LA DISTRUZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO IN ITALIA

  L’origine dell’attacco alle condizioni materiali di esistenza delle masse popolari da parte della Borghesia Imperialista che ha portato nel nostro paese la distruzione del diritto del lavoro è la crisi del sistema capitalista iniziata all’incirca alla metà degli anni Settanta. La caratteristica di questa crisi si possono riassumere nel fatto che la crisi è generale (cioè nasce come crisi economica e poi si trasforma in crisi politica e culturale), di lunga durata e coinvolge tutto il mondo, cioè riguarda, sia pure con tempi e intensità diversa, tutti i paesi del mondo.

   È di dominio pubblico che i paesi semicoloniali e dipendenti vengono ricolonizzati, che i governi raddoppiano e triplicano i prezzi dei beni essenziali,  che milioni di persone sono cacciate dai loro paesi e costrette all’emigrazione.

   In Italia nel periodo che va dall’inizio degli anni Novanta (dove – non certamente a caso – ha operato in funzione di guerra ortodossa la Falange Armata) fino ad oggi, è stato anche (e non sarà certo un caso) quello della demolizione del diritto del lavoro e delle conquiste che i lavoratori italiani le avevano ottenute dal secondo dopoguerra dopo dure lotte.

   C’è stato anche il cambiamento del significato delle parole in uso. Fino all’altro ieri per riforme s’intendeva miglioramento (certamente graduale) delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, da un certo periodo in poi ha solamente significato un continuo e costante peggioramento. Se poi ci si opponeva a tali “riforme” ci si tirava dietro l’accusa di essere “conservatori” che si oppongono al “progresso”.

   Quest’attività di “riforma” e di abolizione del diritto del lavoro è stata portata avanti con l’apporto dei partiti di sinistra (compresi quelle definiti “radicali” come Rifondazione) e dai sindacati confederali.

   Ci sono state due modalità diverse per portare avanti questo tipo di attacco ai diritti dei lavoratori:

  • Da parte dei governi di Centro-Sinistra la “riforma” del diritto del lavoro deve avvenire di concerto con i sindacati confederali in modo da farla accettare ai lavoratori senza alcuna protesta.
  • L’orientamento dei governi di Centro-Destra, invece, prevedeva più l’immediato e diretto intervento del potere legislativo.

   In effetti, queste cosiddette “riforme” sono avvenute in prevalenza mediante accordi sindacali che, una volta consolidati ed evitato la protesta dei lavoratori, alla fine sono state consolidate.

   Agli accordi sindacali, è stato attribuito un vero e attribuito un vero e proprio ruolo normativo.

   Un esempio. In maniera di contratti a termine, la legge n. 56 del 1987 riconosceva ai sindacati la possibilità di derogare in peggio il divieto di apposizione del termine. Con tali accordi, il termine si poteva apporre liberamente ed anche all’attività ordinaria. In pratica, con gli accordi sindacali si legalizzava la violazione della legge. Una volta consolidatigli accordi ed evitato la protesta dei lavoratori, nel 2001 è stata emanata la nuova normativa sulla liberalizzazione del contratto a termine.

   Per il resto, basta confrontare la successione dei contratti collettivi per comprendere facilmente come i sindacati sottoscrittori hanno gradualmente introdotto la flessibilità e compresso, se non abolito, i diritti dei lavoratori.

   Il ruolo di CGIL-CISL-UIL è stato quello di far passare la “riforma” in peggio dei diritti dei lavoratori in silenzio e senza sorprese.

   A garanzia di tale ruolo, l’ordinamento e la giurisprudenza hanno riconosciuto a tali sindacati l’esclusivo riconoscimento di rappresentatività per legalizzare la loro preminenza rispetto a sindacati molto più conflittuali di loro.

SULLA FLESSIBILITA’

   La flessibilità la si fa ma non si dice. In 1.127 accordi sindacali sottoscritti tra il 1990 e il 1995 la parola compare solo su 137 documenti mentre esiste nei fatti molto di più di quanto compariva nei testi che venivano poi modificati. Flessibilità soprattutto negli orari. Ciò costituisce una linea guida che poi scatterà anche in tema di salario.

   Gli accordi gradino prevedono salari inferiori ai minimi previsti dai contratti.

   Un accordo gradino è stato stipulato nell’estate del 1996 per i tessili e costituisce una clausola aggiuntiva inserita nel C.C.N.L. del 1995. Con l’affermazione che “Gli accordi gradino salvano posti di lavoro e fanno aumentare al sindacato la presenza nei posti di lavoro” (Antonio Megale della CGIL Tessili). In sostanza sindacati e imprenditori tessili sono concordi nel ritenere che la clausola dei tessili dimostra l’approccio alle deroghe salariali risulti più efficace se affidato alle singole categorie e non imposto con intese centralizzate troppo condizionate da querelle politiche. Quello dei tessili è stato uno dei settori apripista nell’emersione del sommerso: nel 1996 aveva 30.00 addetti; 2.000 aziende; 10.000 addetti già emersi; 70 aziende emerse nel leccese, 20 a Martina Franca.[1]

   Altri accordi “brillanti” sottoscritti nel 1996: la CISL sigla un accordo territoriale a Brindisi in base al quale le nuove aziende possono pagare salari inferiori ai minimi contrattuali. La Barilla sottoscrive delle intese con i sindacati in base alle quali il personale è retribuito con un gradino inferiore a Melfi e Foggia. Il Contratto Collettivo nazionale del Legno prevede per i nuovi assunti stipendi inferiori del 20%. Mentre il Contratto Collettivo nazionale Lapidei e manufatti hanno allungato il periodo di avviamento da due a cinque anni.[2]

I   n base all’art. 36 della Costituzione, ogni lavoratore deve percepire una retribuzione in misura comunque sufficiente per garantire una vita libera e dignitosa per sé e alla sua famiglia. Tale misura è stata individuata nei minimi sindacali stabiliti dalle singole contrattazioni collettive nazionali.

   Il primo intervento per ridurre la retribuzione dei lavoratori è stato quello di non aumentare più i suddetti minimi, ormai fermi da oltre venti anni. Ciò è avvenuto con la complicità dei sindacati confederali e dei governi di Centro-Sinistra (con dentro la sinistra cosiddetta “radicale”).

   Le altre azioni sono state le più svariate.

   Con gli accordi gradino, come si diceva prima, è stato previsto un salario d’ingresso inferiore per i primi anni di lavoro. Questo tipo di azione, essendo anticostituzionale per violazione del diritto di uguaglianza, era prevista solo per qualche anno e in via transitoria invece dura dal 1990 perché è sempre stata prorogata.

   Con la leggi sui Lavoratori Socialmente Utili (LSU) di cui il decreto legislativo 468/98, lo Stato e gli enti pubblici possono assumere personale precario senza tutele e con garanzie ridottissime per la realizzazione di opere o fornitura servizi, con contratti temporanei e a scadenza. L’art. 8 esclude espressamente che tale personale possa essere considerato come lavoratori subordinati.

   Con i Contratti d’Area e i Patti Territoriali si sono introdotte forme di assunzione e retribuzione precaria. Nonostante tali azioni consistano in strumenti di finanziamento statale delle attività produttive, con il beneplacito di CGIL-CISL-UIL sono state introdotte politiche per la riduzione dei salari e per nuove forme di lavoro meno garantito e meno tutelato. I Contratti d’Area sono previsti dall’accordo per il lavoro del 24.09.1996 (Governo Prodi) per le aree industriali in crisi e ad alto tasso di disoccupazione, mentre i Patti Territoriali sono stati introdotti con le leggi nn. 104/95 e 662/96 per tutto il territorio. In realtà questi strumenti che riducono le tutele dei lavoratori sono stati applicati anche in zone non in difficoltà, come Pavia, Trieste, Crema. Un posto di lavoro creato con tali strumenti costa allo Stato 300.000€, quindi per gli imprenditori è quasi a costo zero. Ciò ha prodotto nuova occupazione precaria e con reddito insufficiente ed è stata un’operazione di sostituzione dei lavoratori a costo intero con quelli a costo ridotto.

   Con l’uso indiscriminato dei Contratti di Formazione si è provveduto all’assunzione finanziata di lavoratori per un massimo di due anni con il ricatto per essere confermato il rapporto a tempo indeterminato.

   Ora l’istituto è stato sostituito con le varie forme di apprendistato della durata di quattro anni ed applicabile liberamente anche a lavoratori qualificati (ingegneri, tecnici ecc.). Come apprendisti, i lavoratori svolgono un lavoro qualificato ma sono retribuiti secondo livelli d’inquadramento inferiori.

Per quanto riguarda, la flessibilità occupazionale che abolisce la garanzia di stabilità con il Decreto Legislativo 368/2001 e la Legge 133/2008 è stata introdotta la libertà dei Contratti a termine con i quali si ottiene lo stesso risultato della totale libertà di licenziamento in favore dei padroni: stipulando ripetuti contratti a termine o brevissimo termine mensile o settimanale il lavoratore deve sottostare ai ricatti datoriali, per non ottenere il rinnovo e rimanere disoccupato e senza reddito.

   Con la legge 428/90 è possibile licenziare i lavoratori in caso di cessione di azienda per assumere altri a condizioni più svantaggiose.

   Nei casi in cui non interessa la cessione di azienda, la flessibilità è attuata mediante la pratica dello “svecchiamento” che consiste nel porre in cassa integrazione i lavoratori garantiti per indurli alle dimissioni stante il ridotto ammontare dell’assegno rispetto allo stipendio ed i limiti imposti al cassintegrato. I lavoratori con maggiore anzianità sono posti in mobilità lunga per la pensione anticipata. In entrambi i casi, cassa integrazione e mobilità con prepensionamento, i costi sono a carico dello Stato e il datore si libera di quei lavoratori garantiti per assumere nuovo personale a condizioni peggiori.

   Con l’operazione “svecchiamento” il datore di lavoro ottiene anche un altro obiettivo: liberarsi del personale “anziano” anche se efficiente per assumere personale giovane, “fresco” di studi, proprio come avviene con un computer funzionante ma sostituito con un altro di ultima generazione.

La legge Biagi del 2003 ha introdotto ulteriori forme di flessibilità, tra cui: contratti a progetto, a chiamata, lavoro intermittente, a somministrazione, ripartito, accessorio, il distacco, il trasferimento, appalto di manodopera, cessione di ramo d’azienda.

   Tutte queste tipologie comportano una retribuzione inferiore, un’insicurezza del posto di lavoro, la mancanza di copertura delle ulteriori forme di retribuzione, come quella collaterale e differita (tredicesima, quattordicesima, ferie, TFR), ed assicurativa (malattie, maternità, previdenza, indennità di disoccupazione).

   Fino alla serie di leggi che il Governo Renzi, ha varato che sono raggruppate col nome di Jobs Acts che sono un sistema di ricatto permanente a favore dei padroni e contro i lavoratori e le lavoratrici.

   Infatti, questo ricatto procede su due gambe: quella dei contratti a termine a casuali (per cui il padrone può assumere a termine quando vuole e per il tempo che vuole) e quella dei contratti a tutele crescenti (per cui il padrone può assumerne a tempo indeterminato, ma licenziare quando e come vuole pagando una miseria di indennità)

   Tutti questi interventi sindacali e legislativi hanno avuto come conseguenza che in Italia la forza lavoro è tonalmente svalorizzata. Con il ricatto della disoccupazione di massa e con il lavoro nero (che nella sostanza con questi interventi sopra descritti è stato legalizzato), il padronato ha abbassato anno dopo anno i salari.

   I bassi e bassissimi salari cono la carta che i padroni italiani e i loro governi giocano sul tavolo della competitività contro gli altri capitalisti europei e mondiali.

   Per questo motivo anche in città come Milano c’è gente che lavoro per 3-4-3 euro l’ora!

   Per questo motivo un fronte unitario di lotta e di massa dovrebbe battersi che ci sia una paga oraria che non sia inferiore a 9€ l’ora (niente di estremistico è la media della paga base oraria europea) e un salario minimo garantito per i disoccupati che non sia inferiore almeno a 1.250€ mensili.

   In sostanza bisogna combattere il sottosalario, contro la condizione sempre più schiavistica imposta dal padronato e dalle leggi dello Stato, contro l’attacco alla dignità dei lavoratori e delle lavoratrici.

INCIDENTI E INFORTUNI SUL LAVORO

   Secondo dati ufficiali (molto inferiori alla realtà) i morti ufficiali sul lavoro sarebbero oltre 1.000 all’anno. In questa cifra sono compresi solo i lavoratori che muoiono in seguito ad un incidente violento entro i primi cinque giorni.

   Sono quindi escluse, tutte le morti successive ai cinque giorni e quelle causate da malattie contratte sul lavoro.

   Perciò questo numero aumenterebbe a diverse migliaia di morti all’anno. Una vera propria guerra che la Borghesia sta effettuando contro i proletari.

   Qual è la causa degli incidenti sul lavoro e quali potrebbero essere le soluzioni?   Una delle cause è la mancata predisposizione di mezzi e sistemi infortunistici ritenuti dalle aziende troppo costosi oppure elementi che frenano la produttività. Il motivo fondamentale di quest’atteggiamento delle aziende risiede nella legge economica del sistema capitalistico della competitività: la riduzione dei costi di produzione.

   Non applicare mezzi e sistemi anti infortunistici significa risparmiare soldi, quindi aumentare i profitti.

   Un’altra causa è l’aumento dei ritmi di lavorazione. La produzione aumenta con l’aumento della velocità di lavorazione.

   È un dato economico che un prodotto è tanto più competitivo quanto viene fabbricato nel minor tempo possibile. La velocità della lavorazione, però, non permette di rispettare le regole di sicurezza. Non permette di effettuare un lavoro con attenzione e precisione. Ciò crea motivo di incidenti ed infortuni.

   Un esempio è quanto sì e registrato nei supermercati della grande distribuzione, dove i commessi dovevano correre su pattini a rotelle per rifornire gli scafali.[3]

   Inoltre, aumentare i ritmi di lavoro e ridurre e abolire le pause (si potrebbe definire il “modello Marchionne” fatto di diminuzione pause, cassa integrazione e straordinari)[4] ed i riposi, tutto ciò significa maggiore produzione ma anche maggiore rischio di incidenti per stanchezza e mancanza di lucidità.

   Egli ultimi anni è aumentato anche il numero dei lavoratori minorenni, finanche bambini. In Italia si stima che nel 2013 erano 260.000 i minori sotto i 16 anni coinvolti, più di 1 su 20.[5]

I minorenni sono i più esposti agli incidenti e alla contrazione di malattie professionali vista la loro debole condizione fisica e la mancanza di esperienza e preparazione professionale. E chi fa lavorare i bambini viola, la legge sul diritto del lavoro, figuriamoci quelle sulla sicurezza.

I governi italiani – nel 1997 quello di Centro-Sinistra (appoggiato da un grande “comunista” come Bertinotti) e nel 2003 quello di Centro-Destra hanno abolito il limite dell’orario giornaliero fissato nel 1924 in otto ore. In base alla legge n. 66/03, un lavoratore può essere obbligato anche 16 ore al giorno senza alcun aumento di retribuzione. Quello che non ha fatto il fascismo storico al governo (ma all’epoca c’era un Movimento Comunista Internazionale degno tal nome con dirigenti come Lenin non intellettuali da salotto arrivati ai posti dirigenti grazie ai revisionisti come Ingrao), lo ha fatto il tecno-fascismo attuale con la complicità di tutti i partiti politici di centro, destra e della sinistra borghese (e dei sindacati che praticano la collaborazione di classe).

   Il limite della giornata di 8 ore è stata una grande conquista dei lavoratori sugellata con gli eccidi proletari del 1° maggio.

   La richiesta di limitare la giornata lavorativa al massimo di otto ore era motivata che più ore di lavoro provocavano maggiore stanchezza psico fisica. A causa della stanchezza avvenivano maggiori incidenti.

   La stessa legge n. 66/30 che ha abolito le otto ore, prevede che possono beneficiare di una pausa di 15 minuti per il riposo solo coloro che svolgono un lavoro ripetitivo e solo dopo le prime sei ore di lavoro. Pausa che non costituisce un diritto del lavoratore ma una concessione del datore di lavoro. Se il lavoratore decide di utilizzare la pausa dopo sei ore di lavoro contro la volontà del datore di lavoro, è passibile di sanzione disciplinare per insubordinazione che può essere punita con il licenziamento.

   È chiaro che il lavoratore evita di riposarsi per non perdere il posto di lavoro.

   Ma è anche chiaro che la stanchezza e la perdita di lucidità provocano incidenti la cui colpa viene posta sempre a carico del lavoratore, ritenuto disattento.

   Questi sono gli effetti della legislazione italiana.

   Pertanto, non si può parlare di soluzione della problematica degli infortuni se non si aboliscono queste leggi, se non si abolisce la legge n. 66/03, se non si affronta la questione dei ritmi di lavoro.

   Le imprese, per risparmiare sui costi, non predispongono adeguati mezzi, né attrezzature antiinfortunistiche. Sempre per risparmiare sui costi, gli imprenditori assumono personale non specializzato e senza esperienza in modo da pagarli di meno. La mancanza di conoscenze e d’informazioni è una causa degli incidenti.

   Le imprese che ricorrono maggiormente a questi espedienti sono quelle pressate dal contenimento dei costi rispetto agli introiti stabiliti da un appalto.

   Il prezzo con cui un’impresa concorre per l’aggiudicazione di un appalto è frutto di un calcolo complessivo dei costi di esecuzione. Quanto più riduce i costi, maggiore è la possibilità di aggiudicarsi la gara di appalto.

   I costi che in genere sin riducono sono proprio quelli destinati alla sicurezza poiché ritenuti non produttivi. La conseguenza è l’esposizione agli incidenti.

   Esposizione che aumenta vertiginosamente con i subappalti. In questi casi la riduzione del costo dei costi è ancora maggiore perché il subappaltante ottiene per il medesimo lavoro un prezzo di prezzo di appalto minore. Il subappaltante per ricavare degli introiti deve risparmiare sui lavoratori e sulla loro sicurezza.

   Appare chiaro che un terreno di lotta sta nell’abolire tutte le leggi e le norme che permettono il subappalto e disporne il divieto totale.

   Il subappalto è stato sempre una causa degli incidenti sul lavoro, inoltre, ha fatto riemergere la figura del caporale che era stata vietata dalla Legge 1369/60.

   Ebbene, prima della Legge Treu (approvato da quel grande “rivoluzionario” che era Bertinotti), poi con la Legge Biagi si è abolita la Legge 1369/60 e liberalizzato gli appalti e i subappalti di manodopera e legalizzato in sostanza il caporalato con il lavoro interinale e a somministrazione.

   I lavoratori assunti con contratti flessibili e precari, come il lavoro a termine, part time, a progetto, a chiamata ecc. sono maggiormente esposti agli infortuni. La loro condizione di riscattabilità li obbliga a non protestare e ad accettare lavorazioni pericolose o, comunque faticose, compresi i ritmi elevati e senza sicurezza.

   Pertanto, non è vero che le istituzioni vogliono eliminare le stragi sul lavoro. I partiti e i governi sono stati promotori (o comunque non si sono contrapposti) di leggi che facilitano e aumentano gli incidenti sul lavoro.

   Quindi, finché esisterà questo sistema economico che si basa sullo sfruttamento delle persone, il problema degli infortuni non sarà mai risolto ed i lavoratori saranno destinati a rischiare la vita.

   Ma, intanto è importante ed obbligatorio combattere affinché siano abolite tutte quelle leggi che facilitano gli incidenti e gli infortuni. Quindi occorre immediatamente ottenere l’abolizione della legge n. 666/03 e ristabilire l’orario massimo di lavoro a otto ore per cinque giorni a settimana (e ovviamente se si hanno i rapporti di forza sufficienti lottare per ulteriori riduzioni di orario senza perdita di salario); l’abolizione delle leggi che permettono il subappalto e stabilire il divieto dell’appalto di manodopera e del caporalato; l’abolizione totale della legge Treu e della legge Biagi; l’abolizione della Jobs Act e di ogni forma di precarietà e flessibilità del lavoro.

   Il prezzo che i lavoratori stanno pagando non è solo una retribuzione inferiore o il licenziamento, ma la loro sopravvivenza fisica.

LA DELOCALIZZAZIONE DELLE IMPRESE

   Gli imprenditori italiani hanno deciso di confermare la loro politica aziendale che prevede il licenziamento degli operai, la chiusura delle fabbriche in Italia ed il loro trasferimento nel Tricontinente o nei paesi dell’ex “campo socialista” (pensiamo che al 31 dicembre 2014 risultavano in Romania ben 18.433 imprese italiane).[6]

   Questa politica di licenziamento e trasferimento delle fabbriche è a completamento di quanto gli industriali hanno già fatto negli anni ’90 e che ha comportato il licenziamento di migliaia di lavoratori.

   Tutto questo è avvenuto ed avviene nonostante l’aumento delle commesse e la concessione di enormi benefici e finanziamenti pubblici in favore degli industriali per garantire l’occupazione.

   Le imprese italiane, infatti, hanno beneficiato di enormi aiuti finanziari e agevolazioni per creare e mantenere l’occupazione in Italia. La concessione di finanziamenti, immobili, stabili, infrastrutture, macchinari, sgravi fiscali, è stata la costante di questi aiuti.

   Quasi sempre gli industriali occupavano un numero di dipendenti inferiore a quello per cui beneficiavano degli aiuti.

   Spesso gli industriali, cambiando solo il nome dell’impresa e mantenendo le medesime strutture, macchinari e dipendenti, beneficiavano di ulteriori finanziamenti come se fosse una nuova azienda che dava occupazione.

   In maniera ricorrente, gli industriali assumevano i lavoratori con contratti precari per risparmiare sul costo della manodopera. Molte volte si è scoperto il pagamento con la doppia busta paga: una fittizia secondo i minimi salariali quale documentazione per ottenere i benefici pubblici e un’altra reale, riportante un importo inferiore che era corrisposto al lavoratore.

   A partire dal 1993, gli industriali italiani hanno cominciato a trasferire la produzione all’estero (coincidente l’aperta e dichiarata restaurazione capitalista nei paesi dell’Est), iniziando dall’Albania (storico terreno di caccia dell’imperialismo italiano), grazie ad accordi e concessioni effettuati dal governo italiano.

   In conformità a questi il governo italiano finanziava la chiusura degli stabilimenti in Italia, finanziava l’apertura all’estero. Lo Stato italiano, sempre in conformità a questi accordi, non richiede agli industriali nemmeno le tasse e i dazi di ritorno dei prodotti dall’estero. L’operazione è chiamata TPP (Traffico di perfezionamento Passivo).

   Con successivi accordi governativi, gli industriali hanno aperto stabilimenti, nell’Est Europa, in America Latina, in Africa e in Asia.

   Il principale, se non unico, motivo del trasferimento è costituito dallo scorso costo della manodopera. In Albania un operaio è pagato sulla media tre euro il giorno, mentre in Bulgaria (sempre sulla media) con soli 70 centesimi

   Non c’è mai stata nessuna riduzione delle commesse. La crescita delle imprese e la produzione. È aumentata la percentuale di vendita del prodotto, e i mercati, con relativo aumento di fatturato, di capitale e di profitto (ma di posti di lavoro in Italia).

   Anzi. Le aziende del settore interessato che nel 1990 avevano in tutto 700.000 operai in Italia, fino al 1998 hanno portato all’estero la lavorazione, operando 330.000 licenziamenti.

   Gli industriali non solo non hanno portato il lavoro fuori dall’Italia, ma non hanno fatto rientrare nel paese i profitti ottenuti. Questi profitti prendono la via dei paradisi fiscali, dei fondi pensione, dei fondi di investimento in altri paesi.

   La delocalizzazione ha coinciso largamente con l’esplosione della “fuga dei capitali all’estero”. Dei profitti ottenuti, solo nel 1998 sono stati esportati all’estero 80 mila miliardi di lire, pari a 41 miliardi di euro.

   Nei primi anni della delocalizzazione, gli industriali avevano mantenuto in Italia il 40-50% della produzione solo per limitare il rischio che si poteva determinare dalla realizzazione produttiva in paesi istituzionalmente ed economicamente non ancora sicuri (cosiddetto rischio Paese).

   Tale margine d’insicurezza è stato ridotto e quasi eliminato mediante l’intervento e la presenza militare italiana. Le forze speciali dell’esercito, dietro la scusa delle missioni di pace, garantiscono all’estero gli affari degli industriali italiani. Non è un caso che i militari italiani sono presenti in almeno 36 paesi e si parla addirittura, di sottoporli al comando del Ministero degli Esteri quale strumento di politica di espansione internazionale. La Marina Militare Italiana garantisce la scorta del trasporto merci.[7]

   Ora gli industriali che si apprestano a traferire quasi tutta la produzione lasciando in Italia solo il ciclo a più alto valore aggiunto (design, marketing ecc.).

   Oltre al trasferimento delle produzioni di beni si stanno delocalizzando anche le attività di servizi (per esempio i call center).

   Nonostante ciò, nonostante gli industriali abbiano da anni dichiarato a più riprese che chiuderanno gli stabilimenti, lo Stato continua ad elargire finanziamenti in loro favore anche per ammodernamento e ristrutturazione degli impianti affinché mantengano l’occupazione di operai, che invece, quasi sempre vengono messi in cassa integrazione e in mobilità.

   I finanziamenti sono elargiti anche a quegli industriali che sono stati più volte inquisiti per truffa ai danni dello Stato.

  Gli effetti di questa delocalizzazione, che in alcuni casi è definita “impetuosa”, sono facilmente leggibili. Nel “mitico” Nordest i laboratori contoterzisti che lavorano in subappalto sono stati sostituiti da aziende situate nell’Est Europa. Mentre nel più modesto Sudest, nel Salento in particolare, solo nel comparto calzaturiero si sono registrati dagli anni ’90 si calcola secondo dati prudenti sci siano stati almeno 13.000 licenziamenti.

  La chiusura delle fabbriche in Italia, il licenziamento dei lavoratori e il trasferimento all’estero è avvenuto ed il trasferimento con la complicità dei partiti e dei sindacati che non hanno perso il tempo a firmare accordi per la cassa integrazione e la mobilità.

  I sindacati non solo non hanno accennato ad una minima protesta, mentre venivano portati via i macchinari alla luce del sole, ma hanno fatto di tutto per convincere gli operai a subire le politiche aziendali poiché “esistono le supreme leggi del mercato”.

   Nessuna istituzione ha chiesto agli industriali la restituzione dei finanziamenti ottenuti con la scusa di creare e mantenere occupazione in Italia.

   La delocalizzazione è avvenuta e avviene in base ad accordi ed a norme emanate dallo Stato italiano che permette i licenziamenti in Italia ed invoglia il trasferimento all’estero.

   I padroni rimangono impuniti e continuano a speculare. Per loro la disoccupazione è un affare.

   Il trasferimento all’estero, come si diceva prima, avviene per sfruttare i bassissimi costi della manodopera. È evidente che non si può proporre a nessuno in Italia (almeno fino a oggi) di guadagnare asolo un euro il giorno. Altrettanto è chiaro che (almeno fino ad oggi ed è sempre bene ripeterlo) che un salario del genere difficilmente si può proporre nemmeno in Francia e in Germania. Il trasferimento avviene verso quei paesi ricattati dalla miseria, dalla fame e dalle guerre scatenate degli stessi paesi imperialisti occidentali.

   Pagare un operaio, un euro al giorno significa mantenerlo alla fame, nella disperazione più totale.

   Ecco perché queste popolazioni emigrano nei paesi imperialisti come l’Italia, essi scappano dalla fame generata dagli industriali occidentali (tra i quali molti italiani e padani). Gli stessi che licenziano nei loro paesi di origine (tra i quali l’Italia) creando così disoccupazione e marginalità (la criminalità diffusa è solo un prodotto di questi fenomeni sociali creati dai padroni).

   Gli immigrati sono vittime del medesimo disegno speculativo dei padroni.

  La questione dei licenziamenti e delle delocalizzazioni è collegata, quindi, a quella dell’immigrazione.

   La delocalizzazione, tra l’altro, è utilizzata per scardinare i diritti dei lavoratori.

  In pratica, si “invitano” i lavoratori ad accettare un lavoro flessibile, una drastica riduzione dei loro diritti e garanzie, dietro la minaccia di chiudere l’azienda trasferirla all’estero dove i lavoratori costano meno.

 Il messaggio che gli industriali danno ai lavoratori è chiaro: se accettate condizioni simili a quello che vivono i lavoratori del Tricontinente o quelli dell’Est europeo, la fabbrica non chiude e l’occupazione è salva.

  Partiti e sindacati non contrastano questa politica dando per scontato la “normalità” delle condizioni di lavoro dei lavoratori dei paesi esteri in cui si delocalizza.

   Con la guerra si afferma, demistificando e mentendo, di esportare quello che dicono di essere la “democrazia” (e i regimi che sorgono da queste aggressioni nella realtà sono solo dei satelliti e dei burattini degli imperialisti), con la delocalizzazione si vuole importare l’abolizione dei diritti dei lavoratori, si vuole scatenare la concorrenza e lo scontro tra lavoratori, tra italiani e immigrati.

   Questa tendenza deve essere invertita. Bisogna estendere a tutti i lavoratori, i diritti. L’internazionalismo non è solo un ideale, ma soprattutto una necessità concreta degli operai, il capitale agisce globalmente e globalmente deve agire la classe, un punto di partenza è stabilire dei collegamenti con i lavoratori degli altri paesi dove le aziende italiane sono andate a investire, per aprire lotte comuni dove si devono omologare (non al ribasso ovviamente) sia la parte salariale che quella normativa.

IL DIRITTO DEL LAVORO

   In quasi in tutto il mondo si fa risalire la nascita del diritto al periodo dell’impero romano. Già duemila anni fa, infatti, erano state descritte ed elaborate le varie branche del diritto, per esempio quello del matrimonio, dell’eredità, dei contratti, della proprietà ecc. L’unica branca che nel diritto romano non esisteva era quello del diritto del lavoro. Ai lavoratori non era riconosciuto nessun diritto.

   Il diritto del lavoro nel diritto romano non esisteva se non come proprietà dello schiavo. In sostanza, il lavoratore, era paragonato a un attrezzo, a una macchina di lavoro, che il padrone poteva disporre a suo piacimento. Lo poteva usare, spostare, abbandonare e vendere come voleva.

   Anche dopo l’impero romano, la condizione di schiavitù è continuata senza che ai lavoratori fosse riconosciuto alcun diritto da tutte le legislazioni del mondo.

   Solo nel XVIII secolo si sono si sono registrati i primi sporadici interventi per frenare alcune situazioni schiavistiche, mentre le prime elaborazioni di diritto del lavoro sono nate tra il 1800 e il 1865.

   Tale periodo noto come rivoluzione industriale, vede la borghesia affermarsi definitivamente come classe egemone dal punto di vista politico, subentrando a quella feudale.

   Durante la rivoluzione industriale le condizioni di lavoro degli operai di fabbrica furono molto pesanti, anche l’assoluta mancanza di ogni tutela dei loro diritto e per il divieto imposto dai governi di associarsi per ottenere miglioramenti salariali e normativi.

   La giornata lavorativa era di quattordici ore e spesso fu portata a sedici. La disciplina in fabbrica era ferrea: le macchine dovevano lavorare a un ritmo continuo e veloce e non c’era spazio per riposarsi, né per le pause. Allontanarsi dal proprio posto di lavoro o parlare con un compagno di lavoro venivano considerale mancanze gravi e costavano pesanti sanzioni fino al licenziamento.

   Era l’essere umano a doversi adattare alla macchina e non il contrario. Al lavoratore si chiedeva di svolgere un ruolo meccanico e non attivo o intelligente.

   I salari erano bassissimi perché i disoccupati erano così tanti che un operaio se scontento poteva essere sostituito in qualsiasi momento.

   Particolarmente grave fu la condizione dei bambini e delle donne che, essendo pagati meno, erano utilizzati in gran numero. Costavano meno perché ricevevano un salario più basso e rendevano allo stesso modo. Nelle fabbriche della Scozia nel 1816 su 10.000 operai, 6.850 erano donne e bambini.

In nessun paese esistevano leggi per tutelare i bambini, nemmeno quelli più piccoli.

   Dopo le prime lotte operaie, molte delle quali duramente represse,[8]   lo Stato inglese approvò la prima legge nel 1819 che prevedeva il limite di età di assunzione dei bambini dai dieci anni in poi e il limite dell’orario giornaliero stabilito in dieci ore. Non c’era, però, alcuna autorità che prevedeva il controllo. Quindi la legge minorile non è stata mai applicata.

  Dal 1800 era enormemente aumentata l’esasperazione dei lavoratori causata non solo dallo sfruttamento ma anche dalle ripercussioni lavorative consistenti in moltissime morti sul lavoro (storia vecchia nel capitalismo come si vede), malattie professionali, infortuni, miseria, sopraffazioni sulla persona, insomma, gli operai erano (e lo sono tuttora se non si difendono e mettono in discussione questo Modo di Produzione) carne da macello.

   Tutto questo era la dimostrazione pratica che gli interessi delle due classi, borghese e proletaria sono inconciliabili. La borghesia ritiene che qualunque sia la sorte dell’operaio, non è compito del padrone migliorarla.

   Dalla loro esperienza pratica, gli operai hanno imparato che per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro devono contare essenzialmente sulle loro forze. Impresa difficile perché i padroni hanno dalla loro parte anche i governi i quali rappresentano le classi più elevate che si schierano con i padroni e non con gli operai.

   I governi hanno sempre vietato l’associazione dei lavoratori e impedito le varie forme di lotta, in primis lo sciopero. In Germania, addirittura, nel 1845 ogni interruzione del lavoro era severamente punita anche con la pena di morte.

  La libertà di sciopero e di associazione alla classe operaia non è stata certamente regalata.

   In una società divisa in classi, una classe subalterna, che quindi non detiene il potere, riesce con la lotta a strappare alla classe dominante una concreta libertà, anche se parziale, e sempre in costante pericolo che le sia nuovamente tolta. Questo significa che quando si parla di conquista di concrete libertà in regime borghese, queste non possono che essere libertà che la classe soggetta strappa alla classe dominante, anche se parzialmente e anche se possono essere rimesse in discussione.

   Vediamo alcuni esempi. La libertà di riunione e di associazione fu nel periodo della Rivoluzione Francese e precisamente il 14 giugno 1791 con la legge Le Chapelier, abolita per gli operai, in quanto proibiva a loro il diritto di riunione e di associazione, e comminava ai proletari che non osservavano il divieto multe e perdita a tempo determinato dei diritti civili.

   Ugualmente in Inghilterra, in periodo di affermazione della dittatura della classe borghese a cavallo tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo è un susseguirsi di leggi che vietano ogni diritto di riunione e associazione per ogni tipo di lavoratori. Lo stesso avverrà in Italia e in altri paesi di più tarda industrializzazione a metà del XIX secolo, dove ogni diritto di coalizione e di resistenza operaia sarà proibita.

   Sia in Inghilterra che in Francia e successivamente negli altri paesi, occorreranno decenni di lotte durissime, migliaia e migliaia di morti, centinaia di migliaia di feriti e carcerati, insurrezioni e rivolte, scioperi di milioni di uomini e donne, per strappare ai governi borghesi di questi paesi la libertà di sciopero, di associazione, di coalizione e di resistenza per i lavoratori. In Francia occorreranno le rivoluzioni del 1830 e del 1848 in Inghilterra le lotte del 1825, 1832 e 1859 e la dura cruenta lotta del movimento cartista.

   Un’altra battaglia è stata quella di eleggere o essere eletti dei proletari nel parlamento borghese, la richiesta del suffragio universale (dei maschi adulti) era il primo punto della Carta del 28 febbraio 1837 che segna il momento più alto e di massa del movimento operaio inglese. Gli altri punti erano: parlamenti annuali, voto a scrutinio segreto, stipendio ai membri del parlamento, abolizione dei requisiti di censo per i candidati al parlamento, distretti uguali.

   Si noti che il cartismo, specie in quel periodo non fu emanazione di ceti piccolo-medio borghesi, ma espressione di tutto il mondo proletario mobilitato a livello di massa. Occorreranno cinquant’anni di lotte per ottenere in Inghilterra il suffragio universale, che sarà concesso solo nel 1918. Lo stesso avverrà nei decessi successivi nelle altre nazioni europee dove, il proletariato chiederà il potere per sé non per le altre classi.

   Vediamo ancora la libertà di stampa, in pratica la libertà di scrivere e diffondere le proprie idee.

   Nell’Inghilterra dell’Ottocento dove vigevano grosse tasse di bollo su ogni copia di giornale (quotidiano o settimanale) venduto. Il prezzo di vendita diveniva così altissimo, tanto che per i proletari era concretamente irraggiungibile l’acquisto di un giornale. Occorsero campagne operaie durate decenni e la sfida lanciata da giornali operai, venduti al prezzo di pochi centesimi e illegalmente senza bollo, per far abolire la legge. Il primo a lanciare la campagna fu il The poor man’s guardian che, su iniziativa del suo direttore Cobbet, fu venduto al prezzo di un penny come protesta “contro la tassa sul sapere”. Altri giornali operai seguirono, in una lotta che durò alcuni lustri, per arrivare al 1836 quando la tassa sui giornali fu ridotta, e infine nel 1855 quando fu abolita.

   Il limite di tutte queste libertà che sono state conquistate da parte del proletariato con lotte durissime (durate decenni se non addirittura due secoli) sono avvenute nell’ambito e nel quadro dello Stato borghese, permanendo la dittatura della classe borghese. E quindi in ultima analisi sono state utilizzate dallo Stato borghese per mantenere il proprio dominio. Ciò conferma la correttezza dell’analisi marxista e leninista sullo Stato, secondo cui lo Stato della classe opprime, non può essere utilizzato dalla classe oppressa, ma deve essere demolito dalle fondamenta.

   Poiché questo non è avvenuto negli ultimi due secoli, tutte le conquiste operaie, per quanto ottenute attraverso lotte asprissime e prolungate, sono state utilizzate e fatte proprie dalla classe dominante. Se da una parte la conquista di queste liberà, ha allargato le possibilità del proletariato, ma dall’altro sono state utilizzate e “catturate” dalla borghesia che le ha mistificate come proprie libertà. La libertà operaia di associarsi e di costituire leghe e sindacati sono stati utilizzati dalla borghesia per istituzionalizzare il sindacato come ulteriore struttura di sostegno alla dittatura della classe borghese. La libertà di eleggere e di essere eletti è stata usata dalla borghesia per strappare alla loro classe di provenienza gli eletti operai e farne dei borghesi. La libertà di stampa, per l’enorme differenza economica di chi finanzia i giornali (monopoli) è utilizzata dalla borghesia per creare un’opinione contraria agli interessi proletari, e si può continuare con infiniti esempi.

   Su tutte queste libertà incombe il continuo ricatto da parte della borghesia di essere abolite tutte in una notte (attraverso uno stato fascista per esempio) ove le strutture democratiche-parlamentari non dovessero più essere funzionali per il domino capitalista.

   Tutto questo per dire che il diritto del lavoro non è stato un’elargizione da parte dello Stato borghese, ma è un prodotto delle lotte operaie (soprattutto se sono rivolte al cambiamento radicale del sistema).

   Ecco perché nel linguaggio giuridico il diritto del lavoro è definito come “elemento che resiste e che restringe lo sviluppo economico”.

   Pertanto, il diritto del lavoro non è mai riconosciuto come una delle tante branche giuridiche ma come la forza dei lavoratori di rivendicare la tutela dei loro interessi. È evidente che la sua esistenza dipende dall’espressione di tale forza. Quando i lavoratori smettono di lottare in maniera radicale al di fuori delle compatibilità del sistema, il diritto del lavoro sarà sempre limitato fino ad essere abolito.


[1] Il Sole 24 0re, 28 agosto 1996.

[2] Il Sole 24 0re, 29 agosto 1996, pag. 13.

[3] http://archiviostorico.corriere.it/2002/settembre/13/manager_commessi_negozio_muoveranno

[4] http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/11/21/pause-ridotte-cassa-integrazione-straordinari-pilastri-%E2%80%9Cmodello-pomigliano%E2%80%9D/172169/

[5] http://www.savethechildren.it/IT/Tool/Press/All/IT/Tool/Press/Single?id_press=592&year=2013

[6] http://www.icebucarestnews.ro/userfiles/file/LA%20PRESENZA%20ITALIANA%20IN%20ROMANIA%202014.pdf

[7] Ci ricordiamo i due marò questi “eroi” uccisori di pescatori indifesi, dove erano? Su una nave mercantile. E nessuno si è chiesto cosa ci stavano a fare? Se c’è una normativa che li consente? Ebbene sì, in base al DECRETO-LEGGE 12 luglio 2011, n. 107 Proroga (delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia e disposizioni per l’attuazione delle Risoluzioni 1970 (2011) e 1973 (2011) adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nonché degli interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione). Misure urgenti antipirateria. (11G0148) (GU n.160 del 12-7-201) ha permesso la convenzione tra gli armatori e il Ministero della “Difesa” (ma forse si intende difesa degli armatori e degli industriali in genere).

   Ci si chiederà se è possibile che un corpo di élite della marina non abbia nulla di più importante a cui pensare che fare la guardia giurata dei privati?    Esso è possibile poiché è un nuovo modo per fare cassa, poiché gli armatori sono pagati dal ministero. Dopo dismissioni e svendite del patrimonio, tasse e tagli a spese sociali, istruzione e ricerca, ecco a voi affitto di militari scelti. Un’ulteriore dimostrazione che l’austerità non ha come conseguenza solo il peggioramento delle condizioni sociali ma arricchimento di chi è già ricco.

   Del resto, ci siamo abituati all’impiego dell’esercito per cose che non gli competono istituzionalmente, per spot elettorali, tipo la “sicurezza” o l’emergenza neve; situazioni nate per dare solennità e importanza ad alcuni temi.

[8] L’episodio più grave di repressione si ebbe a St Peter’s Fields, vicino a Manchester, nel 1819, quando fu usata la cavalleria per disperdere un raduno di 50 000 persone che chiedevano una riforma parlamentare, provocando undici morti e 500 feriti. Questa strage fu approvata da tutta la classe politica inglese: e poiché anche il duca di Wellington, il vincitore della battaglia di Waterloo, espresse pubblicamente il suo sostegno nei confronti degli ufficiali che avevano ordinato la carica dei dimostranti, l’episodio venne sarcasticamente ribattezzato massacro di Peterloo.

~ di marcos61 su ottobre 26, 2020.

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