CRISI DEL CAPITALE

   Per Marx, ognuna delle crisi del capitale si risolve con una distruzione delle forze produttive, ma non di tutte e neanche di una quota di ognuna di esse, ma solo di quelle che, già prima della crisi, erano soccombenti nella concorrenza, essendo state rese obsolete dalle nuove forze emergenti, insomma divenute meno produttive, nel solo nel senso della produttività del processo di lavoro, ma anche di forza complessiva che in ultima istanza si fonda comunque sulla produttività del lavoro. Mentre per quelle divenute già produttive, la crisi è un’occasione di ulteriore consolidamento ed estensione della loro predominanza. Infatti, secondo Marx, da ogni crisi sorge sempre un nuovo equilibrio che non scaturisce dal nulla, ma era già incubato prima della crisi. La crisi si limita a sancirlo, a renderlo esplicito e, appunto, dominante abolendo gli ostacoli che in precedenza lo frenavano.

   Marx si riferiva alle crisi economiche classiche, non risulta che si sia mai misurato con l’ipotesi di una distruzione generalizzata di forze produttive provocata da un conflitto mondiale altamente distruttivo. Dopo di lui i conflitti di tale portata ci sono stati, e sono stati due. In essi i molti marxisti, e non solo marxisti, hanno visto la realizzazione su vasta scala della stessa dinamica che si era manifestata nelle crisi economiche classiche. Effettivamente i due conflitti mondiali hanno distrutto una quantità di forze produttive materiali e umane che corrispondeva a un gigantesco multiplo di ognuna  delle crisi cicliche classiche. Ma già qui compare una differenza che smentisce l’assunto “ogni guerra mondiale distrugge forze produttive, consentendo al capitale di ripartire per una nuova fase di crescita”. Infatti la Prima guerra mondiale non ha lanciato dopo di sé alcuna crescita, in grande stile dell’accumulazione capitalistica, ma, anzi, la peggiore crisi che il capitale abbia mai vissuto, nel 1929 (è già questo dovrebbe far riflettere nell’applicare in maniera meccanicistica un assunto alla realtà). Perché? Perché da essa, se Marx avesse avuto ragione, non sarebbe emerso un nuovo equilibrio in grado di superare le strettoie che avevano generato la crisi e la guerra.

   Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, il nuovo equilibrio è emerso, e il capitale ha conosciuto un lungo periodo di crescita, che non ha pari, in estensione e intensità, con nessuna delle precedenti fasi di crescita. Non ha, insomma, semplicemente ricostituito i livelli che aveva raggiunto fino al 1914, ma è andato molto, molto, oltre di essi.

   Quale sia, dunque, questo nuovo equilibrio è domanda su cui non si può sorvolare, pena l’incomprensione del “dove siamo oggi”, cioè, dov’è oggi il capitale e, di conseguenza, “il movimento reale che trasforma la realtà esistente”. A questa avere la capacità di darsi una risposta materialistica evitando risposte consolatorie.

    Torniamo al punto. Quale nuovo equilibrio è emerso dopo la Seconda guerra mondiale?

    Prima di tutto, e in perfetta adesione ai postulati concreti (quelli, appunto necessario a comprendere come la teoria trova applicazione) di Marx, la Seconda guerra mondiale non ha distrutto tutte le forze produttive, e non le ha distrutte pro quota. le ha distrutte in alcuni centri in cui si erano massivamente sviluppate, Europa e Giappone. Negli USA non solo non sono state distrutte, ma, grazie anche alla guerra, non hanno smesso mai di continuare a svilupparsi, sia in quantità che in qualità. A ben vedere già prima della guerra gli USA erano diventati il paese con il più alto livello di forze produttive  altamente sviluppate, non solo nell’industria ma anche in tutti i fattori produttivi (a partire dall’agricoltura che impiegava, già allora, una frazione bassissima della forza lavoro rispetto a tutti gli altri paesi capitalisti), conglomerati capitalistici già estesi a una massa territoriale paragonabile a un continente, un accumulo gigantesco di capitali che consentivano un assoluto primato in termini di finanza e, anche, una moneta forte, proprio perché fondata su un capitale complessivamente potente. Oltre a ciò, la guerra permise agli USA anche diventare una potenza militare inarrivabile e, non meno importante, acquisire una predominanza stratosferica (rispetto agli altri) nella logistica marittima e terrestre.

   La crisi-guerra, perciò non fece altro che sancire ciò che già incubava, ma si rivelò anche un piccolo dettaglio: ciò che conta per il capitale non è genericamente “distruggere le forze produttive”, ma distruggere le forze produttive degli altri capitalisti e preservare le proprie. Piccola parentesi su cui tornare: la guerra mondiale che si annuncia e di cui proprio gli USA hanno sommo bisogno, molto difficilmente li ascerà integri come la Seconda. Russia e Cina hanno già la capacità militare di distruggere completamente gli USA (e Putin ha già avvertito che, se la Russia sarà trascinata in una guerra in Europa, i suoi mandanti non resteranno impuniti e intoccati).

   Il nuovo equilibrio post-crisi era, dunque, fondato su una unica potenza che superava di grandezze incommensurabili tutte le altre, dissanguatesi in tutti i sensi a causa della guerra. Questo è un primo elemento di un nuovo equilibrio: non ci sono più molteplici potenze capitaliste più o meno alla pari che si contendono alla pari, ma ce n’è una che decisamente superato tutte le altre e che ha nelle sue mani la possibilità di farle riprendere oppure no . Ciò, per inciso, ci rivela un altro piccolo dettaglio: da una distruzione delle forze produttive il capitale non riparte magicamente dalle sue macerie, ma grazie al fatto che ci siano forze produttive non-distrutte è che siano, inoltre, sufficientemente sviluppate da far ripartire il ciclo dell’accumulazione ovunque.

   Gli USA fecero, come noto, ripartire il ciclo dell’accumulazione capitalistica sia in Europa che in Giappone. E lo fecero con due misure:

  1. Prestando capitali;
  2. Fornendo liquidità a tutti.

   Questi due fatti non sono una semplice solidarietà tra capitalisti, ma cambiano ulteriori quattro elementi del precedente equilibrio:

  1. Smettono di esistere i vari paesi imperialisti che si contengono la spartizione del mondo, ma l’imperialismo si configura a un nuovo livello, come imperialismo collettivo di quegli stessi paesi con però un unico centro mondiale, gli USA, da cui tutti gli altri dipendono per continuare a restare dalla parte di chi sfrutta il mondo sotto-sviluppato e non finire in quest’ultimo mondo (tra essi rimane ancora in vita la concorrenza, ma non è più in discussione questa gerarchia imperialista). Nemmeno gli USA sono paragonabili alla precedente Gran Bretagna, che era, sì più potente degli altri, ma non li dominava;
  2. Il predominio USA sugli altri paesi imperialisti non è solo questione di “potenza interna”, ma si estende come una piovra, grazie alle multinazionali, che investono direttamente negli altri paesi imperialisti, vi costruiscono filiali, si appropriano di aziende e capitali locali, determinano le condizioni produttive, gli standard produttivi e organizzativi, ecc. fino al punto di creare, lo vediamo oggi, un capitale trans-nazionale a dominio USA, con la conseguente scomparsa degli altri capitali a forte base nazionale;
  3. Il rapporto tra paesi dominanti e dominati cambia: non c’è più bisogno di colonie, ma il dominio e lo sfruttamento prendono le strade più proficue, dell’esportazione dei capitali, della schiavitù finanziaria tramite debito, della nuova minaccia delle portaerei e dell’atomica, ecc.;
  4. Si afferma una moneta mondiale ciò che non era mai stata la sterlina. Una moneta fondata su presupposti economici, politici, commerciali, finanziari, militari da rendere le transazioni e gli scambi mondiali  più sicuri di quelli precedenti.

   Tutti questi elementi delineano il nuovo equilibrio scaturito dalla Seconda guerra mondiale. E tutti insieme costituiscono anche un’innovazione rispetto alla fase precedente: il mercato mondiale non è più limitato al “commercio estero” di merci, ma assume i caratteri di un vero e proprio mercato capitalista in cui circolano liberamente i capitali e, almeno tendenzialmente, si conquistano l’accesso allo sfruttamento diretto di tutte le forze-lavoro mondiali.

   È stato un processo lungo, che ha trovato compimento con la caduta della “cortina di ferro” e il coinvolgimento della Cina nelle catene del valore globali.

   Il mercato mondiale capitalista delineato in teoria come una necessità per lo sviluppo del capitale esiste, dunque, nel suo modo concreto alle condizioni attuali: un blocco imperialista in un paese, potente sopra tutti da ogni punto di vista , in grado di svolgere la funzione di cassaforte finanziaria mondiale, ma anche mercato di consumo principale sia come quantità assorbite di merci, sia, e soprattutto, come capacità di decidere le caratteristiche e gli standard di tutte le merci che circolano nel mondo, e anche dominante le forze produttive divenute decisive (l’alta tecnologia), nonché emettitore della moneta indispensabile ai commerci e come moneta di riserva. Per potere svolgere questa funziona, nell’interesse di “tutti” i capitalisti del mondo, c’è, ovviamente, una piccola condizione: che la stragrande maggioranza dei profitti mondialmente prodotti vi siano centralizzati direttamente con le multinazionali o indirettamente tramite il potere finanziario, e, inoltre, che, per garantire la stabilità del dollaro, possa vivere con un debito complessivo enorme, in quanto finanziato da tutti gli altri. Insomma, un paese con un privilegio esorbitante su tutti gli altri, ma di cui gli altri hanno bisogno. Perché, se gli USA dovessero patire una crisi profonda, non andrebbero in crisi solo loro, ma crollerebbe il mercato mondiale capitalista, si bloccherebbero tutti gli scambi e, di conseguenza, la produzione mondiale.

   Il passo avanti fatto nella direzione del mercato mondiale capitalistico da semplice commercio delle merci a vero e proprio mercato dei capitali (nato con l’esportazione dei capitali ma andato molto oltre questa) e del lavoro, nonché l’apparire di una moneta veramente mondiale hanno consentito al capitale la straordinaria crescita dei “trenta gloriosi anni” di crescita cominciati nel secondo dopoguerra, ma gli hanno anche permesso di “risolvere” la classica crisi che si era ripresentata nella prima metà degli anni Settata. Rimosso il limite dell’ancoraggio all’oro del dollaro, la soluzione alla crisi è stata trovata nel trasferire gran parte della produzione in paesi sotto-sviluppati, sfruttando una manodopera meno costosa, e trasferendovi parte delle forze produttive divenute obsolete. La dotazione di nuove forze produttive a questi paesi vi ha innescato una lotta di classe simile a quella sviluppata in Europa e USA fino agli anni Sessanta. Questi paesi sono stati, perciò, sospinti dai conflitti di classe interni a cercare di utilizzare le forze produttive ricevute non solo per alimentare i profitti imperialisti, ma anche per sé stessi. I primi paesi coinvolti nel processo furono le “tigri asiatiche”[1], che furono le prime anche a cercare di trasformarsi in potenze capitalistiche “in proprio”. La delocalizzazione si concentrò anche in Cina, paese che offriva non solo una manodopera, oltre che a basso costo, già sufficientemente qualificata, ma anche la possibilità di sviluppare un’ambiente favorevole all’attività industriale e con costi bassi.

   Queste delocalizzazioni facevano parte di un’operazione  da parte dei gruppi imperialisti USA per fronteggiare la crisi.

   Approfittando del fatto che la Repubblica Popolare Cinese aveva bisogno di qualcuno che la spalleggiasse dal punto di vista economico, il Partito Comunista Cinese non riteneva possibile cominciare da zero come aveva fatto l’Unione Sovietica negli anni Trenta (stante anche le condizioni diverse: la maggiore arretratezza, l’ostilità dell’URSS e di gran parte del Movimento Comunista Internazionale). A seguito di questa operazione i monopoli USA vanno a produrre in Cina e poi proseguiranno altrove: abbattono così i propri costi di produzione.

   Questa scelta di delocalizzare in Cina (e in altri paesi) permise di rinviare ulteriormente il peggioramento della crisi. Nel frattempo la crescita del proletariato cinese ha indotto un conflitto di classe in questo paese che ha reso indispensabile al governo e allo Stato il tentativo di ridurre il flusso dei profitti verso l’Occidente per potere realizzare un suo proprio maggiore sviluppo. Annichilire la Cina come si era fatto per le “tigri “non è possibile. Il tentativo è ancora in corso.

   Se le caratteristiche del nuovo equilibrio post-1945 sono state, nell’essenziale, delineate correttamente, bisogna ora chiedersi quale nuovo equilibrio incuba all’interno della crisi attuale del capitale che non solo non si arresta e forze  sarà indispensabile portarlo a livello di guerra.

   Si dovrebbe cominciare a esaminare una serie di fattori singolarmente e nel loro intreccio.

   Prendiamo come esempio il fattore della sovra-capacità produttiva, ovvero la difficoltà del capitale di riprodurre nel suo insieme i cicli di accumulazione. Ciò significa prendere in considerazione solo la parte del mondo che già possiede forze produttive massicce, che siano dislocate nel proprio paese o delocalizzate altrove. Nello stesso tempo in cui questa sovracapacità sì manifesta, i paesi che non fanno parte di questa cerchia ristretta, non si trovano in una situazione di sovra-capacità di forze produttive, ma al contrario hanno necessità di incrementare quelle povere o nulle di cui dispongono. Ancora una volta questa contraddizione era già inserita nella teoria del capitale, da cui emergeva che la natura di questo modo di produzione è di sottometterle al “regime di proprietà privata” secondo cui chi le sviluppa e le detiene ne limita la diffusione allo scopo di usarle per accrescere i propri profitti.      

   Il movimento operaio degli albori si poneva l’obiettivo di socializzare le forze produttive. La Rivoluzione di Ottobre provò a risolvere questo problema, ma di forze produttive in Russia in quel periodo vi erano ben poche, e fallita la rivoluzione socialista in Europa (anche a causa del ruolo controrivoluzionario della socialdemocrazia che era maggioritaria nel movimento operaio europeo), la Russia dovette dedicarsi al tentativo di costruire  da sola le forze produttive, con una rincorsa permanente a eguagliare la produttività dell’Occidente.          

   Questo aspetto della teoria ha avuto dei tentativi di renderlo concreto.  Oggi, questa teoria diventa molta concreta a livello internazionale.

   La Cina come paese è perfettamente consapevole che le forze produttive minacciate di distruzione con un conflitto con gli USA, sono le sue, come si vede dalla catena di sanzioni, dazi, provocazioni, ecc. e come ciò potrebbe essere realizzato ancora meglio con una crisi della Cina o con la sua distruzione. Ma qui c’è un altro aspetto che conferma il fatto che la Cina è posta da anni alla testa di un processo, lento, ma costante, di una costituzione di un fronte accomunato sulla ricerca di un maggiore sviluppo, che unisce paesi che qualche gradino di sviluppo lo hanno salito (come Cina, Russia, Brasile) a tanti altri che sono tenuti dall’imperialismo nelle condizioni di sotto-sviluppo, se non proprio distrutti con guerre di ogni tipo. Se si guarda all’insieme delle politiche della Cina, della Russia e dei BRICS nel suo insieme, all’interesse crescente che conquistano nel resto del mondo, la questione diventa oggettivamente importante, nel senso che una enorme parte del mondo che è riuscita a vivere nel sottosviluppo o nel semisviluppo fino a ora, non può più continuare a farlo.   

   Non perché stiano emergendo borghesie più accanite, ma perché nelle loro società i conflitti di classe si fanno sempre più minacciosi.      

   Da un lato c’è un mondo che soffre la sovracapacità, dall’altro uno che soffre la sottocapacità. Da un lato un mondo che soffre per l’eccesso di sviluppo, dall’altro un mondo che soffre per la sua mancanza o debolezza.

   Ora, se l’equilibrio post-1945 sta andando in crisi, e se esso ha messo in movimento davvero le forze che si contendono        nel modo suddetto il conflitto sulla questione dello “sviluppo” e della diffusione delle forze produttive, quale è il nuovo equilibrio che potenzialmente può emergere dalla deflagrazione del primo, che sta diventando sempre più possibile?      

   Se si guarda alle forze in campo, abbiamo oggi:

  • Un polo che si batte per rinnovare l’equilibrio post-1945, un mercato mondiale capitalistico con centro quello che si potrebbe definire l’Occidente collettivo, e che, infatti, avvertendo il rischio di scomparsa, si arrocca sempre più nel paese che lo domina (una deindustrializzazione che è  a svantaggio dell’Europa e che invece va a vantaggio degli USA per esempio) e diventa sempre più aggressivo, fino alla probabilissima esplosione di un conflitto mondiale generalizzato;
  • Un polo di paesi capitalisti (al di là di certe autodenominazioni “socialiste”) che per uscire dai semi o sottosviluppo premono per ridurre il privilegio esorbitante dagli USA e, a cascata, dei loro vassalli, e il massimo obbiettivo che possono porsi è quello di transitare a un mercato mondiale capitalistico che  ci sia un centro mondiale capitalistico che lo domina, in sostanza vogliono un mercato mondiale capitalistico “democratico”.   

Ora, si potrebbe discutere se un mercato mondiale capitalista senza centro imperialista possa davvero concretamente esistere. Di sicuro, se gli USA uscissero sconfitti da un’eventuale guerra o a causa di una pesante crisi che non riescono più a scaricare sugli altri, nessun altro paese al momento possederebbe le condizioni prenderne il posto. Né la cosiddetta Europa, non i suoi singoli paesi, né il Giappone che sarebbero trascinati pesantemente nella soccombenza USA. Ma neanche la Cina è lontanissima dalle condizioni differenziali di sviluppo degli USA nel 1945, e non potrà raggiungerle mai, soprattutto per l’enorme massa di lavoratori delle campagne, che non può trasformare in lavoratori altamente produttivi e neanche può disfarsene  o eliminare in massa. Stiamo parlando di circa  600-700 milioni di cinesi. Quindi il mondo nuovo che può emergere è un mondo che, di sicuro,  non potrà avere la stessa stabilità che ha avuto negli ultimi 80 anni, cambiando semplicemente i ruoli dei paesi.

    Dunque, se l’equilibrio precedente non regge più e se un nuovo equilibrio non è possibile o sarebbe altamente instabile, puòemergere un terzo ipotetico equilibrio del capitale? Non si può escludere questa ipotesi. Oppure può emergere una situazione che imponga la necessità di fare a meno del capitale e dei suoi equilibri, mettendo in moto le forze sociali e politiche necessarie a questo scopo.                                                                                                                                                                                              


[1] Nome con cui si indicano, nel gergo economico, le economie di Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan, che tra gli anni 1960 e 1990 hanno promosso percorsi di industrializzazione, cambiamento strutturale e crescita comunemente considerati di successo. Durante il 21° sec. le 4 T. sono a pieno titolo entrate a far parte del mercato globale: Hong Kong e Singapore come centri finanziari e logistici di importanza mondiale, Corea del Sud e Taiwan raggiungendo posizioni di leadership per alcuni importanti prodotti industriali e nel settore delle tecnologie informatiche.  https://www.treccani.it/enciclopedia/tigri-asiatiche_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)/

~ di marcos61 su aprile 26, 2024.

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