CAPITALISMO E GUERRA
L’avvento del capitalismo è già chiaramente anticipato dalle guerre franco- spagnole per il predominio in Italia nel XVI secolo. Fu la Spagna, la quale possedeva un enorme impero coloniale e che viveva dei proventi delle attività commerciali con cui sfruttava le terre e i popoli d’Africa, Asia e America, che pretese di dominare l’Europa alla stessa maniera. La potenza militare spagnola era certamente maggiore di quella francese; tuttavia, la Francia costituiva già uno stato più omogeneo e più accentrato, dove la borghesia appoggiava apertamente la monarchia contro gli interessi della nobiltà. Senza contare che inoltre la Francia, nella sua lotta contro la Spagna, poté avere l’appoggio anche dei nobili tedeschi, che, a loro volta contro l’impero spagnolo, volevano consolidare l’autonomia di certe regioni tedesche, utilizzando a tale scopo non solo l’alleanza con la Francia, ma anche le contemporanee guerre di religione.
La fine del XVI secolo vedeva ancora la Spagna come potenza predominante, se pur indebolita, in Europa, e, proprio tale indebolimento fu la premessa della sua caduta di fronte a nuove potenze ormai basate sui nuovi rapporti economici capitalistici, in particolare dell’Inghilterra. Si trattava di una caduta destinata in breve tempo a diventare disfatta, e tale disfatta fu proprio emblematica con la sconfitta della “Invencibile Armada” nel 1588 da parte di persone che combattevano in nome del calvinismo, che molto bene rappresentava l’erompere delle nuove forze del Capitalismo.
In Francia e in Germania, nel corso dei due secoli successivi vi saranno arresti nello sviluppo del nuovo modo di produzione capitalistico, che invece, per vicende storiche conosciute, ebbe la prima decisiva affermazione in Inghilterra.
Tuttavia ciò non toglie che già le guerre condotte contro la monarchia spagnola annunciavano il nuovo modo di produzione, in quanto sono tutte caratterizzate da un postulato di fondo, che poi sarà il tratto caratteristico del capitalismo, ovunque si affermerà. Si trattò infatti della lotta per la formazione di stati nazionali, che è rivoluzionaria (come allora lo fu), in quanto tenda alla distruzione dei rapporti economici pre – borghesi e alla loro sostituzione con il mercato capitalistico. Questo, dunque, prima ancora di una sua piena affermazione, viene annunciato da una serie di guerre tra stati.
LE GUERRE NAZIONALI DELLA BORGHESIA RIVOLUZIONARIA
Le guerre per la formazione degli stati nazionali hanno sempre caratterizzato l’epoca capitalistica, dal XVI secolo fino ai giorni nostri. Tuttavia il loro significato è rivoluzionario solo in quanto sono collegate alla formazione del mercato e quindi alla distruzione dei rapporti economici precapitalistici. Ecco perché le guerre di sistemazione nazionale perdono ogni spinta rivoluzionaria in Europa fin dal 1871 e, nel nostro secolo, il loro significato rivoluzionario svanisce progressivamente anche fuori di Europa, nella misura in cui il modo di produzione capitalistico si diffonde in tutto il mondo. La data del 1871, relativamente all’Europa, è significativa per l’esito della guerra franco – prussiana, nella quale viene definitivamente sconfitto l’impero di Napoleone III; ma ciò non esclude che un’eventuale guerra di aggressione, da parte della stessa Francia e soprattutto della Russia, alla Germania, che solo sul finire del secolo si era compiutamente formata come entità nazionale, non mantenesse un indiscusso significato rivoluzionario alla guerra di difesa e, perfino, di risposta aggressiva condotta dalla stessa Germania, dove, più che altrove, si era sviluppato il movimento socialista.
Prima del 1871, hanno un significato rivoluzionario di non poco conto, le guerre condotte dalla borghesia inglese durante la sua rivoluzione nella seconda metà del XVII secolo, così come la guerra dei coloni americani contro la stessa Inghilterra un secolo dopo, le guerre della Francia rivoluzionaria contro le varie coalizioni austro- russo- inglesi, le guerre di aggressione di Napoleoni I, le guerre condotte dalla Prussia e, in tono minore, dal Regno di Sardegna contro gli imperi austro – ungarici e di Napoleone III, per non citare che quelle più note e più importanti.
Con l’inizio del ventesimo secolo si può dire che la fase della sistemazione nazionale in Europa è conclusa, con l’eccezione dell’area russa e, pertanto, le lotte per la formazione di stati nazionali si spostano dall’Europa nei paesi arretrati della Asia, dell’Africa, dell’America Latina. In questi paesi si riproduce lo stesso processo e sviluppo storico, che si era concluso con il finire del secolo in Europa: dove la lotta nazionale coincide con l’eliminazione dei rapporti economico- sociali ancora pre capitalistici, tale lotta ha ancora un significato rivoluzionario, che, tuttavia, viene progressivamente meno nella misura in cui tale collegamento svanisce. Ed è, di fatto, svanito con il diffondersi, generalmente in forme moderate, del capitalismo in ogni angolo del pianeta e per la ragione che le aree in cui il capitalismo ha ancora da attecchire sono sempre minori e di minore importanza alla scala mondiale
Le due guerre mondiali hanno posto in primissimo piano il consolidamento della fase ultima del capitalismo, quella imperialista, contro cui è possibile opporre solo la rivoluzione mondiale, la cui forza decisiva può solo risiedere nell’antagonista storico del modo di produzione il proletariato mondiale. Possono essere alleati, solo eventuali movimenti nazionalisti, purché abbiano almeno il carattere di movimenti che si pongano come scopo, nell’area dove operano, la distruzione di rapporti economici pre – borghesi.
LE GUERRE COLONIALI
La borghesia nasce come classe rivoluzionaria. Lo dimostra il fatto che non esita di fronte alla necessità di utilizzare in modo cinetico la violenza, quando si tratta di distruggere le forme economiche precapitalistiche. Non ha dubbi sulla necessità di reprimere violentemente chi si oppone alla sua ascesa, utilizzando, a tale scopo, sia movimenti popolari armati che eserciti regolari. Tuttavia, appena ha consolidato il suo potere, essa muta atteggiamento, diventa titubante nell’utilizzo della forza militare, perché apprende ben presto che essa può venire sorpassata da una nuova classe ancor più decisa in tale campo e ad essa ostile. Lo dimostrano episodi storici significativi, quali la guerra dei contadini nella Germania del XVI secolo, da un lato, e la chiusura moderata e termidoriana della grande Rivoluzione Francese, dall’altro. Ma è la borghesia inglese, la prima a consolidare in modo definitivo il proprio potere, che traccia la strada della evoluzione della funzione storica della borghesia mondiale. Ammaestrata dalle possibili tendenze “livellatrici”, espresse durante la prima rivoluzione, fa in modo che la seconda rivoluzione “pulita” della fine del XVII secolo non vada fino in fondo nella distruzione del potere delle vecchie classi aristocratiche. Assicuratasi il potere, la borghesia inglese capisce che è preferibile indirizzarsi verso la conquista di posizioni a lei favorevoli fuori d’Inghilterra, che non portare fino alle estreme conseguenze la lotta interna contro l’aristocrazia. Essa ha un mondo “vergine” da conquistare e scopre per prima i benefici del colonialismo. E così diventa il primo stato borghese con un imponente impero coloniale, peccato che prima la stessa borghesia imputava ai vecchi stati aristocratici. Nel corso degli anni e dei secoli successivi anche le altre borghesie europee seguiranno la stessa strada, fino a che, alla fine del XIX secolo, si può dire che la spartizione coloniale tra le maggiori potenze europee, tutte ormai pienamente borghesi, è conclusa. Si tratta di un periodo storico in cui i rapporti tra le grandi nazioni capitalistiche d’Europa sono di conflittualità diplomatica permanente, che quasi mai si tramuta in conflittualità militare ed in ogni caso, quando avviene, lo scontro si ha sempre fuori dai territori metropolitani. Soprattutto nella seconda metà del ‘800 e nel primo decennio del ‘900 si formano i grandi imperi coloniali, il che permette, da un lato, il continuo sviluppo economico dei paesi europei e, dall’atro, la nascita e il consolidamento del fenomeno dell’opportunismo nel movimento operaio, che non ha niente di moralistico, ma che prospera inevitabilmente sulla base dell’oggettiva possibilità di garantire a masse notevoli di operai occidentali di partecipare, con la propria borghesia, allo sfruttamento coloniale dei territori e dei popoli colonizzati. Questa fase storica si può considerare chiusa all’inizio di questo secolo, in quanto la già avvenuta ripartizione del pianeta in zone di influenza e la sostituzione del capitale finanziario al capitale industriale e commerciale, nel dominio dei rapporti economici mondiali, aprono una nuova fase nella storia del capitalismo, l’ultima fase del capitalismo imperialistico. Tuttavia ciò non esclude che alcuni aspetti dei tipici rapporti coloniali, tra paesi colonizzatori e paesi colonizzati, permangano in alcune zone del pianeta fino ai nostri giorni, ma la fase storica, iniziata con la prima grande guerra imperialista del 1914 e consolidata con la seconda, ha evidenziato caratteri peculiari che la distinguono dalle altre fasi precedenti, pur nella conferma dei contenuti principali e permanenti del modo di produzione capitalistico.
LE GUERRE IMPERIALISTE
L’epoca imperialista è caratterizzata non solo dall’esistenza dei due gruppi fondamentali di paesi, quelli sfruttatori e quelli sfruttati, ma anche dalle più svariate forme di paesi asserviti, anche se formalmente indipendenti dal punto di vista politico, in una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica. La tendenza dell’imperialismo non è solo all’assoggettamento di territori agrari da parte dei paesi più industrializzati – questa era la caratteristica dell’epoca coloniale – ma anche all’assoggettamento di stati più deboli sul piano politico- militare e su quello economico-finanziario da parte di stati più forti. Si tratta quindi di una lotta per l’egemonia mondiale, che si svolge su ogni piano e alla scala mondiale.
Protagonista principale di tale lotta è lo Stato. Esso, nell’epoca imperialista, non è più soltanto l’organo depositario della forza della classe dominante, che all’occorrenza saprà usare anche in forma cinetica, ma è diventato anche l’istituzione finanziaria più importante, attraverso i mille legami che ha con le centrali finanziarie private e attraverso il suo controllo diretto delle più grandi concentrazioni bancarie. Nell’epoca precedente la banca rappresentava il centro economico- finanziario comune di tutti gli interessi capitalistici, mentre allo stato veniva affidato il compito militare della difesa delle istituzioni. Nell’epoca attuale questa separazione non c’è più e perciò una guerra tra stati imperialisti è ancora più totale delle guerre passate, coinvolge ogni rapporto sociale ed ogni aspetto legato all’interesse del Capitale. Perciò la guerra imperialista presenta, come caratteristica peculiare, quella di essere una guerra diretta tra stati imperialisti che hanno per scopo il reciproco annientamento o, comunque, una diversa spartizione del pianeta tra di loro.
Prima del 1914 l’eventualità di una guerra diretta tra stati imperialisti non era presa in seria considerazione da nessuno. I teorici della borghesia sostenevano la concezione della cosiddetta “pace armata”, secondo la quale la nostra “civiltà” si sarebbe progressivamente estesa a tutto il pianeta, nella certezza che governati e governanti non si sarebbero mai fatti prendere dalla follia di una conflagrazione europea, dati i “moderni mezzi di distruzione”. Anche da parte socialista si finì per credere che le classi dominanti e i governi avrebbero ad ogni costo evitato lo scontro diretto. Si confidava che le diverse borghesie non sarebbero corse al suicidio, tanto che la gran propaganda antimilitarista degli anni precedenti lo scoppio del primo conflitto mondiale aveva prodotto la convinzione, negli stessi socialisti, che non ci sarebbero più state guerre tra le grandi potenze d’Europa. Si tratta, come è noto, delle stesse considerazioni e della stessa convinzione, attualmente affermate, se mai, con molta più insistenza.
LE GUERRE IMPERIALISTE SONO INEVITABILI
La tesi principale dell’opportunismo, circa i caratteri dell’epoca imperialista, è che base economica e politica imperialista sarebbero separabili e che, dunque, l’imperialismo non sarebbe che una particolare tendenza politica, alla quale sarebbe opponibile, stanti gli stessi rapporti economici, una politica pacifica di almeno alcune delle potenze imperialistiche.
Si tratta in particolare della tesi di Kautsky, che, se oggi venisse affermata con coerenza, apparirebbe forse la più rivoluzionaria tra quelle in circolazione. Kautsky sosteneva la possibilità oggettiva di garantire rapporti pacifici tra gli stati, pur permanendo il modo di produzione capitalistico ed anzi proprio perché il capitalismo, da capitalismo concorrenziale, si era trasformato in capitalismo monopolistico. Come il monopolio è la fine della concorrenza tra capitalisti, così, in politica, gli stati, nella fase dell’economia monopolistica, potrebbero scegliere la pace tra di loro invece della guerra. Pertanto – dice ancora Kautsky – le tendenze favorevoli alla guerra potrebbero essere sconfitte, se il movimento operaio adoperasse la sua forza per costringere gli stati ad evitare la guerra.
A questa tesi, si oppone quella fondamentale del marxismo: l’imperialismo non è uno specifico modo di produzione, è il risultato inevitabile dello sviluppo delle categorie capitalistiche. Dunque tra base economica e politica imperialista c’è un nesso inscindibile: lo sviluppo della concentrazione capitalistica ha come conseguenza inevitabile la caduta del saggio di profitto, da cui nasce la ricerca spasmodica di spazi economici in cui sia possibile realizzare tassi di profitto maggiori e, di conseguenza, è ineliminabile la tendenza, da parte dei maggiori stati imperialisti, alla continua spartizione e rispartizione del mondo in zone d’influenza. Si tratta, come è noto, della tesi che Lenin afferma in molti testi, ed in particolare in “Imperialismo, fase suprema del capitalismo”, da cui sono tratte le citazioni seguenti ed in cui si svela l’inganno contenuto nella tesi kautskyana:
“La definizione di Kautsky non soltanto è erronea e non marxista, ma serve di base a tutto un sistema di concezioni che sono in aperto contrasto con la teoria e la prassi marxista. Di ciò riparleremo in seguito. E’ priva di qualunque serietà la disputa sollevata da Kautsky, la quale ha per oggetto soltanto delle parole: se il recentissimo stadio del capitalismo debba denominarsi “imperialismo” oppure “fase del capitalismo finanziario”. Comunque lo si voglia denominare, è lo stesso. L’essenziale è che Kautsky separa la politica dell’imperialismo dalla sua economia interpretando le annessioni come la politica “preferita” del capitale finanziario, e contrapponendo ad essa un’altra politica borghese, senza annessioni, che sarebbe, secondo lui, possibile sulla stessa base del capitale finanziario. Si avrebbe che i monopoli nella vita economica sarebbero compatibili con una politica non monopolistica, senza violenza, non annessionista; che la ripartizione territoriale del mondo, ultimata appunto nell’epoca del capitale finanziario e costituente la base della originalità delle odierne forme di gara tra i maggiori Stati capitalistici, sarebbe compatibile con una politica non imperialista. In tal guisa si velano e si attutiscono i fondamentali contrasti che esistono in seno al recentissimo stadio del capitalismo, in luogo di svelarne la profondità. Invece del marxismo si ha del riformismo borghese.
Kautsky polemizza contro i ragionamenti, altrettanto goffi quanto cinici, del panegirista tedesco dell’imperialismo, Cunow, il quale argomenta così: l’imperialismo è il moderno capitalismo; lo sviluppo del capitalismo è inevitabile e progressivo; dunque, l’imperialismo è progressivo, e si deve strisciare servilmente davanti ad esso ed esaltarlo. Ciò ricorda la caricatura che i populisti nel 1894-1895 facevano dei marxisti russi, dicendo che poiché questi ultimi ritenevano inevitabile e progressivo il capitalismo in Russia, dovevano aprire bottega e dedicarsi ad impiantarvelo. Kautsky “obietta” a Cunow: no, l’imperialismo non è il capitalismo moderno, ma semplicemente una forma della politica del moderno capitalismo, e noi possiamo e dobbiamo combattere tale politica, dobbiamo combattere contro l’imperialismo, contro le annessioni, ecc.
L’obiezione si presenta bene, e tuttavia essa non è che una più raffinata e coperta (e perciò più pericolosa) propaganda per la conciliazione con l’imperialismo, giacché una ” lotta ” contro la politica dei trust e delle banche che non colpisca le basi economiche dei trust e delle banche si riduce ad un pacifismo e riformismo borghese condito di quieti quanto pii desideri. Un saltare a piè pari gli antagonismi esistenti, un dimenticare i più importanti contrasti, invece di svelarli in tutta la loro profondità: ecco la teoria di Kautsky, la quale non ha niente in comune col marxismo. Ed è comprensibile che una tal “teoria” non può servire che a difendere l’accordo con i Cunow.
“Dal punto di vista strettamente economico – scrive Kautsky – non può escludersi che il capitalismo attraverserà ancora una nuova fase: quella cioè dello spostamento della politica dei cartelli nella politica estera. Si avrebbe allora la fase dell’ultra – imperialismo, cioè del “superimperialismo”, della unione degli imperialismi di tutto il mondo e non della guerra tra essi, la fase della fine della guerra in regime capitalista, la fase “dello sfruttamento collettivo del mondo ad opera del capitale finanziario internazionalmente coalizzato “…
Le chiacchiere di Kautsky sull’ultra- imperialismo favoriscono, tra l’altro, una idea profondamente falsa e atta soltanto a portare acqua al mulino degli apologeti dell’imperialismo, cioè la concezione secondo cui il dominio del capitale finanziario attutirebbe le sperequazioni e le contraddizioni in seno all’economia mondiale, mentre, in realtà, le acuisce…
Kautsky ha rotto definitivamente ogni legame col marxismo, difendendo per l’epoca del capitale finanziario un “ideale reazionario”, la “pacifica democrazia”, il “semplice peso dei fattori economici”, giacché, obiettivamente, simile idea ci ricaccia indietro, dal capitalismo monopolistico al capitalismo non monopolistico, ed è una frode riformista.
Il commercio con l’Egitto (o con qualsiasi altra colonia o semi colonia) “sarebbe aumentato” di più senza occupazione militare, senza imperialismo, senza capitale finanziario. Che significa ciò? Significa forse che il capitalismo si svilupperebbe più rapidamente se la libera concorrenza non fosse limitata in generale dai monopoli, né dalle “relazioni”, né dalla pressione del capitale finanziario (cioè ancora dai monopoli), né dal possesso monopolistico di colonie da parte di alcuni paesi?
Nessun altro senso potrebbero avere i ragionamenti di Kautsky, e questo “senso” rappresenta un nonsenso. Ammettiamo dunque che in regime di libera concorrenza, senza monopolio di sorta, il capitalismo e il commercio si sarebbero sviluppati più rapidamente. Ma quanto più rapido è lo sviluppo del commercio e del capitalismo, tanto più intensa è appunto la concentrazione della produzione e del capitale, la quale a sua volta genera il monopolio. E i monopoli sono già stati generati appunto dalla libera concorrenza! Se anche i monopoli avessero attualmente l’effetto di ritardare lo sviluppo, questa non sarebbe ancora una ragione a favore della libera concorrenza, che è diventata impossibile una volta che ha generato i monopoli.
Da qualsiasi parte giriate i ragionamenti di Kautsky, in essi non troverete altro che lo spirito reazionario e il riformismo borghese…
Se la critica teorica che Kautsky fa dell’imperialismo non ha nulla di comune col marxismo, ma ha unicamente valore per la propaganda pacifista e per il conseguimento dell’unità con gli opportunisti e socialsciovinisti, è appunto perché nasconde ed elude i più profondi e fondamentali antagonismi dell’imperialismo, cioè quelli esistenti tra i monopoli e la libera concorrenza ancora superstite, tra le gigantesche ” operazioni ” (e i giganteschi profitti) del capitale finanziario e 1′” onesto” commercio sul mercato libero, tra i cartelli e i trust da un lato e l’industria libera dall’altro, ecc.
Altrettanto retrograda è anche, come abbiamo visto, la famosa teoria dello “ultra- imperialismo” escogitata da Kautsky. Confrontate il ragionamento di Kautsky su questo tema nel 1915 con quello di Hobson nel 1902.
Kautsky: “.. Non potrebbe la politica imperialista attuale essere sostituita da una politica nuova, ultra – imperialista, che al posto della lotta tra i capitali finanziari nazionali mettesse lo sfruttamento generale nel mondo per mezzo del capitale finanziario internazionale unificato? Tale nuova fase del capitalismo è in ogni caso pensabile. Non ci sono però premesse sufficienti per decidere se essa è realizzabile”
Hobson: ” Il cristianesimo, consolidatosi in pochi e grandi imperi federali, ognuno dei quali ha una serie di colonie non civili e di paesi dipendenti, sembra a molti lo sviluppo più conforme alle leggi delle tendenze attuali, anzi, lo sviluppo che può dare massima speranza di pace permanente sulla solida base dello inter – imperialismo”.
Kautsky chiama ultra- imperialismo o super- imperialismo ciò che, tredici anni prima di lui, Hobson chiamava inter- imperialismo. A parte la formazione di una nuova parola erudita per mezzo della sostituzione di una particella latina con un’altra, il progresso del pensiero ” scientifico” di Kautsky consiste soltanto nella pretesa di far passare per marxismo ciò che Hobson descrive in sostanza come ipocrisia dei pretucoli inglesi. Dopo la guerra contro i boeri era del tutto naturale che questo reverendissimo ceto si sforzasse soprattutto di consolare i piccoli borghesi e gli operai inglesi che avevano avuto non pochi morti nelle battaglie dell’Africa del Sud e che assicuravano, con un aumento delle imposte, più alti guadagni ai finanzieri inglesi. E quale consolazione poteva essere migliore di questa, che l’imperialismo non era poi tanto cattivo, che esso si avvicinava all’inter- (o ultra-) imperialismo capace di garantire la pace permanente. Quali che potessero essere i pii desideri dei pretucoli inglesi e del sentimentale Kautsky, il senso obiettivo, vale a dire reale, sociale, della sua ” teoria” è uno solo: consolare nel modo più reazionario le masse, con la speranza della possibilità di una pace permanente nel regime del capitalismo, sviando l’attenzione dagli antagonismi acuti e dagli acuti problemi di attualità e dirigendo l’attenzione sulle false prospettive di un qualsiasi sedicente nuovo e futuro “ultra- imperialismo”. Inganno delle masse: all’infuori di questo, non v’è assolutamente nulla nella teoria “marxista” di Kautsky…
I capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti. E la spartizione si compie “proporzionalmente al capitale”, “in proporzione alla forza”, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro sistema di spartizione. Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico. Per capire gli avvenimenti, occorre sapere quali questioni vengono risolte da un mutamento di potenza; che poi tale mutamento sia di natura “puramente” economica, oppure extra- economica (per esempio militare), ciò, in sé, è questione secondaria, che non può mutare nulla nella fondamentale concezione del più recente periodo del capitalismo. Sostituire la questione del contenuto della lotta e delle stipulazioni tra le leghe capitalistiche con quella della forma di tale lotta e di tali stipulazioni (che oggi può essere pacifica, domani bellica, dopodomani nuovamente pacifica), significa cadere al livello del sofista…
Pertanto, nella realtà capitalista, e non nella volgare fantasia filistea dei preti inglesi o del “marxista” tedesco Kautsky, le alleanze “inter imperialiste” o “ultra imperialiste” non sono altro che “un momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, su di un unico e identico terreno, dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta. E il saggio Kautsky per tranquillizzare gli operai e conciliarli coi socialsciovinisti passati dalla parte della borghesia stacca uno dall’altro gli anelli di un’unica catena, stacca l’odierna alleanza pacifica (e ultra imperialista, persino ultra- ultra – imperialista) di tutte le potenze per “calmare” la Cina (ricordatevi come fu sedata la rivolta dei boxers) dal conflitto non pacifico di domani che prepara per dopodomani una alleanza nuovamente ” pacifica” e generale per la spartizione ad esempio della Turchia, ecc. ecc. Invece della connessione viva tra i periodi di pace imperialista e i periodi di guerre imperialiste, Kautsky presenta agli operai un’astrazione morta per riconciliarli coi loro capi morti.” (Brani tratti da: Lenin, “Imperialismo, fase suprema del capitalismo”, o.c. XXII, pag. 253 – 295)
La natura essenzialmente aggressiva dei rapporti tra gli Stati è sempre stata una loro caratteristica fondamentale, che tuttavia assurge a legge assoluta nel periodo dell’imperialismo. Nella fase del primo capitalismo, costituita da prevalenza di capitale industriale e commerciale, era l’esportazione di merci il contenuto fondamentale delle relazioni economiche internazionali: i rientri di capitale, aumentati del plusvalore realizzato, potevano trovare ancora impiego produttivo nelle metropoli industriali. La lotta tra gli stati era soprattutto una lotta per la conquista dei mercati esteri, incuranti del loro influenzamento politico. Nella fase imperialista, invece, è caratteristica fondamentale dei rapporti internazionali l’esportazione dei capitali, che vagano alla ricerca di investimenti produttivi sempre più aleatori. Perfino il liberale Hobson sapeva che la via dell’espansione imperialistica era una necessità per gli stati imperialisti ed è Lenin stesso a chiosare “elementare verità”, nei “Quaderni sull’imperialismo”, la sua affermazione che “rinunciare all’espansione imperiale significa lasciare il mondo alle altre potenze“. L’imperialismo non è dunque una via volontariamente scelta, ma una strada obbligata per gli stati imperialisti. Con esso, a differenza della fase precedente, si sviluppa sempre di più la tendenza al dominio politico dei vari stati verso cui sono indirizzati gli investimenti dei capitali, in quanto è interesse delle centrali finanziarie ridurre al massimo il rischio connesso alle condizioni politiche di quei paesi.
Per il marxismo, dunque, l’inevitabilità della guerra imperialista deriva, in definitiva, dalla legge mortale per il capitalismo, che Marx gli ha scoperto fin da un secolo e mezzo fa. Si tratta della legge della caduta del saggio medio di profitto, che gli ideologi borghesi non hanno mai capito, perché non la possono capire, ma che anche pretesi marxisti hanno spesso travisato, in quanto hanno dimenticato che le grandezze economiche di cui parla Marx non sono monetarie, ma sociali. Non manca una teoria marxista della moneta, ma le grandezze economiche, che determinano l’evoluzione del modo di produzione capitalistico, sono espresse nell’unità di misura “tempo di lavoro medio sociale”, che tutti i borghesi hanno sempre definito astratta ed inconsistente. Le categorie economiche marxiste, quindi, non sono quantificabili in termini monetari, ma indicano le linee di tendenza, che inevitabilmente seguiranno le classi sociali, quando saranno spinte ad agire in senso antagonistico. Se si vuol capire il senso e la portata scientifica di tale legge, bisogna uscire fuori dagli inganni dei dati forniti da tutte le statistiche borghesi (nessuna di esse fa riferimento al tempo di lavoro medio sociale), quali gli indici della produzione, del reddito nazionale, delle quotazioni di borsa, delle quotazioni delle monete etc. Tutti questi dati, come sappiamo, sono molto utili per chi ha da fare speculazioni commerciali o finanziarie, ma, per quanto riguarda l’analisi dei rapporti sociali, possono rappresentare tutt’al più dei sintomi e, spesse volte, contraddittori, dell’intensità e della vastità della crisi del capitalismo o della sua vitalità. La crisi profonda e irreversibile del capitalismo è, viceversa, ben rappresentata dalla legge di Marx, che, per la sua semplicità, è sempre stata considerata dagli economisti borghesi banale e non adatta a comprendere la complessità dei fenomeni economici.
Per prima cosa, questi pretesi scienziati, non hanno mai riconosciuto validità scientifica alla nozione basilare dell’economia marxista, che è quella di plusvalore; quindi, con loro ogni discorso è chiuso in partenza. O i rapporti sociali tra le classi sono fondati, nel modo di produzione capitalistico, sull’estorsione di plusvalore, e allora su questo infernale sistema economico è scritta la parola ‘morte’ fin dalla sua origine, oppure tutta l’analisi marxista crolla. “Tertium non datur”. E’ ovvio non solo che i comunisti vogliono la prima soluzione, ma anche che la storia ha dimostrato che questa tesi coincide esattamente con i materiali rapporti sociali così come si sono evoluti da quando il capitalismo è sorto. Rapporti che sono inquadrabili oggettivamente e razionalmente solo se si confermano nella loro integrità i principi dell’analisi marxista, al di fuori dei quali esistono solo interpretazioni soggettive, mistico – irrazionali e religioso- confessionali degli avvenimenti sociali passati e futuri.
La legge della caduta del saggio di profitto in Marx dice semplicemente che tale saggio, su cui si basa tutto il modo di produzione, è destinato, nonostante le molte controtendenze, a cadere e con la sua caduta sono destinati ad entrare in crisi irreversibilmente tutti i rapporti sociali. Infatti il saggio medio di profitto viene espresso con la nota frazione p/c+v, dove al numeratore c’è la massa del plusvalore e al denominatore l’ammontare del capitale costante e del capitale variabile. Si tratta ormai non più di grandezze nazionali, ma internazionali, in quanto le relazioni economiche e commerciali internazionali, che già Marx indicava come controtendenza, hanno definitivamente trasformato il capitalismo in un unico grande mercato mondiale. Ebbene, se trasformiamo, con una semplice operazione matematica, che ci facilita la comprensione dei rapporti sociali che stanno dietro quei simboli, la suddetta frazione nell’altra [p/v fratto c/v + 1], scopriamo che il saggio medio del profitto è direttamente proporzionale al saggio di plusvalore e inversamente proporzionale alla composizione organica del capitale. Ecco così scoperta la tendenza fondamentale e le eventuali controtendenze, con l’avvertenza che tutte le possibili e immaginabili controtendenze possono solo ritardare ed aggravare la crisi finale del capitalismo, ma non evitarla. Ciò che condanna inevitabilmente alla crisi e alla morte il capitalismo è la tendenza sempre più marcata alla crescita del capitale costante, all’impiego più che proporzionale del lavoro morto rispetto al lavoro vivo. Tendenza ineliminabile perché ogni capitalista, ogni gruppo industriale, ogni centrale finanziaria privata o pubblica, sa che solo così potrà appropriarsi di una proporzione sempre maggiore di plusvalore prodotto socialmente attraverso il “miracolo” della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, prima, e di mercato poi. E, tuttavia, nessuno capisce, e tanto meno si preoccupa, del fatto che è proprio questo egoistico comportamento, connaturato al capitalismo e quindi ineliminabile nel quadro dei rapporti capitalistici, a provocare una sentenza di morte senza appello dello stesso capitalismo. La socialità della produzione non tollera a lungo andare l’appropriazione privata. Per quante dolorose controtendenze abbia dovuto sopportare l’umanità, dalle più brutali tecniche di sfruttamento del lavoro vivo per far innalzare il numeratore di quella frazione (p/v), al più brutale sfruttamento dei popoli di colore e alla più brutale distruzione delle risorse energetiche della terra, per accaparrarsi materie prime a buon mercato ed ottenere così una provvidenziale diminuzione di (c/v), intorno al secondo decennio di questo secolo, gli stati imperialisti hanno dovuto trovare di meglio: una guerra generalizzata tra gli stessi stati imperialisti, che, come e più delle altre controtendenze, funzioni in modo tale da diminuire drasticamente la composizione organica media. Come è chiaro, tutte le controtendenze funzionano un po’ come antitossine, che inconsapevolmente ogni organismo malato produce, e pertanto sono tutte accompagnate da giustificazioni morali ed ideologiche. In particolare, proprio il ricorso alla guerra viene giustificato facendo appello all’amor di patria, all’orgoglio nazionale, alla difesa dei “sacri” principi di libertà e del diritto internazionale, che giustificherebbero pure il sacrificio personale, tanto indesiderato quanto inevitabile ed “eroico” per la salvezza dei “nostri valori più cari”. Dal 1914 in poi il mondo è entrato in questa fase e, come spiega Lenin in altri testi sui quali torneremo in seguito, da allora altre guerre dello stesso tipo possono scoppiare in qualunque momento. Il terreno, sul quale è diventato inevitabile il ricorso ad un tale mezzo drastico allo scopo di tentare una impossibile salvezza del capitalismo dal crollo sociale al quale andrà sicuramente incontro, si è ormai prodotto con la crisi che ha acceso la prima guerra mondiale. Essa ha aperto una nuova fase storica: quella della disperata resistenza borghese alla sua fine e dell’altrettanto inevitabile attacco del proletariato. Si tratta di una lotta mondiale, il cui esito storico è già stato anticipato nell’Ottobre del 1917. Essa si concluderà inevitabilmente con la vittoria mondiale del comunismo, perché le guerre imperialiste non rappresentano affatto una soluzione della crisi storica del capitalismo, bensì il suo aggravamento in ogni caso e, nella migliore delle ipotesi per il capitalismo, solo il suo rinvio.