FAUSTO E IAIO: CHI C’E’ DIETRO IL LORO ASSASSINIO?

   Il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro, vennero assassinati a Milano in via Mancinelli, da otto colpi di pistola sparati da un commando di tre killer professionisti due giovani compagni militanti del Centro Sociale Leoncavallo: Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci detto Iaio.

   Il 1975, l’anno dell’occupazione del Leoncavallo – si caratterizza in tutta Italia e particolarmente a Milano, per essere un anno di frontiera in quel decennio di lotte (1968-1978). 

   Solo comprendendo l’evoluzione del percorso politico e generazionale che si può chiarire un contesto di lotte che ha fortemente segnato quegli anni.

   Con il periodo ’698-’72 si apre anche in Italia, come nel resto d’Europa, la stagione della contestazione studentesca. Uno dei motivi che in Italia questo movimento durò più di dieci fu l’alleanza con la classe operaia in lotta.

   Il ’68-’72 rappresenta un ciclo che si differenzia dalle lotte degli anni seguenti sotto diversi aspetti; uno di questi aspetti in particolare sancirà una vera e propria demarcazione. Dopo la strage di Stato di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, si era costituita – soprattutto a Milano – un’alleanza tra le componenti democratiche della città e i movimenti; era così stato creato un importante organo di controinformazione, il Bollettino di Controinformazione Democratica che raccoglieva anche magistrati, giornalisti e intellettuali.  La linea che portò a questa unione è la strenua volontà di accertare la verità sulle trame dello Stato, sui “corpi separati” (Gladio), sull’uso militare che la borghesia faceva della polizia, sul pericolo del colpo di Stato.

   Il 1972 è l’inizio di una nuova fase perché, dopo la morte di Gian Giacomo Feltrinelli sotto il traliccio a Segrate nel 1972 (dove la stampa di regime affermò che stava preparando un attentato), tra le componenti democratiche (o democratiche-progressiste come allora venivano definite) balza agli occhi che vi erano elementi di organizzazioni clandestine anche a sinistra; questo paralizzò il livello di unità raggiunta, e aprì grosse contraddizioni che risulteranno insanabili. Oltretutto dal 1972 in poi i gruppi politici organizzati si strutturano sempre di più: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Partito Comunista d’Italia Marxista-Leninista, Partito d’Unità Proletaria, questo fatto indubbiamente contribuì a frastagliare ulteriormente l’unità del movimento.

   Nel 1973 ci fu l’occupazione della FIAT da parte degli operai, ma certamente il dato emergente è che ha inizio una lunga crisi delle organizzazioni politiche che all’epoca venivano definite extraparlamentari, quindi anche del ceto politico espresso dal ’68.

   Il 1975 è quindi un anno di frontiera per diversi motivi.

   Nelle fabbriche si è già dispiegata la risposta padronale alla precedente offensiva operaia; ha inizio la crisi dei Consigli di Fabbrica.

   Uno dei motivi di questa crisi, fu indubbiamente quando il PCI che stava portando avanti la linea politica del compromesso storico, assieme alla CGIL sviluppò il suo schema di togliere autorità ai Consigli di Fabbrica che a suo dire erano diventati incontrollabili.

   Partendo da queste considerazioni Lama e il gruppo dirigente della CGIL decidono di ridimensionare i poteri dei Consigli di Fabbrica. Questa decisione di delegittimare i Consigli di Fabbrica avviene specularmente al dispiegarsi in profondità di una offensiva capitalistica che introduce massicciamente nuove tecnologie che espropriano gli operai della conoscenza acquisita sul ciclo di lavoro, impone con forza la restaurazione della gerarchia di fabbrica, fa un grande uso della cassa integrazione per allontanare le avanguardie dalla fabbrica. Le avanguardie di fabbrica in particolare i giovani emersi in questo ciclo di lotte, si rendono conto che non sono più in grado di esercitare il potere operaio in fabbrica e quindi fanno la scelta lenta, ma inesorabile di alzare il livello dello scontro aumentando i pestaggi dei capi,  moltiplicando i sabotaggi simbolici, si coagulano così le prime forme di autorganizzazione armata all’interno della classe operaia.

   Si ha quindi una modifica dei rapporti di forza in fabbrica, e una modifica dei comportamenti operai: ma altre due caratteristiche per comprendere meglio la situazione in atto vanno analizzate:

  1. La modifica delle organizzazioni della sinistra di classe formatesi negli anni precedenti;
  2. L’emergere sulla scena politica di una nuova generazione di giovani.

   Nel 1972, come si diceva prima avviene un processo di ridefinizione organizzativa dei principali gruppi politici della sinistra rivoluzionaria; un processo di ridefinizione che non è indolore, ma si presenta molto complesso. Alcune organizzazioni scompaiono mentre altre cercano di percorre strade organizzative differenti da quelle precedentemente intraprese, scelte che producono forti lacerazioni, si pensi ad esempio a quanto accade a Lotta Continua che non riesce più a conciliare le diverse anime che raccoglie.

   Soffermarsi su Lotta Continua è impostante in quanto proprio una buona parte della componente operaia milanese è stata tra le forze politiche che hanno dato vita al Leoncavallo.

   Questa componente operaia di Lotta Continua si riunirà a Milano nel 1975, alla Palazzina Liberty, per costruire una componente organizzata di dissenso interno all’organizzazione. Sciolta Lotta Continua, gran parte di questa componente darà vita al giornale Senza Tregua da cui nasceranno i Comitati Comunisti Rivoluzionari.

   Di pari passo con il decomporsi delle precedenti organizzazioni si viene a formare un nuovo aggregato politico: l’Autonomia Operaia che a Milano ha nella rivista Rosso il suo punto di riferimento. Ma a fianco dei militanti delle precedenti organizzazioni in crisi di identità e con molte incertezze rispetto alle formule organizzative, appare sulla scena una nuova generazione di giovani che si è sviluppata principalmente nei grandi quartieri metropolitani costruiti tra il finire degli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60. Una generazione che si forma Gallaratese, a Baggio, al Gratosoglio. A Cologno Monzese o a Cinisello Balsamo.

   Si tratta di una generazione di giovani che è cresciuta nel deserto di questi quartieri ed ha iniziato un lungo periodo di sviluppo prima di potersi autorappresentare come soggetto politico; i primi momenti aggregativi sono state le compagnie di scuola che successivamente diventeranno compagnie di strada sino al punto di cercare degli spazi per potersi esprimere, spazi che assumeranno il nome di Circoli Autogestiti del Proletariato Giovanile.

   Questi circoli che dal 1975 si affacciano sulla scena sono la risposta di autorappresentazione che man mano diventerà sempre di più espressione politica. La cultura che i giovani occupanti, che sono alla ricerca di nuovi linguaggi, si avvicina molto alle forme espressive controculturali elaborate dalla rivista Re Nudo o alla nascente rivista A/traverso di Bologna. Questi circoli si chiameranno: Felce e Mirtillo, La Pera è Matura se sorgono a Pero, Sesto Senso se sorgono a Sesto San Giovanni: all’inizio con un serie di definizioni di sé che sono ancora prepolitiche.

   E precisamente in questo confuso ed articolato contesto del 1975 che sorge il Centro Sociale Leoncavallo.

   Bisogna sottolineare il fatto che il Leoncavallo, sin dal suo nascere ha caratteristiche dissimili da quelle rintracciabili nei nascenti Circoli Autogestiti del Proletariato del Proletariato Giovanile. L’occupazione del Leoncavallo è stata un’occupazione unitaria, diretta espressione di organismi politici adulti, formatisi negli anni successivi al 1968.

   Il Leoncavallo nasce in un quartiere di storiche e importanti tradizioni operaie: il quartiere Crescenzago, viale Padova, Lambrate che sono un prolungamento cittadino della Stalingrado d’Italia, Sesto San Giovanni. In questa zona vi sono le più importanti fabbriche della città.

   Lo stabile occupato è una fabbrica dismessa di prodotti farmaceutici che copre 3.600 mq, si tratta di una delle più grosse occupazioni di Milano.

   All’occupazione partecipano i diffusi Comitati di Caseggiato, i collettivi antifascisti della zona, Lotta Continua, il Movimento Lavoratori per il socialismo, Avanguardia Operaia, ecc.

   La scelta da parte di tutte queste forze di occupare unitariamente lo stabile avviene perché ci si era resi conto partiva dall’impostazione che vedeva l’ottica della fabbrica aveva invaso il sociale e quindi bisognava creare dei luoghi di riferimento nei quartieri che funzionassero da cuscinetto tra e organizzazioni e la società civile. Nascono lo Stadera in piazza Abbiategrasso, La Casermetta a Baggio, molti altri centri, tra i quali il Leoncavallo la cui caratteristica è quella di rispecchiare l’intera composizione sociale di un pezzo di città: una composizione operaia, proletaria, popolare a forte spessore di memoria di classe.

   I quartieri adiacenti, va ricordato, hanno una grossa storia di lotta antifascista che risale alla resistenza, si pensi che la Volante Rossa che nei tardi anni ’40 costituiva la parte dura del servizio d’ordine della Federazione milanese del PCI, sorse nella sezione Martiri Oscuri del PCI di Lambrate.

   La fisionomia del Leoncavallo è quella di essere un centro di rilevanza cittadina, ma fortemente radicato nel quartiere, che raccoglie al suo interno una presenza proletaria molto forte, e viene utilizzato come agorà dell’eterogeneità delle forze politiche che lo compongono. La presenza giovanile nuova, diffusissima nell’hinterland della metropoli, non emerge dal Leoncavallo: il comitato di gestione è per lo più composto da militanti delle organizzazioni in crisi. Questo risulterà col tempo un limite in quanto non furono colti gli elementi anche se solo in fase embrionale di una crescita politica di questa nuova generazione che inizia a prendere coscienza della propria realtà di proletari espulsi dalla città.

   Milano è una grande centrifuga che spinge verso la periferia i soggetti deboli; non a caso nascono a Bollate piuttosto che a Quarto Oggiaro le teorizzazioni degli indiani metropolitani, giovani espulsi dalle periferie che vanno a riappropriarsi dei territori “dell’uomo bianco”, il centro cittadino. Le prime iniziative sono assemblee e feste, non essendo ancora diffusa in modo generalizzato la cultura dei concerti.

   Dal 1975 al 1977 il Leoncavallo permane un’espressione dell’egemonia operaia. Quando furono assassinati Fausto e Iaio (stavano facendo inchiesta sullo spaccio di eroina nel quartiere) la risposta fu imponente: centomila persone partecipano ai funerali; un gruppo di donne (tra cui le madri dei giovani uccisi) prendono parte attiva nella vita del centro dando vita al gruppo delle “mamme del Leoncavallo”.

   Inizia con la morte di Aldo Moro, nel 1978 la stagione della grande repressione: il Leoncavallo è frequentato da un nucleo di compagni che produce una resistenza forte contro la ristrutturazione generale dello Stato e delle fabbriche.

   Molta gente abbandona il centro e si chiude sempre di più a riccio. Si apre sempre di più la frattura con le componenti neoistituzionali che avevano partecipato all’occupazione; una frattura dovuta alla non intenzione da parte di molti occupanti di esprimere una dura condanna al terrorismo.

   È senza dubbio vero che una parte dei frequentatori del Leoncavallo tra il 1978-79 compie la scelta della lotta armata; ovviamente la scelta della lotta armata è un fenomeno che ha attraversato molti collettivi di quel periodo, un fenomeno che è stato il prodotto logico di delle possibilità dei movimenti di rappresentarsi, cosa che ha lasciato poche alternative: per alcuni il rappresentarsi nelle organizzazioni neoistituzionali, per molti altri il ritiro al privato, per altri l’eroina e il suicidio.

   È possibile quindi tentare un sunto dei primi sei anni di vita del Leoncavallo, un sunto che è uno specchio fedele del movimento:

  1. 1975-1976: tentativo del centro volto a elaborare alternative politiche alla decomposizione delle vecchie organizzazioni;
  2. 1977: si punta sulla rivendicazione delle lotte precedenti, mostrando quindi una parziale chiusura nei confronti del neomovimento del ’77 che a Milano si rappresenta nell’esperienza dei Circoli del proletariato Giovanile;
  3. 1978-1981: perdita da parte di tutti i movimenti di militanti che compiono la scelta della clandestinità, una scelta peraltro comune e condivisa in molti altri luoghi sociali della città.

   Il Leoncavallo, come tutto il movimento, è segnato dagli arresti di massa, la reazione degli occupanti del centro è una chiusura su sé stessi, unico tema politico riguarda la repressione.

   Indubbiamente da parte del movimento ci fu un’incapacità di compiere una lettura politica più generale della fase in corso.

ALLA RICERCA DI UNA TRACCIA

   Alle 21.30 dopo un0ora e mezzo del duplice omicidio, l’agenzia di stampa ANSA riceve una telefonata da una cabina telefonica di Milano, in Piazza Oberdan.

   È breve, secca, fulminea: “Sergio Ramelli piangeva vendetta, ieri è stato vendicato. Giustiziere d’Italia. Firmato: gruppo armato Ramelli”.

   Il 22 marzo, alle 8.25 squilla di nuovo il telefono al centralino dell’ANSA di Roma, nel giorno dei funerali pubblici di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci a Milano: “Mentre si celebrano i funerali rivendichiamo l’eliminazione dei due giovani di Lotta Continua avvenuta per vendicare l’assassinio dei nostri camerati firmato Gruppi Nazionali Rivoluzionari”.

   Il giorno dopo alle 21.30, in una cabina telefonica in via LEONE IC A Roma, la polizia rinviene un volantino in triplice copia firmato Esercito nazional rivoluzionario brigata combattente Franco Anselmi.

   Il gruppo prende il nome di Franco Anselmi, uno dei fondatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), ucciso lunedì 8 marzo 1978 dall’armiere romano     Danilo Centofanti mentre tenta di effettuare una rapina in compagni dei fratelli Giusva e Cristiano Fioravanti, Alessandro Alibrandi e Francesco Bianco.

   Per almeno quattro anni, saranno rivendicate azioni in memoria di Franco Anselmi.

  1. Il 28 maggio 1978, con la bomba contro la sede del PCI di via Pompeo Trogo, nel quartiere nel quartiere romano della Balduina;
  2. A Roma con due rapine in armerie nel 1979;
  3. Il 4 aprile 1980 a S. Antonio Labate, vicino a Napoli; con la gambizzazione di Domenico Longobardi, direttore del manicomio giudiziario di Sant’Eframo;
  4. A Venezia, pochi giorni dopo la strage di Bologna del 1980, per scagionare Marco Affatigato;
  5. A Roma, con gli omicidi di Luca Perucci, il 6 gennaio 1981, e Marco Pizzari, il 30 settembre 1981, militanti di Terza Posizione, sospettati di infamia e tradimento;
  6. Ad Acilia, con l’omicidio dell’ufficiale della Digos Francesco Straullo, il 21 ottobre 1981.

   Nei giorni successivi il duplice omicidio, a Milano un gruppo di giornalisti raccoglie indizi.

   È una rete fitta, formata da quattro quotidiani (l’Unità, Quotidiano dei Lavoratori, Lotta Continua, La Sinistra), alcune radio (Radio Popolare, Radio Lombardia, Radio Regione, Canale 96), militanti dei gruppi della sinistra extraparlamentare e della base del PCI.

   Non esiste un coordinamento generale e ognuno lavora in modo autonomo, mosso da una grande passione militante.

   Ciò che viene trovato e pubblicato nei primi mesi si somma e si sottrae spesso sono dati empirici, anche errati, altri filtrano dalle indagini ufficiali, ma formano gli elementi di una contro-inchiesta importante e preziosa.

   È la controinformazione sull’omicidio di Fausto e Iaio.

   Secondo la ricostruzione di Umberto Gay, Fabio Poletti e Angelo Valcavi di Radio Popolare, dal locale Crota Piemonteisa, Fausto e Iaio non si dirigono direttamente in via Mancinelli, ma per un motivo ancora inspiegabile si incamminano invece lungo via Lambrate, in direzione di piazza San Materno, poi risalgono lungo via Casoretto verso via Monte Nevoso.  

   Resta decisiva la testimonianza dell’edicolante all’angolo tra via Casoretto e via Mancinelli che li sente parlare ad alta voce, intorno alle 19.55 del 18 marzo 1978.

   “Commentavano i titoli delle edizioni straordinarie dei giornali sul caso Moro. Si sono fermati per pochi secondi, poi si sono diretti verso il deposito dell’ATM”.

   Alle 19.58, qualcuno o qualcosa attira Fausto e Iaio dentro via Mancinelli.

   Sono i tre killer.

   Due indossano l’impermeabile bianco con il bavero alzato.

   L’altro porta un giubbotto marroncino chiaro, di finto cammello.

   Formano un campanello davanti al portone dell’Anderson Schol.

   Gay e Poletti sostengono che i ragazzi conoscono almeno uno degli attentatori.

   Tiziano, un altro teste, esce poco prima delle 20 dalla sua abitazione di via Casoretto 8, riconosce e saluta Fausto e Iaio che imboccano via Mancinelli.

   Pochi secondi dopo vede due giovani correre verso via Casoretto, come se fossero appostati nella piccola rientranza tra l’edicola e l’angolo della via.

   L’uno sale al volo sulla linea dell’autobus 55, porta un giubbotto marroncino, capelli ricci, castano chiaro.

   L’altro si guarda intorno, lo accoglie un attimo di indecisione, poi si allontana tranquillo verso via Accademia.

   Un anziano passante scorge un movimento strano.

   All’angolo tra via Casoretto e piazza San Materno giungono una macchina e una moto che si fermano solo il tempo necessario per far scendere tre giovani, due con l’impermeabile chiaro e il bavero alzato, uno con il giubbotto marroncino.

   Queste testimonianze non saranno mai verbalizzate dagli inquirenti[1].

   Il commando sarebbe dunque formato da cinque persone.

   Due di loro coprono i tre killer introno a via Mancinelli, conoscono bene la ona e le possibili vie di fuga.

   Con ogni probabilità risiedono a Milano e provincia.

   Il loro compito è strategico: conducono gli assassini venuti da fuori nel luogo del delitto, poi, svaniscono nel nulla.

   I tre killer sono tutti armati, ma solo uno, quello più esperto, estrae una Beretta bifilare modello 34 o 35, con originaria canna calibro 9, ed esplode contro i due ragazzi otto colpi calibro 7.65 con proiettili mantellati di tipo Winchester o Fiocchi.

   Lui spara a freddo, pendendo accuratamente la mira, incurante del tempo che passa e dei testimoni che possono riconoscerlo, mentre i due complici lo proteggono a breve distanza.

   Uno di loro porta in tasca un calibro 9.

   L’arma che uccide è automatica e il sacchetto di cellophane descritto dalla testimone Marisa Biffi è senza dubbio uno stratagemma per evitare l’espulsione dei bossoli.

   Un sistema diffuso negli ambienti della destra romana.

   Così si spiegherebbe la contraddizione tra il rumore prodotto dalla pistola, descritto da quasi tutti i testi come attutito o scambiato per petardi, con l’impossibilità di utilizzare un silenziatore su una pistola a tamburo, come invece possibile per un’automatica.

   Qualche ora dopo l’omicidio, il cronista de l’Unità Mauro bruto rinviene un proiettile schiacciato accanto al corpo di Iaio e lo consegna alla polizia.

   Mauro sa che quella prova è in grado di indirizzare gli inquirenti sulla pista giusta.

   Anche sulla dinamica dell’omicidio, Mauro Bruto prova a tracciare il su prototipo di identikit del killer.

   Qualcuno in Questura fa circolare la voce che la pistola sia a tamburo, tipo calibro 32, ma Mauro Bruto smonta il tentativo di depistare l’indagine.

   Secondo la ricostruzione di Mauro Bruto, c’è almeno un elemento certo nella dinamica dell’omicidio: “I killer per uccidere hanno usato pistole automatiche avvolte in sacchetti di plastica. Per questo motivo sul luogo dell’omicidio non sono stati trovati i bossoli e i testimoni hanno sentito colpi ovattati. Un particolare che conferma il livello di professionalità: gli assassini non hanno voluto rinunciare al vantaggio della rapidità di tiro favorita da una pistola automatica senza però correre il rischio di disperdere i bossoli e lasciare quindi una traccia che in qualche modo poteva portare a loro. La necessità da parte degli assassini di sfruttare la rapidità di tiro delle automatiche indica che intendevano essere certi di uccidere nel minor tempo possibile per non dare ai testimoni la possibilità di descrivere anche in modo approssimativo, i loro volti[2].

   E i tre killer dove corrono?

   Potrebbero tornare verso via Casoretto, ma scelgono di percorrere l’intera via lungo trecento metri, con il rischio di imbattersi in qualche macchina della polizia o dei carabinieri.

   Con le armi in pugno voltano le spalle ai corpi ormai senza vita di Fausto e Iaio.

   Lo sparatore, quello più alto, si accorge che qualcuno lo ha visto (Marisa Biffi e le sue due figlie), ma è certo che il buio di via Mancinelli non può permettere la completa identificazione.

   Nel silenzio d quella sera si sente a quel punto solo il rumore delle scarpe sull’asfalto.

   I due giovani con l’accento romano, l’impermeabile bianco e il bavero alzato camminano a passo sostenuto, sul marciapiede di sinistra, mentre quello con il giubbotto color cammello prosegue alla stessa velocità su quello di destra.

  È una fuga che dimostra la sicurezza di non essere riconosciuti e la loro decisione di sparare anche su chiunque li volesse fermare.

   Del resto, l’idea di dirigersi verso il centro sociale non è balzana, poiché via Mancinelli è buia e deserta e poco dopo le 20 il Leoncavallo è ancora chiuso al pubblico, dopo che il concerto del bluesman Roberto Ciotti, organizzato da Fabio Treves, inizia più tardi, verso le 22.

   Due killer raggiungono l’angolo tra via Mancinelli e via Leoncavallo dove c’è l’ingresso a un garage pubblico che conduce al retro del centro sociale.

   Li incrocia Natale di Francesco: nella sua testimonianza sostiene che i due hanno un’età tra i 18 e i 20 anni, alti un metro e settanta, indossano impermeabili chiari.

   Il terzo componente del commando prosegue sul marciapiede di destra, attraverso via Leoncavallo, percorre via Chavez e in vis Padova viene recuperato da un complice con una moto di grossa cilindrata.

 La scena si sposta a pochi chilometri dal luogo dell’agguato.

   Intorno alle 20,10 in Piazza Durante, a poche centinaia di metri da via Mancinelli, la polizia ritrova, su indicazione del teste Angelo Palomba una pistola Beretta calibro 9, con il numero di matricola limato, il colpo in canna e sei proiettili nel caricatore, lanciata da un giovane a bordo di una motocicletta.

   L’arma non ha sparato.

   E pochi minuti dopo, in piazza Aspromonte, i testimoni Pierre Manuel Orbeson e Magda Margutti notano due ventenni su una Kawasaki color verde chiaro.

   La coppia osserva attentamente la scena: il passeggero scende dalla moto, toglie dalla targa una di copertura legata con un elastico ed entra in una vicina pizzeria.

   Pierre Manuel Orbeson memorizza il numero della targa (MI5387383) e lo passa al giornalista Antonio Belloni.

   La moto è intestata a Gaetano Russo, pregiudicato per rapina e furti, e Antonio Ausillo, incriminato per vari reati, tra cui tentato omicidio.

   In quelle ore e negli anni successivi, sul loro conto nessun ulteriore accertamento viene svolto dalla polizia giudiziaria.

   Le analisi che fa Mauro Brutto sull’Unità sono precise: “L’unica dato certo che polizia e magistrato hanno confermato è che Lorenzo e Fausto son caduti n un vero e proprio agguato e non sono stati vittime di una lite o di un diverbio scoppiato all’improvviso. Anche se i due ragazzi sono stati visti da alcuni testimoni parlare con gli assassini, costoro li avevano attesi lungo la strada che portava a casa di Tinelli, con in tasca pistole avvolte in sacchetti di plastica per impedire ai bossoli di cadere in terra e cancellare un importante traccia[3].

   I sicari decidono la morte dei due ragazzi e li pedinano da almeno tre mesi, come ricorda Danila, la mamma di Fausto: “Mi seguivano macchine targate Roma e una moto di grossa cilindrata targata Milano. Il padrone della moto era uno di Vimercate. L’avvocato Mariani[4], ne possiede perfino il numero di targa. Tra il dicembre 1977 e gennaio 1978 c’era una mini rossa che mi pedinava. Anche Fausto veniva seguito da almeno quattro settimane prima di essere ucciso[5].

   Mauro Brutto era quel tipo di giornalista che all’epoca erano chiamati “pistaroli”, un gruppo di giornalisti che non cerca lo scoop a ogni costo, ma la verità dei fatti, quelli scomodi, spesso insabbiati dalle autorità politiche o dai servizi segreti.

   Gente come Mauro Nozza, Giorgio Bocca, Gianni Flamini, Corrado Stajano, Aldo Palumbo.

   Marco Brutto è certamente uno di loro.

   Mauro Brutto nasce a Milano il 1° gennaio 1946.

   A dodici anni, in Liguria, assiste a una operazione di salvataggio di un bagnante.

   Da quella storia di cronaca, Mauro elabora un articolo, talmente bello che i genitori lo passano a un quotidiano locale, poi pubblicato con la firma.

   Si appassiona alla politica sul finire degli anni Sessanta quando frequenta il liceo Parini.

   Sono gli anni delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, le lotte sociali, quelle per i diritti civili e un salario più giusto per gli operai, per un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori.

   Dopo qualche servizio per lo storico giornale del Parini La Zanzara, si iscrive al PCI dopo ver conosciuto Pietro Secchia e Giovanni Pesce, capo dei GAP e Torino e Milano, nomi di battaglia Ivaldi e Visone e medaglia d’oro al valore militare della Resistenza.

   Nei primi anni Settanta collabora alla rivista Maqui diretta da Filippo Gaia, specializzata in terrorismo e servizi segreti nazionali e internazionali, ma quel lavoro viene interrotto dal servizio militare, quando lo spediscono in Sardegna in guardia alle basi NATO.

   Marco Bruto è un segugio, si rende conto che il caso di Fausto e Iaio è un caso diverso da quelli che abitualmente gli toccano in cronaca: le bische clandestine di Francis Turatello e Angelo Epaminonda detto il Tebano, il rapimento di Cristina Mazzotta, traffico di droga, il racket e l’usura.

   Mauro Brutto sul caso di Fausto e Iaio molto probabilmente era vicino alla verità.

   Lo dirà anni dopo a Danila, la mamma di Fausto Tinelli: “Ebbi l’impressione che fosse giunto al termine della sua inchiesta. Mauto venne a casa mia come un amico di lunga durata. Stava indagando sul connubio tra trafficanti di eroina, fascisti milanesi e romani, apparati dello Stato, me lo aveva confidato. Disse che la verità di Fausto e Iaio non ere poi così chiara come qualcuno voleva farla apparire[6].

   Sicuramente Mauro Bruto aveva dato fastidio a parecchi personaggi.

   Tra il 1977 e il 1978, scopre una organizzazione mafiosa che da Trezzano sul Naviglio che gestisce buona parte degli affari sporchi di Milano e provincia.

   In quei mesi indaga anche sul traffico di armi da parte dell’organizzazione filoatlantista da parte del Movimento di azione rivoluzionaria di Carlo Fumagalli, un personaggio che si definiva di essere un “estremista di centro”[7] e prepara un dossier sull’anonima sequestri.

   Nella sua abitazione e in quella dell’avvocato di parte civile Luigi Mariani, si ritrovano giovani cronisti che tentano di accostare pezzo dopo l’intricato puzzle della morte di Fausto e Iaio.

    Umberto Gay è uno di loro: “la contro-informazione era rischiosa perché doveva andare spesso a cercare le fonti nel campo avverso ed era comunque un soggetto facilmente identificabile. Questo lavoro mi ha fatto conoscere Mauro Brutto, fu lui che influenzò in modo decisivo la mia decisione di fare il giornalista d’inchiesta. Mauro fu il primo a occuparsi del caso di Fausto e Iaio, cercando di capire il motivo di quell’agguato e i risvolti oscuri della vicenda. Se ne occupava in tutti gli spazi liberi di tempo. Aveva lavorato in precedenza per una rivista rancese della sinistra “Maqui”. Il suo lavoro iniziale è risultato fondamentale per la riuscita del nostro dossier[8].

   Un giorno mentre Brutto è in via Arquà, nei pressi di via Mancinelli, sfugge a un attentato.

   Qualcuno alla guida di un’auto affianca la sua Citroën, sporge il braccio dal finestrino, punta una pistola contro Mauro ed esplode due colpi verso l’alto.

 

   Nessun proiettile va a segno, ma il messaggio è chiaro.

 

   Mauro Butto muore in circostanze misteriose a Milano, in via Murat, alle 20.45 dl 25 novembre 1978.

 

   Esce dalla sede del giornale alle 20.30. a bordo della su macchina si avvia verso via Murat, passando per viale Cà Granda, costeggiando l’ospedale di Niguarda.

 

   All’altezza di via Murat 38, posteggia l’auto accanto al marciapiede, attraversa la strada, entra nel bar tabacchi, acquista due pacchetti di sigarette, beve un aperitivo poi esce dl locale.

 

   Si ferma sulla mezzeria, proprio sulla striscia bianca. 

 

   Guarda sulla sua destra, arriva da lontano una Fiat 127 rossa che lampeggia, attende il suo passaggio, ma nella carreggiata alle sue spalle, in direzione opposta alla 127, spunta una Simca 1100 bianca che viaggia a 70 chilometri all’ora.

  

   Il conducente della vettura invade leggermente l’altra corsia, unta su Mauro, lo coglie frontalmente e lo uccide, poi sterza quanto basta per evitare la collisione con la 127 che giunge in senso opposto.

 

 TRAFFICO DI STUPEFACENTI E SERVIZI SEGRETI

 

 

   Come si diceva Fausto e Iaio collaboravano ha un’inchiesta che il movimento faceva sul rapporto tra spaccio delle sostanze stupefacenti e fascisti, lo stesso faceva Mauro Bruto.

 

   Quando ci si interroga su come è stato possibile che una intera generazione di giovani contestatori sia finito in fumo o riassorbita dai meccanismi di quel sistema che intendeva abbattere bisogna partire dal fatto che nell’estate del 1967 la CIA, avviò una grande covert operation – che significa operazione condotta per interferire negli affari di uno Stato estero, con il massimo grado di riservatezza e tutela, anticamera dell’illegalità e l’arbitrio. L’operazione si chiamava in codice CHAOS, chiusa nel 1974 (ufficialmente, per quanto riguarda i documenti ufficiali). Questa operazione consisteva nell’infiltrazione, a scopo di provocazione, propri agenti o fiduciari all’interno di gruppi, associazioni e partiti della sinistra extraparlamentare in Italia, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Repubblica Federale Tedesca. In sostanza, attraverso la diffusione di droghe sintetiche o del radicalismo, tentò di inquinare e depotenziare il vasto movimento di protesta studentesca. In Italia si ebbe una versione locale con l’Operazione Blue Monn[9].

 

   Per capire come ebbe inizio l’operazione Blue Monn, bisogna partire dall’autunno del 1972 quando un gruppo di uomini di diversa nazionalità si erano dati appuntamento in una struttura segreta nel cuore dei monti Vosgi, al conflitto tra Francia e Germania. Arrivarono alla spicciolata: italiani, francesi, portoghesi, greci, spagnoli e perfino polacchi. In questa riunione si parla soltanto in francese, nessuno è autorizzato a rivelare il proprio nome e ogni possibile riferimento autobiografico è ommesso.

 

   La loro permanenza in quel luogo sarebbe durata alcuni giorni.

In questa riunione si sparlò di “sicurezza internazionale” e “lotta alla sovversione” – come si sarebbe reagito in caso di una nuova “avanzata comunista”? Cosa si sarebbe potuto fare? E con quali strumenti? Tutti gli uomini, uno alla volta, furono chiamati a tenere una breve relazione sulla situazione dei paesi di provenienza. Erano già in Poi si parlò di possibili situazioni, alcune delle quali erano già in atto. Ne dibatterono brevemente tra di loro sempre mantenendo segrete le rispettive identità. Non furono stesi verbali né scattate fotografie: ogni comunicazione rimase nel silenzio più assoluto, esattamente come esige il copione. Quegli uomini non erano normali cittadini: appartenevano a organizzazioni clandestine più o meno “legali”. Quello che stavano progettando avrebbe potuto determinare il futuro dell’Europa. Tutto doveva rimanere segreto, e probabilmente così sarebbe stato.  ma la storia è fatta anche di cortocircuiti. Il cortocircuito in questo caso ha un nome e cognome: Roberto Cavallaro, un agente dei servizi segreti presente alla riunione.

 

   Prima di riportare le rivelazioni di Cavallaro su questa riunione, facciamo un passo indietro.

 

   Roma, 21 marzo 1970, il Nucleo antidroga dei carabinieri fa irruzione su un barcone ancorato lungo le rive del Tevere. Il natante – da qualche mese punto di ritrovo della gioventù cittadina – è messo letteralmente sottosopra. 90 ragazzi sono arrestati. Il quotidiano Il Tempo, l’indomani mattina, titolerà con grande clamore: Duemila giovani si drogavano sul barcone, L’operazione Barcone può considerarsi l’inizio di una campagna mediatica senza precedenti: nei sei mesi successivi la stampa nazionale pubblica oltre diecimila articoli sul tema della tossicodipendenza, che fino ad allora non era praticamente mai, stato affrontato. Centinaia di ragazzi finiscono in manette; in molti casi condannati a pene severissime.

 

   L’equazione “capellone uguale drogato” diventa un postulato indiscutibile. L’intero movimento è messo sotto attacco: nasce così – come emergerà da un’accurata ricerca della psichiatra Maria Grazia Cogliati – il personaggio tossicomane, “impossibilitato a trovare un lavoro o un alloggio o una solidarietà”, diventa oggetto costante di paura, disprezzo e intolleranza. Eppure, chi conosceva quel mondo sapeva bene che la dipendenza da stupefacenti era, all’epoca, un fenomeno assolutamente marginale. In tutta Roma, nel 1970l furono censiti solo 560 giovani tossicodipendenti la maggior parte dei quali faceva uso di barbiturici o altri farmaci. I primi morti per droga vennero registrati nel 1972 ed erano consumatori di anfetamine, sostanze non ancora vietate[10].

 

   Questo fenomeno provocherà l’interesse della controinformazione militante, dalle cui inchieste emergeranno fin da subito diversi dati piuttosto significativi. Punto uno: nonostante le roboanti dichiarazioni dei media (che parlarono del sequestro di mezzo chilo di hashish, di siringhe ed eccitanti, e di decine di giovani in stato confusionale), l’operazione Barcone del 21 marzo 1970 si conclude, stando agli atti ufficiali, con il “rinvenimento” di un misero mezzo grammo di hashish. Tra i novanta arrestati, una sola persona risulta avere effettivamente assunto sostanze stupefacenti.

 

   Punto due: il capitano Giancarlo Servolini, direttore del Nucleo antidroga, era un noto agente del SID[11].

 

   Punto 3: Servolini e i suoi uomini si sarebbero dedicati a una nuova, incredibile missione, quella di intensificare le azioni repressive contro i consumatori di droghe leggere e preparare il terreno per la diffusione di quelle pesanti, a cominciare dalla morfina.

 

   Nell’aprile del 1975 Paese Sera e L’Espresso pubblicarono una lunga e clamorosa accusa di Roberto Canale, uno dei tanti arrestati dal Nucleo antidroga: “Quando sono uscito dalla prigione, nell’inverno del 1972, Roma non era più la stessa. Trastevere era completamente rovinata, Campo dè Fiori piena di spie, mafiosi. Quando sono entrato in carcere, a Roma c’era qualche “bucomane”: sballati che si facevano l’anfetamina; oppio o morfina nei giri di Trastevere e Campo dè Fiori non se ne vedevano quasi mai. Adesso arrivo sulla piazza e vedo dei ragazzi che vendono pastiglie di morfina davanti a tutti, come se fossero sigarette di contrabbando. “Ma non avete paura?”. Alcuni li conoscevo, erano ragazzi delle borgate. Si misero a ridere: “A te ne diamo gratis, prendila è molto buona”. Credevo che fossero gentili perché erano vecchi amici e io era appena uscito di prigione: mi sbagliavo. Facevano così con tutti: gratis o per duecento o trecento lire”. Da dove venivano quelle sostanze? Di nuovo Canale: “Se i carabinieri avessero fermato un tossicomane, Servolini gli avrebbe fatto lo stesso discorso: “Se lavori per noi ti diamo morfina gratis”. Dopo che ho cominciato a bucarmi, ho visto anch’io qualche volta questa morfina: era diversa da quella del Pakistan e si diceva che veniva dai laboratori farmaceutici che la fornivamo in dotazione esclusiva dell’esercito. La chiamavano Palfium[12].

 

   Il Palfium era, in effetti, una morfina sintetica lanciata sul mercato dall’industria belga alla fine degli anni Cinquanta: secondo le ricostruzioni della stampa alternativa, essa venne prodotta dall’Istituto chimico farmaceutico militare di Firenze, che lavorava soprattutto per le Forze Armate. Fu così che, grazie alla collaborazione di una sempre più numerosa pattuglia di “untori”. In pochi mesi si passò dalle pastiglie alle siringhe. Non uno spacciatore di morfina venne arrestato tra il 1972 e il 1973, mentre continuarono le azioni contro i consumatori di hashish e marijuana.

 

   Il 23 maggio 1973 il Corriere della Sera pubblica una clamorosa notizia riportata in un vademecum per turisti a stelle e strisce, distribuito dall’ambasciata statunitense a Roma: vi si legge: “I giovani americani non sanno che in Italia gli spacciatori di droga sono anche spie del Nucleo antidroga e vengono ricompresati in cambio di informazioni dettagliate sugli acquirenti/consumatori[13]. Nel suo libro Eroina Bruno Blumir, un esperto del fenomeno scrisse: “Dal febbraio 1973, il Centro antidroga del Comune di Roma a ricevere i primi casi di intossicazione da morfina: nel settembre 1974, è possibile are i conti. Sono passati dal Centro centosessanta giovani, tutti consumatori abituali di oppiacei; nel 1970, su centoquantadue tossicomani trattati dal Centro, nessuno era morfinomane o eroinomane, tutti erano farmacodipendenti da psicofarmaci”, la grande svolta arriva nell’inverno tra il 1974 e il 1975, quando la morfina viene soppiantata da una nuova sostanza: l’eroina[14].

 

   Ancora Blumir: “I mafiosi dell’eroina controllano una quota del mercato della droga leggera; bon hanno nessuna difficoltà a fingere una carestia della merce o ad alzare artificiosamente il prezzo; contemporaneamente, immettendo sul mercato eroina a basso prezzo o semigratuita, si compie un’operazione promozionale verso i “neofiti” della droga, le migliaia di ragazzi che si avvicinano al mercato nero per provare la droga. Nella misura in cui questi ragazzi ignorano i pericoli dell’eroina, o hanno un’immagine confusa della droga in generale, non esistono resistenze specifiche all’uso di eroina. Inoltre, la migliore pubblicità è quella del prezzo basso: ciò è particolarmente vero per i giovani operai, proletari e sottoproletari. Nell’inverno ’74-75, nelle grandi città operaie come Torino e Milano, quello del prezzo è il fattore chiave con cui vengono agganciati i giovani operai[15].

 

   La nuova rivoluzione psicotropa venne supportata “esternamente” dai militari del Nucleo antidroga, che tra il novembre del 1973 e il gennaio del 1974 arrestarono circa duemila consumatori di hashish e marijuana. Fu l’estrema, provvidenziale retata; il dominio dell’eroina ì, da allora in poi, sarà tremendo e totale. Esso provocherà, negli anni successivi, decine di migliaia di vittime.

 

   Per capire chi potrebbero essere i registi occulti di questa operazione bisogna reimmergersi nelle nebbie gelide dei monti Vosgi. Fu lì, nel corso di una delle più misteriosa riunione degli anni Settanta, che vennero pronunciate le tre parole che avrebbero insanguinato un’intera generazione: operazione Blue Moon. Ovvero la campagna segreta dei servizi segreti che permise la diffusione delle droghe pesanti tra i giovani dell’Europa occidentali.

 

   A questa riunione partecipò Roberto Cavallaro, agente del SID ed ex militante della Rosa dei Venti. In questa riunione egli operava un agente sotto copertura del SID. Già prima di allora, fingendosi era riuscito a infiltrarsi in una delle più potenti organizzazioni strutture segrete operanti in Italia: i Nuclei di difesa dello Stato, che riunivano sotto la propria bandiera estremisti di destra e vertici della finanza, delle istituzioni e delle Forze Armate, e che avevano come obiettivo programmatico il ripristino dell’ordine tramite la destabilizzazione golpista.

 

   Rivelerà Cavallaro: “I Nuclei di Difesa dello Stato si muovevano nell’ottica della realizzazione del Piano di sopravvivenza, e cioè, in sostanza, eseguivano le tecniche di controllo del territorio, di guerra psicologica e di attivazione e concreto addestramento, sia in funzione di resistenza a un’invasione de mutamento del quadro istituzionale, che era la parte più vera significativa della sua esistenza[16].

 

   Il ruolo dei Cavallaro all’interno dell’organizzazione era apparentemente indefinito non doveva sabotarne le operazioni, dove piuttosto osservare con attenzione, prendendo contatto con i vari leader del gruppo e monitorandone le iniziative. Cavallaro lavorò alla sua missione, fino a che, nel novembre 1973 in seguito al rocambolesco rinvenimento di un dossier segreto nel quale compariva il suo nome, venne clamorosamente arrestato dai carabinieri. La situazione era paradossale: Cavallaro lavorava per un ordine dello Stato, su mandato del quale si era infiltrato in un’organizzazione, che era guidata – seppur segretamente – da importanti generali e influenti politici, i quali si proponevano di “salvare” l’Italia dalla “sovversione comunista”. Nonostante ciò, egli veniva ammanettato dai militari dell’Arma, ovvero da un altro organo dello Stato. Cavallaro resistette in silenzio per oltre due mesi. Poi, un giorno di febbraio del 1974, stremato dall’isolamento e sentendosi ormai abbandonato dai suoi protettori, chiese un incontro con il giovane giudice istruttore che stava seguendo il suo caso, fece: “Lei potrà non credere a quello che le dirò, ma sappia che si tratta di questioni significative. La prego di non sottovalutarle”. Il giudice si chiamava Giovanni Tamburino. Fu così, partendo dalla stesura di quel primo verbale, che ebbe inizio una delle inchieste più eclatanti degli anni Settanta: quella della Rosa dei Venti[17].

 

   Nel 1972 Aginter Presse era al culmine della sua parabola.

 

   Cosa era Aginter Presse?

 

   L’esistenza al grosso pubblico di questa struttura avvenne nel 1974.

 

   Il 25 aprile 1974 il Portogallo con la “rivoluzione dei garofani” si libera del gioco di mezzo secolo di fascismo.

 

   Il 23 maggio 1974, a Lisbona, un commando di fucilieri di marina agli ordini del tenente Matos Moniz fa irruzione nei locali di un’agenzia si stampa al numero 13 di rua das Pracas, una strada tranquilla del quartiere residenziale     Bairro de Lapa, sopra il Tago. Il giorno prima un funzionario della PIDE, l’ex polizia politica del regime salazarista, interrogato nel forte di Caxias dagli ufficiali del Movimento delle forze armate, ha rivelato che dietro l’agenzia Aginter Presse si celava una centrale di informazioni lavorava per la PIDE.

 

   Per penetrare nell’agenzia i fucilieri della marina devono sfondare una parte blindata di serrature di sicurezza. Il quartiere è in fermento, la caccia ai torturatori della PIDE mobilita la popolazione, e la voce si è sparsa. Parecchie decine di abitanti circondano il palazzo.

 

   Nei locali dell’agenzia è rimasto un solo impiegato. Non sa un granché, l’agenzia ha sospeso l’attività da diversi mesi.

 

   Dal 25 aprile le telefonate si sono diradate, poi sono cessate, l’impiegato viene soltanto a ritirare la corrispondenza.

 

   Gli uffici dell’agenzia sono nell’ammezzato, in un modesto appartamento di quattro locali. Il primo, che fungeva da redazione, contiene una biblioteca, qualche scrivania e delle macchine da scrivere.

 

   Le due stanze su cui si affaccia ospitano gli archivi. L’ultimo locale   è un laboratorio per fabbricazione di microfilm. Tutto è in ordine, le carte sono al loro posto sulle scrivanie. Nessun segno di fuga precipitosa. Come se si fosse lavorato fino al giorno prima. Perquisendo l’appartamento, il commando fa diverse scoperte stupefacenti. Il laboratorio è in realtà un’officina di fabbricazione e stampa di falsi documenti francesi, spagnoli e portoghesi: passaporti, carte di identità, tessere da giornalista e da poliziotto, patenti di guida, certificati di assicurazione ecc. c’è anche un’impressionante collezione dei visti che vengono rilasciati alle principali frontiere europee e di timbri francesi della prefettura parigina di polizia, delle prefetture dipartimentali, della gendarmeria nazionale, delle regioni militari. Non manca nemmeno una serie di campioni di firme di diplomatici e ufficiali superiori francesi.

 

    Proseguendo la loro indagine, i fucilieri di marina portoghesi passano a interessarsi degli archivi. Contengono documenti, ritagli stampa e microfilm disposti in perfetto ordine in classificatori divisi per continente e paese: America del Sud, Africa, Francia, Italia, Germania occidentale, ecc. Tutti questi documentali, queste “note confidenziali”, sono in francese. I libri contabili dell’agenzia, tenuti in uno stile laconico dicono poco al commando: lunghe colonne di nomi, quasi tutti in francese, seguiti da somme in franchi.

 

   In questi archivi, il tenente Moniz scopre diversi schedari: un elenco degli abbonati alle pubblicazioni dell’agenzia, uno degli impiegati e collaboratori e un terzo schedario, estremamente ricco e misterioso, che portava la dicitura Ordre et Tradition. Le singole schede riportano il curriculum vitae preciso di ogni militante e le sue idee politiche: fascista, nazionalista anticomunista, nazionalista rivoluzionario, ecc.  Sono citate anche le organizzazioni politiche di cui fa o ha fatto parte per esempio “ex OAS”. I più misteriosi sono i francesi, ma si trovano pure spagnoli, portoghesi, italiani, britannici, svizzeri, statunitensi e sudamericani, oltre che transfughi dai paesi dell’Est. Alcuni sono nomi noti altri no.

 

   Il commando portoghese ha scoperto il quartier generale di una centrale fascista internazionale diretta da ex ufficiali dell’OAS, il cui capo non è altri che Guérin Sérac, l’uomo che il SID in un appunto del 16 dicembre 1969 accusa di essere la mente degli attentati del 12 dicembre 1969[18].

 

   Ai documenti di questa agenzia di stampa un po’ speciale si interessa ben presto la Commissione per lo smantellamento della PIDE; l’inchiesta, nell’estate 1974, viene affidata a un suo membro, il comandante di marina Costa Coreia, poi, qualche mese dopo, all’SDCI (Servizio di acquisizione dell’informazione), i nuovi servizi d’informazione portoghesi dipendenti dalla Quinta divisione, l’ufficio informazione e propaganda del Movimento delle forze armate.

 

   Secondo i risultati di questa inchiesta Aginter era fino al 25 aprile 1974 un centro di sovversione fascista internazionale finanziato dal governo portoghese e da ambienti di estrema destra francesi, belgi, sudafricani e sudamericani.

 

   Dietro l’agenzia di stampa si celavano:

–         Un centro spionistico coperto dei servizi segreti portoghesi e legato, loro tramite, ad altri servizi segreti occidentali: la CIA, il KYP greco, la DGS spagnola, il BOSS sudafricano, le reti tedesco-occidentali Gehlen ecc.;

–         Un centro di reclutamento e addestramento di mercenari e terroristi specializzato in attentati e sabotaggi (documenti scoperti negli archivi assicurano un vero e proprio insegnamento teorico e pratico in materi di guerriglia, terrorismo e spionaggio);

–         Infine, un’organizzazione fascista internazionale denominata Ordre et Tradition e il suo braccio militare, l’OACI (Organisation d’action contre le communisme international).

 

   L’Agenzia internazionale di stampa Aginter Presse viene fondata nel settembre 1966 a Lisbona da un gruppo di francesi che vivono in Portogallo.

 

    Il suo direttore, Ralf Guérin Sèrac, era arrivato nella capitale portoghese del 1962. Allora si chiamava Yves Guillou. Era capitano dell’esercito francese e il prototipo dell’ufficiale perduto, nato nel 1926 a Plouzbere, in Bretagna, in una famiglia molto cattolica, nel 1947 entra nell’esercito. Nel 1951 serve nel corpo di spedizione francese di Corea, il che gli valse la medaglia delle Nazioni Unite e la Bronze Star americana; poi, nel 1953, combatte nei Berretti neri in Indocina, dove guadagna due ferite, la Legion d’onore a 27 anni, la croce di guerra con citazione ecc. Infine, è l’Algeria.

 

    Nominato capitano il 1° aprile 1959, Guillou viene assegnato all’undicesimo choc, un corpo di paracadutisti messo a disposizione dell’ufficio “azione” dello SDECE (Service de documentation extérieure et de contre-espionnage), i servizi segreti francesi. Nel febbraio 1962 diserta e, dopo aver abbandonato il suo posto al terzo commando dell’11° choc a Orano, all’OAS. Del suo ruolo nell’esercito clandestino non si molto, che è alla testa di un commando nella regione di Orano. Nel giugno 1962, alla dichiarazione d’indipendenza dell’Algeria, si rifugia dapprima in Spagna e in seguito offre i suoi servigi all’ultimo impero coloniale che rappresenta ormai, per il francese, l’estremo baluardo contro il comunismo e l’ateismo: l’ateismo.

 

   A Lisbona Yves Guillou prende contatto con ambienti dell’immigrazione francese, alcuni membri dell’OAS che hanno scelto anche loro come rifugio la capitale portoghese e soprattutto un gruppo di ex pétainisti costretti dopo la liberazione all’esilio, per esempio il teorico nazionalista Jacques Ploncard d’Assac, il professor Jeane Haupt e qualche altro. Questa piccola comunità di fascisti dispone di una propria stampa e di proprie trasmissioni in lingua francese alla radio La Voix de l’Occident.

 

   Il capitano Guillou si chiama Ralf Guérin Sérac sarà dapprima ingaggiato come istruttore della Legione portoghese, un’organizzazione paramilitare che, creata nel 1935 sul modello delle SA tedesche e delle Camice nere italiane, a fianco della PIDE costituisce con i suoi 90.000 volontari in camicia verde il principale sostegno del regime fascista di Lisbona.

   In seguito, Guérin Sérac viene reclutato come istruttore delle unità antiguerriglia dell’esercito. Per diversi anni metterà quindi a profitto dei fascisti portoghesi l’esperienza di spionaggio e terrorismo acquisita nei reparti d’assalto in Indocina e Algeria e nell’OAS.

 

   Per incarico della PIDE e del Ministero della “Difesa” portoghese assieme ad altri ex membri dell’OAS che si erano rifugiati in Portogallo creerà una rete informativa in grado di operare nei paesi africani che ospitano i movimenti di liberazione delle colonie portoghesi. È a questo scopo che Guérin Sérac mise in piedi un’agenzia di stampa che servisse da copertura a un’organizzazione incaricata di infiltrarsi nei paesi africani.

 

   In realtà Aginter serve come doppia copertura, da un alto alle operazioni effettuate per conto dei portoghesi, dall’altro all’organizzazione politico-militare creata da Guérin Serac

Ordre et Tradition, e al suo braccio armato l’OACI.

 

   Sin dalla loro fondazione Aginter e Ordre et Tradition ricevono una calorosa accoglienza negli ambienti di estrema destra europei. Nel gennaio e alla fine di aprile del 1967 si tengono a Lisbona organizzate da Ordre et Tradition due riunioni internazionali. Alla prima partecipano rappresentanti di movimenti fascisti portoghesi, francesi, spagnoli, svizzeri, svedesi, tedeschi, argentini, e paraguaiani; alla seconda erano presenti esponenti dell’estrema destra belga, britannica e italiana (Ordine Nuovo). Aginter Presse può mettere in piedi una rete di informatori e corrispondenti. L’agenzia ha già ricevuto a questo scopo un aiuto prezioso dalla stazione radiofonica La Voix de l’Occident, il cui direttore dei programmi, Maria de Paz, ha messo a disposizione di Aginter tutti gli schedari e le informazioni in possesso della radio. Inoltre, l’agenzia ha ottenuto lo schedario di Agora la più importante rivista fascista portoghese.

 

   Per non dipendere completamente dai portoghesi, Guérin Sérac, e il suo gruppo prendono contatto anche con il governo sudafricano (loro intermediario è l’addetto stampa dell’ambasciata di Pretoria a Lisbona), il governo brasiliano e i governi della Rhodesia, del Vietnam del Sud e della Cina nazionalista.

 

   Aginter ha stretti legami, inoltre, con gli ambienti del cattolicesimo integralista. In Vaticano Ordre et Tradition può contare solide protezioni

 

   Torniamo adesso a Roberto Cavallaro e alla riunione sui monti Vosgi. Si era reso conto che quella riunione riservatissima, alla quale era stato invitato, era in parte presieduta da uno strano gruppo di “portoghesi” con l’accento francese.

 

  Buona parte degli incontri furono dedicati tema della guerra non ortodossa e sotterranea.

 

   Furono analizzate le situazioni dei di versi stati europei per quanto riguarda l’Italia, in questa riunione la situazione del paese era ritenuta instabile, poiché la fedeltà atlantica poteva essere compromessa, per questo motivo bisognava normalizzare la situazione interna del paese riducendo la forza di impatto della sinistra.

 

   Cavallaro ebbe l’impressione che a questa riunione partecipavano esponenti dei servizi segreti d’oltrecortina. In sostanza pensa che vi sia stata in quel periodo, un accordo tra Occidente e Oriente al fine di reprimere in patria, le rispettive dissidenze.[19]

 

   Ma se l’Europa doveva essere pacificata, ma in che modo? Fu In quest’ottica che gli organizzatori dell’assise cominciarono a parlare di un immenso piano operativo, le cui conseguenze sarebbero state ben presto sotto gli occhi si tutti: l’operazione Blue Monn.

 

   Dice a proposito Cavallaro: “L’operazione Blue Monn aveva uno scopo molto semplice. Si trattava di fiaccare la combattività dei movimenti studenteschi europei attraverso l’introduzione delle sostanze stupefacenti nel mondo giovanile. Si parlò di un processo programmato, nel senso che sarebbero stati i servizi di sicurezza a stabilire quali sostanze sarebbero state utilizzate, e quali quantità. La regia non era europea, ma statunitense: le direttive provenivano direttamente da Washington. Non si trattava di un piano per il futuro, e neppure mere ipotesi strategiche. L’operazione Blue Monn, a quanto ci fu fatto capire durante quell’incontro, era già perfettamente in atto[20].

 

   A metà degli anni Settanta quando Bruno Blumir e agli attivisti della controinformazione avevano iniziato a redigere i loro dossier, le rivelazioni di Roberto Cavallaro erano ancora lontane. Eppure, gli scenari, il coinvolgimento dei servi<i in operazioni legate al traffico di droga, erano già delineati. Il capitano Giancarlo Servolini non era forze un uomo del servizio segreto militare? E il Palfium la morfina sintetica non veniva forze prodotto nei laboratori delle Forze Armate? Non è forse vero, stando alle ricostruzioni dei militanti della controinformazione, che i primi spacciatori di morfina lavoravano per conto e con la protezione delle forze dell’ordine?

 

   Quale fu il ruolo di Aginter Press nello sviluppo dell’operazione Blue Moon? Che compiti ebbero gli uomini di Guérin Sérac? A queste risposte cercheranno di rispondere, nel 1996, i carabinieri del Reparto eversione, su mandato del giudice Salvini. Ne scaturirà un lungo documento di centodiciotto pagine dal titolo decisamente impegnativo: Annotazione sulle attività di guerra psicologica e non ortodossa (psycological and low density warfare) compite in Italia tra il 1969 e il 1974 attraverso l’Aginter Presse[21].

 

   Studiando i documenti desegretati dall’amministrazione Clinton, gli investigatori dell’Arma cercheranno di ricostruire il lungo rapporto tra i servizi segreti USA e le sostanze psicotrope, a cominciare dalla famigerata operazione MK-ULTRA, autorizzata dalla CIA nel 1953. Lo scopo era semplice: testare gli effetti delle droghe sulla mente umana, al fine di ottenere il controllo mentale sugli agenti nemici. Il piano prevedeva sperimentazioni a tappeto su cavie inconsapevoli, che venivano selezionate nei college, negli ospedali e nelle prigioni.

 

   Con l’avvento della contestazione, l’intelligence di Washington, stando ai documenti, avrebbe iniziato a teorizzare la possibilità di indirizzare le sostanze stupefacenti come forma di controllo della rivolta.

 

   Scrivono i carabinieri del Reparto eversione nel loro rapporto: “L’uso dell’LSD, frutto di un ventennio di sperimentazioni è ben chiaro in un documento Cia del 4 settembre 1970, ove, a fronte della impressionante estensione della protesta studentesca per la guerra del Vietnam, il Dipartimento della difesa suggerisce nuovi metodi di contenimento della violenza politica. Vi si afferma che la tendenza dei moderni metodi di polizia e bellici è quella di incapacitare reversibilmente e demoralizzare, piuttosto che uccidere, il nemico. Si sostiene che con l’avvento di potenti prodotti naturali, droghe psicotrope e immobilizzanti, sia nata una nuova era nei metodi di applicazione della legge[22].

 

   Tutto ciò sembra confermare la ricostruzione secondo la quale l’invasione di droga tra i giovani negli anni Sessanta sarebbe stata programmata da organizzazioni come Aginter Presse con il rapporto dei servizi segreti, i primis quelli americani.

 

   Nel 1978, a Lucca, furono arrestati cinque militanti di Azione Rivoluzionaria, un gruppo di ispirazione anarchica. Nelle tasche di uno di loro venne ritrovata una mappa dettagliatissima di un campo militare libanese, con tanto di parola d’ordine d’ingresso. Da dove proveniva quei fogli? Sal carcere di Bologna, e più precisamente dalla cella di prigioniero americano: il quarantenne Ronald Hadley Stark.

 

   Stark, era stato arrestato nel 1975 in un albergo del capoluogo emiliano, dove risiedeva sotto falso nome, con indosso ingenti quantitativi di droga e documenti contraffatti. Aveva oltre venti pseudonimi, di cui quattro italiani. Diceva di essere nato in Palestina e negli ultimi tempi approfittando della detenzione, aveva stretto rapporti con i leader della Brigate Rosse, a cominciare da Renato Curcio. Eppure, Ronald Stark, era tutto fuorché un comunista. Avrebbe lavorato sotto copertura per conto della CIA, anche la cosa non è mai stata provata. Ci sono tuttavia alcuni dati certi – come riportato dal dossier del Reparto eversione – che “la sua appartenenza, negli anni 1960-’62, al Dipartimento della difesa degli Usa. (…) Un tessuto di rapporti con autorità diplomatiche e consolari statunitensi anteriori alla sua detenzione, ma mantenuti durante la stessa; il periodico versamento in suo favore di somme di denaro proveniente da Fort Lee, conosciuta come sede della Cia; che il passaporto inglese, non falsificato, di cui era in possesso, non risulta né smarrito né rubato al suo apparente titolare[23].

 

  Uno degli uomini arrestati con Stark, tale Franco Buda rivelerà alle forze dell’ordine una serie di altre informazioni: dirà, per esempio, che l’americano era un noto trafficante di droga, che ricchissimo e aveva a disposizione ogni genere di sostanza, a partire dalla famigerata STP[24], che per alcuni era l’anagramma di Super Terrific Psychedelic e si diceva cento colte più potente dell’LSD. Buda aggiunse poi che Stark veniva finanziato da un’organizzazione per forzare una tipica controcultura con gli acidi.  

 

   Tentativi di infiltrazione nella sinistra rivoluzionaria, contatti organici con il mondo dei servizi segreti, traffico di droga: è un modulo piuttosto consolidato. Chi era veramente Ronald Stark? Scavando negli archivi, i militari dell’Arma riesumano una vecchia intervista allo scienziato Tim Scully[25], che era diventato un militante del movimento psichedelico e paladino dell’LSD. Negli anni Sessanta Scully aveva aderito alla Fratellanza dell’amore eterno, la cosiddetta “mafia hippy”: un’organizzazione californiana con legami con l’estrema sinistra che propugnava la proliferazione delle sostanze psichedeliche attraverso l’istituzione di un network internazionale di produttori.

 

   Scrivono i carabinieri: “Secondo Scully, nel 1969 un emissario di Stark si presentò a Willi Mellon Hitchcock, altro esponente della cultura psichedelica, in possesso di notevoli disponibilità finanziarie. L’emissario si presentò come inserito in una grossa operazione francese concernente l’Lsd e Hitchcock, molto vicino alla Fratellanza, lo presentò ai dirigenti dell’organizzazione”[26]. Stark arrivò all’incontro portando con sé un chilogrammo di LSD purissima, affermando di avere scoperto un metodo nuovo e veloce per produrre sostanze ad altissimi standard qualitativi. La cosa dovette impressionare non poco gli astanti, perché da allora in poi – e fino allo scioglimento dell’organizzazione, nei primi anni Settanta – Stark ricoprì il ruolo di “manager finanziario per le operazioni illecite della Fratellanza”.

 

   Si legge nel documento redatto dagli investigatori dell’Arma: “Stark aveva interessi in ogni continente, e si muoveva di mantenere svariate identità con l’impressionante capacità di mantenere compartimentata ciascuna di esse. Sosteneva di sapere esattamente ciò che avveniva nel mondo dello spionaggio e diceva di conoscere molti agenti. Alcuni dei suoi amici, presentati alla Fratellanza, si vantavano di essere lavorare per la Cia. Egli spiegò di aver dovuto cessare un’operazione francese per odirne della Cia nel 1971[27].

 

   Più o meno nello stesso periodo, il misterioso trafficante aprì a Bruxelles un laboratorio segreto nel quale produsse, nel giro di due anni, ben venti chilogrammi di LSD, pari a cinquanta milioni di dosi. Il laboratorio – come appuntato dai carabinieri – fu perquisito nel 1972 dagli agenti del BNDD (l’agenzia USA che si occupa della lotta agli stupefacenti), il braccio destro di Ronald Stark, il chimico Richard Kemp, venne arrestato nel 1977 da Scotland Yard: fu in seguito dimostrato che era il responsabile del cinquanta per cento della produzione mondiale di LSD nella metà degli anni Settanta[28].

 

   Dopo i vari tentativi di infiltrazione nella sinistra rivoluzionaria italiana, Ronald Stark si ritirerà nelle Antille, dove morirà in circostanze mai chiarite nel 1984, nel 1984.

 

 

   

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1] Daniele Biacchessi, Fausto e Iaio La speranza muore a diciotto anni, Baldini<<<6Castoldi s.r.l., Milano, 2015, seconda edizione, p. 65.

[2]                                                                   C.s. p.68

[3]                                                                 C.s.  p.70 

[4]   Parte civile per la famiglia Tinelli.

[5] Intervista resa a Daniele Biacchessi nel 1995.

[6]                                         C.s.

[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Movimento_di_Azione_Rivoluzionaria

[8] Daniele Biacchessi, Fausto e Iaio La speranza muore a diciotto anni, Baldini<<<6Castoldi s.r.l., Milano, 2015, seconda edizione, p.78

[9] Stefania Limiti, Poteri occulti, Rubbettino Editore, 2018, P.e. 27-28.

[10] La demonizzazione degli spinelli, a conti fatti, aprì la strada all’avvento delle droghe pesanti. Era il cosiddetto “effetto scare”, l’effetto terrore, che il direttore della Do It Now Foundation, Victor Pawlak, riassumerà in queste parole: “Nella storia della droga in America abbiamo visto che il consumo di certe sostanze ha avuto dei picchi provocati, praticamente ogni volta, da qualche campagna di stampa che ha provocato il panico nella popolazione adulta e una curiosità artificiale nella popolazione giovane”.

[11] Servolini avrebbe partecipato, di lì a pochi mesi, al tentato golpe di Junio Valerio Borghese (il cui proclama alla nazione parlava esplicitamente di un’Italia “popolo di drogati, devastata dagli stupefacenti e dal comunismo”).

[12] Andrea Seresini, INTERNAZIONALE NERA la vera storia della più misteriosa organizzazione terroristica europea, Chiarellettere, Milano, 2017, P.e 72-73.

[13]                                                    C.s. p. 74

[14] Guarda caso coincide il periodo con lo sviluppo dei mari movimenti di lotta nei vari strati sociali della società e alla radicalizzazione della lotta di classe e dell’autonomia proletaria (nel 1972 ci fu l’occupazione della FIAT da parte degli operai).

[15] Andrea Seresini, INTERNAZIONALE NERA la vera storia della più misteriosa organizzazione terroristica europea, Chiarellettere, Milano, 2017, P.e 74-75.

[16]                                                   C.s.  p. 77

[17] L’organizzazione Rosa dei Venti, sulla quale si concentrarono le indagini di Tamburino, era solo una branca dei Nuclei di difesa dello Stato. Il gruppo eversivo venne sgominato in seguito alla cattura di Cavallaro e alle sue rivelazioni, che portarono all’arresto dell’ufficiale veronese Amos Spiazzi, indicato dagli inquirenti come uno dei leader operativi della struttura. Le indagini giunsero a coinvolgere, tra gli altri anche il capo del SID, il generale Vito Miceli, e alcuni tra i massimi esponenti delle Forze Armate. Addirittura, si giunge a ipotizzare l’incriminazione del presidente statunitense Richard Nixon, i cui uomini avrebbero retto le fila dell’intero complotto. In seguito, il procedimento fu trasferito a Roma, dove fu accorpato al processo per il golpe Borghese: alla fine, tutti gli imputati furono assolti.

[18] https://leg13.camera.it/_dati/leg13/lavori/doc/xxiii/064v02t02_RS/00000027.pdf

https://www.jstor.org/stable/20567007

[19] Andrea Seresini, INTERNAZIONALE NERA la vera storia della più misteriosa organizzazione terroristica europea, Chiarellettere, Milano, 2017, P.e 79 -81.

[20]                                             C.s. P.e.81-82.

[21] (PDF) Annotazione sulle attività di guerra psicologica e non ortodossa – DOKUMEN.TIPS

https://drive.google.com/file/d/0B7srLT3vW5cadTJocUJKT1RjUlE/view?resourcekey=0-V_wzUU3OZvv9bjmTXI4nGg

[22]                                           C.s.

[23]                                          C.s.

[24] Il DOM, chiamato anche STP, deriva dal trattamento chimico di composti anfetaminici con la mescalina. Si presenta sottoforma di polvere incolore e inodore ed è confezionato in compresse e capsule di varie dimensioni. https://www.carabinieri.it/in-vostro-aiuto/consigli/questioni-di-vita/tossicodipendenza-da-sostanze-stupefacenti/le-principali-droghe#:~:text=Il%20DOM%2C%20chiamato%20anche%20STP,e%20capsule%20di%20varie%20dimensioni.

 

[25] Robert “Tim” Scully (1944-) è un ingegnere informatico americano, meglio conosciuto nell’underground psichedelico per il suo lavoro nella produzione di LSD dal 1966 al 1969, per il quale è stato incriminato nel 1973 e condannato nel 1974. https://en.wikipedia.org/wiki/Tim_Scully

[26] Andrea Seresini, INTERNAZIONALE NERA la vera storia della più misteriosa organizzazione terroristica europea, Chiarellettere, Milano, 2017, P. 86.

[27]                                                             C.s. P. 87.

[28] https://guidosalvini.it/wp-content/uploads/2018/10/LAginter-Press-e-il-Piano-Caos-relazione-ROS-Carabinieri-Roma-26-luglio-1996.pdf

~ di marcos61 su aprile 13, 2024.

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