[1] https://oasisana.com/2023/05/16/il-pentagono-assume-il-controllo-del-5g-e-unarma-militare-manifestazione-al-parlamento-europeo/?fbclid=IwAR2CVwL2SdRguQ9k6HvYsWrCiJSRPP15IynJ3OUbruM3JkWX_PEWp5S0ixM

[2] https://oasisana.com/2022/03/30/ucraina-identita-digitale-di-guerra-criptovalute-a-militari-e-sfollati-niente-ai-de-digitalizzati-il-tecnoribelle/

A TEL AVIV HANNO REALIZZATO UNA RETE NEURALE

•Maggio 15, 2023 • Lascia un commento

   Nel 2021 è emersa la notizia di un interessante studio svolto dal a Tel Aviv dai ricercatori israeliani della Blavatnik Scholl of Computer Science e della School of Electrical Engineering ha permesso di realizzare una rete neurale in grado di generare diverse immagini di volti umani, ognuna delle quali utilizzabile per impersonare una quantità variabile di identità differenti. Si tratta delle cosiddette “master face” con le quali sarebbe possibile superare le procedure di riconoscimento biometrico necessarie per l’accesso ad account o aree riservate di utenti che presentano caratteristiche somatiche simili e ricorrenti[1].

   Se i risultati della ricerca dovessero essere confermati da ulteriori analisi, almeno in teoria potrebbero essere sufficienti appena 9 Master Face per effettuare il riconoscimento di più del 40% della popolazione mondiale. Un dei test effettuati a carico del Dataset fotografico LFW (Labelled Faces in the Wild) della University of Massachusetts con volti sintetizzati tramite StyleGAN, Generative Adversarial Network basata su un’implementazione di TensorFlow, avrebbe restituito circa il 20% di risultati positivi su un archivio composto da circa 13 mila immagini.

   Un uso pratico, e malevolo, di questa rete neurale potrebbe essere incentrato sui cosiddetti dictionary attack[2]. Quando parliamo di password questi ultimi si manifestano tramite tentativi ripetuti di sottoporre delle stringhe ad un sistema di autenticazione che proseguono fino a quando non viene rilevata una corrispondenza tra parametro di input e credenziale, lo stesso metodo di attacco potrebbe essere utilizzato in operazioni basate sulla facial recognition inviando immagini in sostituzione delle stringhe.

   Israele svolge la funzione di laboratorio, dove si sperimentano soluzioni politiche e militari estreme, inoltre svolge quello sporco lavoro che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali preferiscono delegare.

   Ha pure il compito di sperimentare nuove armi su palestinesi e libanesi, senza che l’indignazione e il discredito ricada direttamente su chi queste armi le producono, soprattutto gli Stati Uniti, ma anche Francia, Inghilterra e Italia.

   Tra il 2006 e il 2009 le forze armate israeliane hanno utilizzato armi sperimentali nelle operazioni militari all’interno della Striscia di Gaza.

   L’ha rivelato una ricerca condotta dall’Università Sapienza di Roma, dall’Università Chalmer in Svezia e dall’ateneo di Beirut e coordinata dal New Weapons Research Group (Nwrg). Le lesioni prese in considerazione dagli esperti sono state quelle che hanno causato carbonizzazione, bruciature superficiali, bruciature al fosforo bianco e amputazioni. L’analisi delle ferite ha riportato una presenza elevata di numerosi elementi chimici di molto superiore a quella dei tessuti non danneggiati. In tutti i tipi di ferite presi in considerazione, è stata trovata traccia di piombo e uranio e di altri elementi in grado di causare: patologie croniche dell’apparato respiratorio, renale e riproduttivo e della pelle e mutazioni genetiche negli animali, nell’uomo e nei feti[3]. Alcuni esempi del tipo di armi usate: “Gerusalemme – Una jeep si dirige verso la folla dei manifestanti inferociti, teatro dell’ennesima protesta antisionista organizzata da militanti per la causa palestinese.   Si ferma a mezzo chilometro di stanza: esce un soldato con l’uniforme israeliana, armato di una scatoletta bianca apparentemente innocua. Pochi attimi ed un suono assordante squarcia l’aria: la folla riottosa, in preda al panico, si tappa le orecchie e si contorce dal dolore. È l’ultima arma segreta in dotazione da tempo all’esercito israeliano, utilizzata pubblicamente dopo molti anni di sperimentazioni. Il” canone sonico” appositamente pensato per disperdere grandi gruppi di persone, battezzato Screamer, è un dispositivo non letale in grado di emettere fastidiosissime frequenze ad altissimo volume. Senza colpo ferire, questa arma può provocare convulsioni, nausea e terribili cefalee anche a centinaia di metri di distanza. Fonti non ufficiali parlano dell’esistenza di una versione ancora più potente di questo insolito cannone, capace di far vibrare gli organi del bersaglio fino a provocare emorragie. Secondo un quotidiano di Gerusalemme, l’uso dello Screamer è avvenimento senza precedenti che rappresenta un significativo cambio di paradigma nelle tattiche di guerriglia urbana. Nonostante molti stati in tutto il mondo posseggono armi simili, nessun esercito ne aveva mai azzardato l’uso di un numero esercito ne aveva mai azzardato l’uso su un numero così elevato di soggetti. L’esperimento di Bil’in, dicono le autorità, ha acuto “esito positivo”: non ci sono stati feriti gravi[4].    Nel maggio 2006, il canale televisivo italiano Ray News 24 ha trasmesso un’inchiesta fatta da giornalisti in Iraq riguardante l’uso di un nuovo tipo di arma sperimentale[5]. Questa ultima consiste di raggi di onde elettromagnetica corte simili alle onde prodotte dai dispositivi a microonde utilizzati per uso domestico.

   Questo tipo di raggi è diretto su obiettivi umani. Quando la persona colpita, i nervi sotto la pelle ne sono coinvolti, portando alla paralisi del sistema nervoso. Inoltre, le microonde alzano la temperatura corporea attraverso il riscaldamento dell’acqua nelle cellule. Questo tipo di arma causa lo smembramento delle parti corporee colpite e ciò che somiglia a bruciature su diverse parti del corpo, mentre i medici non riescono a trovare alcuna parte solida della bomba. Bret Wagner, il direttore del Research Institute California, ha definito quest’arma il raggio della morte. Wagner indica che: “Quest’arma lavora alla velocità della luce ed è capace di colpire obiettivi da una grande distanza, esponendo gli esseri viventi a microonde che alla loro esplosione”. Ciò spiegherebbe i grandi danni che i medici hanno osservato esaminando i cadaveri. Inoltre, l’inchiesta televisiva sull’Iraq parla di riduzione della massa corporea dei cadaveri risultante dall’uso di quest’arma. Wagner attribuisce all’esposizione ai raggi elettromagnetici anche la fusione e l’aspetto distorto di macchine e autobus presenti sulla scena della battaglia. L’ex segretario alla difesa Donald Rumsfeld ha confermato che gli USA hanno sviluppato questo tipo di armi. Le “bombe svuotanti” svuotano i corpi dall’aria, fermando il respiro della persona portando a un immediato attacco cardiaco[6].


[1] Riconoscimento biometrico, master face e dictionary attack | HTML.it

[2] Un attacco a dizionario, nella crittanalisi e nella sicurezza informatica, è una tecnica di attacco informatico mirata a “rompere” un meccanismo di autenticazione provando a decifrare un codice cifrato o a determinare la passphrase cercando tra un gran numero di possibilità. Attacco a dizionario – Wikipedia

[3] http://www.rinascita.eu/index.php/index.php?action=news&id=2097

[4] http://punto-informatico.it/1236609/PI/News/israele-armi-soniche-sui-manifestanti.aspx

[5] http://www.youtube.com/watch?v=GAF3w7X_Iz0

[6] http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php

I PERCORSI DEL CAPITALE PER USCIRE DALLA CRISI

•Maggio 14, 2023 • Lascia un commento

   Stiamo transitando velocemente verso una società del controllo. Una società in cui chi detiene il potere possa controllare ogni assetto della vita di tutti i cittadini al fine di imporgli comportamenti conformi a quanto da esso deciso.

   Il progetto si articola attraverso il ricorso a emergenze continue: una prima pandemia, cui altre sicuramente seguiranno, l’emergenza bellica per difendersi “dall’aggressivo e disumano mostro russo” e liberare il mondo dalla minaccia della “dittatura comunista” che s’irradia dalla Cina, l’emergenza climatica causata dall’anidride carbonica di origine antropica, l’emergenza idrica per la siccità indotta dai cambiamenti climatici, l’emergenza della crisi finanziaria ed economica, e così via. Le singole emergenze e la loro combinazione servono per tentare di disciplinare i comportamenti individuali e sociali contrabbandando il disciplinamento come necessario per il “bene comune”. E sono utilizzate anche per imporre nuovi prodotti di consumo, come le terapie geniche, e nuovi prodotti che cambiano le relazioni sociali, come le tecnologie della comunicazione, la digitalizzazione, la moneta digitale.

   Ognuna di queste emergenze è creata in modo artificiale.

   La pandemia Covid è ormai quasi-ufficiale che sia stata originata da un virus prodotto artificialmente in laboratori gestiti o diretti dal governo USA, ed è stata comunque gonfiata da statistiche taroccate, divieti di cure e autopsie, allarmismo mediatico e una feroce repressione del dissenso. Tutto per un primo esperimento in grande stile di disciplinamento sociale e per imporre un primo test di massa di nuove terapie geniche.

   L’emergenza bellica è stata preparata da una serie di provocazioni alla Russia, costretta a intervenire per bloccare il rischio di genocidio del Donbass e contrastare l’accerchiamento politico-militare sempre più minaccioso della Nato. La paura del pericolo cinese è coltivata da decenni, da quando le multinazionali occidentali iniziarono a trasferire le produzioni in Cina per incrementare i loro profitti sfruttando la sua manodopera a basso costo, mentre qui la colpa veniva dirottata contro la concorrenza sleale della Cina. Entrambe servono a implementare un’economia di guerra, con relativo disciplinamento di produzione, consumi e comportamenti sociali in previsione di una guerra, prima o poi, guerreggiata in prima persona dall’Occidente imperialista, appena esaurito l’ultimo ucraino o l’ultimo taiwanese.

   L’emergenza climatica viene utilizzata per modificare le abitudini di consumo e di vita e per diffondere nuove tecnologie ancora più distruttive per l’ambiente e la vita umana.

   Le crisi economica e finanziaria sono usate per perseguire soluzioni ai danni dei soliti noti, lavoratori e ceti sociali inferiori dell’Occidente e di tutti i paesi non-occidentali.

   Ci sono emergenze più subdole, che partecipano agli stessi scopi. L’emergenza del razzismo viene, per esempio, utilizzata la cancel culture, ossia una rimozione della storia, cultura e linguaggio di tutti i termini e concetti che avrebbero fomentato il razzismo, il cui scopo è indurre a pensare nel modo deciso dai padroni del discorso, anche qui, per il “bene di tutti”. L’emergenza dei diritti all’identità di genere, oltre partecipare alla cancel culture, è straordinariamente efficace per accelerare la diffusione della procreazione assistita, e, dietro di essa, l’ingegnerizzazione della procreazione, da strappare alle donne e consegnare alla tecnologia (fino all’utero artificiale) e alle sue promesse eugenetiche.

   Assieme a questo nugolo di emergenze viene diffusa anche la suadente prospettiva di un potenziamento dell’uomo attraverso l’applicazione della scienza genetica e la relazione con macchine dotate di intelligenza artificiale (IA), per realizzare il superamento dei limiti umani attraverso il transumanesimo.

   Ora, se si hanno occhi per vedere e orecchie per sentire, ci si accorgerebbe di come tutto ciò sia artificiale, ossia sapientemente costruito e diligentemente perseguito, sfruttando, da un lato, le paure adeguatamente gonfiate, e, dall’altro il desiderio di uscire da situazioni di vita sempre più penose, immaginando utopici potenziamenti delle proprie capacità e mettendo la propria vita nelle mani di chi sembra possedere il segreto del successo.

   È d’obbligo, a questo punto, la domanda: chi è l’artefice di tutto questo e quali scopi può avere?

   Le risposte che circolano a tale domanda sono per lo più tese a individuare cupole occulte che tramano dietro le quinte (logge massoniche, lobby ebraiche ecc.).

   Per chi comprende l’urgenza dell’opposizione a questo disegno è indispensabile domandarsi, se questa risposta sia appropriata, se siamo cioè veramente dinanzi all’azione concertata di una qualche cupola per attuare il proprio desiderio di potere e di ricchezza.

   A tale proposito è utile concentrare l’attenzione su uno degli scopi ufficialmente dichiarati: la quarta rivoluzione industriale.

   Di cosa si tratta? La prima rivoluzione industriale fu quella della macchina a vapore. Questa sostituì l’energia prodotto dall’uomo, animali, vento e acqua (mulini), con l’energia meccanica prodotta da macchine funzionanti con combustibili dapprima vegetali (legno) poi fossili (carbone). Con essa fu possibile introdurre nella produzione i primi macchinari che infrangevano i limiti della produttività del lavoro umano: nello stesso tempo di lavoro aumentava, infatti, la quantità di prodotto. Ciò favorì la diffusione del capitalismo, ossia di grandi complessi manifatturieri costruiti e diretti da possessori di capitali che mettevano a lavoro grandi masse di lavoratori retribuiti a tempo, col salario.

   La seconda rivoluzione industriale fu dovuta alla scoperta dell’energia elettrica, anch’essa prodotta per lo più da fonti fossili (carbone e petrolio). L’elettrificazione consentì lo sviluppo di nuovi macchinari industriali. Questi favorirono anche lo sviluppo della frammentazione del processo lavorativo in mansioni sempre più semplici. Le macchine elettrificate e l’applicazione della chimica e della meccanica (taylorismo) al processo produttivo incrementarono potentemente e ulteriormente la produttività del lavoro: la quantità di prodotto nello stesso tempo di lavoro si moltiplicava.

   Per terza rivoluzione industriale si deve intendere l’applicazione al processo produttivo dell’informatica. Anche questa ha aumentato ulteriormente la produttività del lavoro.    In realtà si discute se l’incremento sia stato davvero notevole o siano stati soltanto i profitti delle aziende informatiche a scapito altrui.

   Ognuna di queste rivoluzioni ha, quindi, perseguito l’incremento della produttività del lavoro. E non ha rivoluzionato solo il processo produttivo, ma anche tutto il resto delle relazioni economiche, anche negli ambiti diversi dalla produzione, di quelli sociali (aumento dei consumi, della mobilità ecc.), nonché, a cascata di quelli politici, amministrativi, culturali, familiari ecc.

   Dalla prima alla terza rivoluzione sono facilmente individuabili due processi specifici.

   Il primo relativo alla potenza del capitale: più si accresce la produttività del lavoro, più crescono i profitti, più esso assume potere sui lavoratori e sull’insieme dei rapporti sociali, che finiscono sempre più per dipendere da esso e sono, perciò, indotti a conformarsi sempre più alle sue necessità (si pensi, per esempio, come la stessa vita umana sia ormai valutata sulla base del valore economico prodotto e realizzato, fino alla mostruosa – questa sì – monetizzazione della propria immagine e opinione, come per gli influencer).

   Il secondo relativo al rapporto tra uomo e macchine: più si accresce il ruolo delle macchine nella produzione, più il lavoro umano si trasforma in un’appendice del sistema delle macchine. Anche questo non si è limitato alla sola sfera della produzione, ma ha invaso la vita stessa, come, per esempio, con la dipendenza compulsiva dalla comunicazione virtuale attraverso le macchine (computer, smartphone, ecc.).

   La quarta rivoluzione industriale si pone in linea perfetta continuità con le precedenti. Essa si prefigge di incrementare la produttività del lavoro umano, unica fonte di valore che si trasforma in profitto, e lo fa, da un lato, perfezionando il sistema delle macchine, messe in grado di dialogare tra loro (internet delle cose), essere comandate a distanza in tempo reale, sviluppare in proprio modifiche, adattamenti, correzioni, ecc. del processo lavorativo tramite l’Intelligenza Artificiale (IA), e, dall’altro, rendendo l’uomo un’ancora più perfetta appendice delle macchine, con una sua diretta integrazione nel loro sistema, tramite anche l’inserimento di apparecchi sul proprio corpo.

   Come le precedenti rivoluzioni anche la quarta non si limita alla sfera della produzione, o più in generale alla sfera di attività che producono valore, e quindi profitti, ma è destinata a estendersi, in modo da ottimizzarne l’impiego a vantaggio della parte che si trasforma in profitto.

   Come le precedenti anche la quarta si prefigge di estendere ancora di più il dominio del capitale su ogni attività umana, di sottometterle, cioè, ogni attività alla logica del valore, e, quindi, del profitto.

   Si pensi, per esempio, alla procreazione che da atto riproduttivo naturale si vuole trasformare in atto industriale, con l’impiego della scienza e della tecnologia, usando il corpo delle donne come macchina, o facendo procreare direttamente le macchine, trasformando in ogni caso, la generazione di nuovi uomini in atto produttivo di valore per i capitali impiegati. O si pensi alla sanità che si vuole trasformare in prevenzione con l’uso massicci di vaccini prodotti da piattaforme geniche, per ridurre i costi dei sistemi sanitari gonfiando, allo stesso tempo, i profitti del settore farmaceutico. Nella sanità, inoltre, si estenderà la tele-medicina, che consiste nel trasferire nelle macchine la conoscenza medica, con risparmi nei costi di strutture e personale e lauti profitti per i gestori di sistemi di IA.

   Di esempi se ne potrebbero fare molti altri. Un campo molto importante è l’agricoltura. Anch’essa ha subito profonde trasformazioni a ogni rivoluzione, finalizzate a incrementare la produttività della terra e del lavoro, ma anche a trasferire quote di profitto dalla produzione agricola a quella industriale. Con la quarta rivoluzione è messa in cantiere una vera e propria sostituzione dell’agricoltura o almeno di una sua parte rilevante, con la produzione di cibi sintetici tramite la manipolazione genetica e la coltura chimica e biologica.

   Ogni rivoluzione industriale ha suscitato resistenze sociali e politiche, ma è riuscita, in ultima istanza a imporsi e generalizzarsi. Questo è stato dovuto a due motivi principali:

  1. La forza crescente del Capitale che ha assunto nel tempo il ruolo decisivo per la riproduzione della vita di ciascuno: per procurarsi, infatti, i mezzi per sopravvivere è chi detiene le condizioni di produzione, servizi, amministrazione, ecc. Anche coloro che non vendono il proprio lavoro in cambio di salario, ma esercitano attività in proprio, con piccoli capitali, non hanno alcuna autonomia dai possessori di grandi capitali: infatti, le piccole attività possono sviluppare i loro affari se il circuito generale degli affari funziona, e questo dipende dal grande capitale. Inoltre, tramite la finanza e la diffusione delle tecnologie informatiche, il grande capitale non solo sta assumendo un sempre maggior controllo del piccolo, ma lo sta trasformando in un suo tributario, espropriandogli una parte crescente dei profitti che produce;
  2. Ogni rivoluzione si è realizzata anche come risultato di esigenze che emergevano dal basso. Sia perché ogni innovazione scientifica e tecnologica non è mai prodotta dall’attività isolata di qualche genio, ma è sempre il frutto della combinazione di esperienza lavorativa, osservazione e studio. Sia perché ogni rivoluzione industriale ha prodotto effetti positivi anche per chi la subiva. L’impiego di nuove fonti di energia e delle macchine ha, senza dubbio, ridotto l’apporto della fatica fisica (che, tuttavia, non è certamente scomparsa in molti settori e nella maggioranza di mondo che vive in condizioni di “sottosviluppo”[1], permesso anche di ridurre l’orario di lavoro (che all’inizio dell’epoca industriale era di 12-14 ore)[2], mentre l’incremento della produttività abbassava il costo dei prodotti facilitando l’aumento dei consumi anche per le classi inferiori. Anche questi benefici non hanno riguardato solo i lavoratori e dele relazioni sociali, generando, inoltre, una sostenuta crescita demografica.

   La quarta rivoluzione industriale è, quindi, un ulteriore passaggio lungo un percorso iniziato con l’affermazione del modo di produzione capitalistico rispetto ai modi di produzione precedenti, sostituzione avvenuta, in Europa e negli USA, a partire dalla seconda metà del XIX secolo e accelerata all’inizio del XX secolo. Non di meno essa contiene delle differenze importanti rispetto a quelle che l’hanno preceduta.

   Innanzitutto, la sua esigenza è caratterizzata da una parossistica urgenza. L’intero sistema si trova, dalla metà degli anni Settanta in una crisi generale che si è manifestata con particolare forza nel 2007-2008, che nonostante i tentativi di contrastarla, continua a incrementare le sue minacce di esplosione. Per lo più, tanto, nel cosiddetto mainstream quanto negli ambienti cosiddetti “alternativi”, essa viene imputata alla finanza, ai suoi eccessi alla sua de-regulantion, alla sua rapacità ecc. Questa visione presuppone l’esistenza di un capitale finanziario, speculatore e usuraio, e un capitale industriale che per natura sarebbe più “sano”. Altri ricorrono a una definizione diversa dello stesso contenuto, tra un’economia di carta e un’economia reale. Entrambe distorcono la realtà dei fatti in quanto la differenza del capitale finanziario e industriale, nella concretezza dell’economia capitalista non esiste o meglio non c’è, per il fatto che tra capitale finanziario e capitale industriale non esiste una muraglia. Ormai tutto il capitale industriale è anche capitale finanziario, tutte le aziende grandi, che dominano il mercato e ne condizionano l’andamento, la gran parte delle medie, nonché molte delle piccole, sono, infatti, possedute da capitali espressi in azioni, che sono, appunto, titoli finanziari di ripartizione delle quote proprietarie, ma anche titoli finanziari che alimentano il circuito, o – se si vuole – il circo della finanza. Inoltre, tutte le aziende, anche quelle che non sono per azioni, ricorrono, per finanziarie le attività, a crediti bancari e obbligazioni, a loro volta titoli finanziari che navigano nel mare magnum della compra-vendita speculativa del circo finanziario.

   Spiegare la crisi come effetto dell’impazzimento finanziario è anch’esso deviante e consolante, in quanto alimenta la speranza che separando l’economia reale da quella cartacea si possa preservare la prima dagli effetti perversi della seconda. Una prospettiva illusoria fatta balenare da illusionisti noti (uno a caso, Tremonti), ma a cui aggrappano molti dei, sicuramente più sinceri, esponenti della galassia “alternativa”. In quest’ultima l’illusione prende anche forme apparentemente più originali (come il far tornare la finanza al servizio dell’economia reale, o la Modern Money Theory, che argomenta l’irrogazione di denaro da parte della Stato senza ricorso al debito pubblico), ma viziate dalla stessa incomprensione della natura della crisi.

   Questa, infatti, è dovuta non alla mancanza di capitali, ma a un loro eccesso. I capitali accumulati in decenni di cicli economici, sono divenuti ormai una massa enorme, consolidatasi nella sua stragrande maggioranza, nella parte del mondo (alcuni paesi europei, USA, Giappone, Australia) che per prima e da più tempo ha sviluppato il capitalismo, e ha creato le grandi multinazionali e gli Stati potenti in grado di sottomettere l’economia mondiale alle proprie esigenze. Questi capitali per loro natura sono costretti a esigere una continua rivalutazione, ossia a crescere sempre di più, cioè ad appropriarsi di nuovi profitti. La speculazione finanziaria può dare l’impressione in alcuni momenti, che i profitti possano sgorgare dal suo seno, ossia che il denaro crei denaro. Ma, puntualmente e ciclicamente si presenta il rendiconto: l’unica fonte di valore che può incrementare il capitale è il lavoro umano. Perciò più la crisi dell’accumulazione si manifesta, più diviene urgente incrementare la produzione di profitti reali. La quarta rivoluzione industriale è esattamente un tentativo di innalzare potentemente la produttività del lavoro in ogni ambito della società.

   Ci si potrebbe chiedere: considerando che gran parte del mondo vive ancora in condizioni di “sottosviluppo”, perché non investire i capitali in eccesso dove c’è ancora un grande spazio per lo sviluppo industriale, agricolo e così via? Per il semplice motivo che questa parte del mondo deve essere continuamente mantenuta nel sottosviluppo, perché solo così si possono depredarne a basso costo le risorse naturali e produttive, oltre a sottometterla alla rapina dei prestiti esteri, che producono tramite il pagamento del servizio del debito, un prelievo sulla ricchezza ivi prodotta e uno strumento di assoggettamento economico e politico. Alcuni ritengono che la Cina costituisca un’eccezione a questa regola, ma si sbagliano. La Cina è un paese ancora povero, costretto a produrre una grande quantità di merci per le grandi multinazionali occidentali, che pagano ai cinesi prezzi irrisori, mentre incassano sul mercato prezzi ben più elevati. Quando ha provato a elevare il proprio livello produttivo, dotandosi in proprio di mezzi produttivi più moderni, la Cina è stata immediatamente stroncata, dal duo Trump-Biden, che hanno vietato la vendita alla Cina dei microchip più moderni e delle macchine per produrli, consapevoli che per quanti capitali e lavoro la Cina possa investire nella rincorsa per produrli in proprio, le sue condizioni di storica arretratezza sul piano tecnologico non le consentiranno mai di raggiungere lo stesso occidente.

   Questa considerazione delinea anche il secondo percorso per cercare di uscire dalla crisi: incrementare l’estrazione di valore in tutti i paesi “sottosviluppati”. Il caso della Russia è emblematico. L’aggressione contro di essa (iniziata già negli anni Novanta) non si fa scrupolo di ammettere il proprio disegno: distruggere lo Stato unitario, frammentarlo in 6-7 unità in conflitto fra di loro, per poterne depredare a prezzi stracciati le immense risorse naturali (in particolare quelle minerarie). D’altronde non si tratta di una politica nuova. È stata ampliamente usata contro diversi paesi che avevano cercato di sottrarsi allo sfruttamento indiscriminato delle proprie risorse (solo negli ultimi tre decenni sono stati aggrediti e distrutti: Iraq, Jugoslavia, Libia, Siria, e sono sotto pressante minaccia: Venezuela, Cuba, Iran, Bolivia, Nicaragua, ecc.), la Russia, ha certo, un potenziale demografico, economico, militare, superiore alle precedenti vittime. Più ostico sottometterla, e per questo si programma una guerra infinita contro di essa, per logorarla in tutti gli aspetti (anche per l’Iraq furono necessari 12 anni). Una guerra in cui gli obiettivi dei più potenti paesi europei (tra cui l’Italia) e gli USA coincidono alla perfezione, poiché entrambi ambiscono alle risorse russe, ed entrambi ambiscono a procacciarsele ai costi più bassi possibili, per cercare, appunto di far fronte alla sempre più pressante crisi economica.

   Al riguardo, va tenuto presente anche un altro aspetto. L’introduzione di nuovi standard produttivi di energia, sistemi di produzione e prodotti motivati con l’esigenza di contrastare la crisi climatica, introduce un ulteriore cuneo tra le economie più potenti (che detengono in nuove tecnologie) e quelle sottosviluppate, che sono costrette a dipendere ancora di più dagli aiuti delle economie maggiori, sottoforma di nuovo strozzinaggio creditizio. Anche su questo gli sforzi della Cina di sviluppo della produzione di pannelli solari e batterie al litio sono una bazzecola di fronte agli enormi costi che avrebbe per ridurre seriamente la dipendenza dall’energia fossile. Costi che sarebbero in grado di troncare ogni possibilità di continuare, sia pure lentamente, il suo sviluppo, e, tuttavia non potrà sottrarsi, dato che per vendere merci sui mercati mondiali le politiche di salvaguardia del clima impongono ad aziende e prodotti vincoli sempre più stringenti di sostenibilità ambientale. E la Cina non può fare a meno di vendere sui mercati mondiali, essendo il suo mercato interno poco solvibile per via di una maggioranza di popolazione che vive ancora di misera agricoltura di sussistenza, salvata dalla povertà assoluta dalle integrazioni di reddito statali.

   L’artefice del grande piano di ristrutturazione è, perciò, individuabile nel grande capitale strettamente intrecciato ai grandi Stati in cui è dislocato, nonché alle loro istituzioni comuni. Lo scopo non è solo salvare sé stesso, ma salvare l’intero sistema di produzione e di rapporto sociale sul quale domina incontrastato.

   I percorsi per cercare di contrastare la crisi generale del sistema, e fornire nuovi profitti alla massa di capitali accumulati sono:

  1. Quarta rivoluzione industriale;
  2. Incremento dello sfruttamento del Sud globale.

   Il progetto è, nelle linee di fondo e nei suoi dettagli, oltre che chiaramente intellegibile, anche adeguatamente articolato e definito. Ha fatto già notevoli passi avanti, ma la sua realizzazione dovrà, non di meno, scontrarsi con molti ostacoli.

   Innanzitutto, la quarta rivoluzione industriale è molto urgente, è già questo inserisce un elemento di difficoltà nella sua concretizzazione che, per molte innovazioni, richiederebbe tempi lunghi.

   Secondariamente, essa deve essere condotta in contemporanea a un nuovo assalto al resto del mondo per sottrargli una quota ancora maggiore del valore che produce. Ciò potrebbe suscitare forti resistenze. In effetti, la Russia sta già resistendo (militarmente ed economicamente, almeno per ora), la Cina appare sempre più consapevole di dover iniziare a innalzare la scala della propria difesa economica, finanziaria e militare. Attorno a Russia e Cina (stati borghesi) si stanno al momento, radunando sempre di più paesi (sempre borghesi) stanchi dell’oppressione e dei diktat occidentali. Ma, un riequilibrio dei rapporti economici, finanziari e politici mondiali non avverrà mai in condizioni pacifiche, il grande capitale e gli Stati occidentali non possono permettersi di perdere i loro privilegi, e chiamano a raccolta anche le proprie popolazioni, che da quei privilegi ottengono un po’ di briciole.

   C’è, non di meno, un terzo aspetto che può introdurre ulteriori ostacoli nell’ingranaggio della quarta rivoluzione industriale. Essa, infatti, a differenza delle precedenti, non ha da offrire neanche alle grandi masse dell’Occidente imperialista nuovi benefici, ma deve ulteriormente spogliarle di gran parte dei benefici ottenuti finora.

   I lavoratori e i piccoli capitalisti, nei paesi occidentali stanno già per essere travolti da una dinamica di progressivo impoverimento, che la piena attuazione della quarta rivoluzione industriale renderà ancor più drammatico, transitando per una crisi finanziaria e una recessione sempre più incombenti. Milioni di persone non solo perderanno il lavoro, ma sono destinate a diventare una vera e propria popolazione in eccesso, per la quale non è possibile alcuna occupazione redditizia né alcun supporto da parte dei bilanci statali. Il rischio, perciò, di resistenze, o di vere o proprie rivolte, si staglia con sempre maggiore nettezza all’orizzonte. Per fargli fronte potranno venire utili mezzi di sfoltimento che accelerino la dipartita di un po’ di gente, ma, in ogni caso, è in allestimento da parte degli Stati di un apparato di rigido controllo di ogni individuo, con i potenti strumenti offerti proprio dallo sviluppo della quarta rivoluzione industriale, che si cercherà di espandere sfruttando tutte le emergenze, artificiali o meno, spacciandolo come misure di controllo esercitate per il bene di tutti. E, ove, questo non bastasse, gli Stati stanno rinforzando oltre ogni limite gli apparati repressivi, ha dimostrazione di ciò, in questo periodo, basti vedere come lo Stato francese mostra una grande determinazione a utilizzarli senza remore e scrupoli di sorta.

   I lavoratori, dipendenti e autonomi, i piccoli capitalisti, si dovranno confrontare con un altro problema. Se finora la logica del profitto ha colonizzato le menti, le abitudini relazionali, i comportamenti individuali oggi esiste un passo ulteriore: entrare direttamente nel corpo di ciascuno, facendolo dipendere da macchinette intelligenti, fino ad applicargli sul o dentro il corpo macchinette miniaturizzate, con ciò elevando al massimo livello la potenzialità del controllo, ma rendendo anche possibile dettare comandi al corpo direttamente dal sistema delle macchine. Un uomo-robot, decisamente più produttivo in quanto fisicamente più flessibile, di qualunque macchina-robot, ma anche più facilmente controllabile in ogni sua azione/reazione sociale e politica.

   Per una resistenza davvero efficace a questo progetto, è indispensabile che ci sia un intreccio solido tra l’opposizione nei paesi dell’Occidente imperialista e quella che si sviluppa nei paesi non occidentali. L’avversario di entrambi è, infatti, comune. Solo da ciò potrà emergere un’alternativa reale non a questo o quello aspetto del capitalismo, ma alla sua totalità. Per costruire una nuova comunità umana che cooperi fraternamente rimuovendo tutti i filtri costituiti dai rapporti sociali fondati sulla produzione e appropriazione di valore. Perciò senza capitale, salario e denaro.


[1] Eufemismo per dire che lo sviluppo capitalistico nella fase imperialista non può che significare sottosviluppo economico, sociale, politico e culturale.

[2] L’altro fattore è la lotta operaia in particolare quando si radicalizzano in senso rivoluzionario. Le rivoluzioni le rivoluzioni, a cominciare da quella del 1848 che introdusse in Francia le 10 ore, sono state le più radicali che nel ridurre a favore degli operai 4la giornata lavorativa. Il primo Stato che introdusse per legge la giornata lavorativa di otto ore fu la Russia dopo l’Ottobre rosso. Infatti, nel Progetto del Programma del Partito Operaio Socialdemocratico di Russia (Bolscevico) del 1917 era scritto: “Al fine di tutelare la classe operaia dalla degenerazione fisica e morale e allo stesso scopo altresì di sviluppare la sua attitudine alla lotta per l’emancipazione, il partito esige.

  1. La riduzione della giornata lavorativa a otto ore, ivi compreso, se il lavoro continuativo, un intervallo di almeno un’ora per il pasto, per tutti gli operai salariati. La riduzione della giornata lavorativa a quattro ore o a sei ore nelle industrie pericolose e insalubri.
  2. L’istituzione per legge del riposo settimanale di almeno quarantadue ininterrotte in tutti i rami dell’economia nazionale per tutti gli operai salariati d’ambo i sessi.
  3. L’interdizione assoluta del lavoro straordinario.
  4. L’interdizione del lavoro notturno (dalle otto di sera alle sei del mattino) in tutti i rami dell’economia nazionale, a eccezione di quelli in questo lavoro è assolutamente necessario per ragioni tecniche riconosciute dalle organizzazioni operaie e sempre a condizione che il lavoro notturno dell’operaio non superi le quattro ore”.