CRISI ALIMENTARE GLOBALE
La guerra in Ucraina ha scompaginato gli equilibri globali. Lo scontro intreccia molti piani (militare, finanziario, economico, energetico) e fin da subito, ha ecceduto i confini geografici del teatro bellico, con ruoli centrali di Turchia e Cina, aprendo la possibilità di un’estensione del conflitto su scala planetaria. Mentre la conta dei morti aumenta, i costi dello scontro militare raggiungono anche l’Europa.
Mentre la conta dei morti aumenta, i costi dello scontro militare raggiungono anche l’Europa. I rincari di luce e gas già gravano sui bilanci famigliari. E la tempesta pare essere dietro l’angolo: si prevedono, e in alcuni casi si vedono già, aumenti consistenti dei generi di prima necessità. Grano, mais, olio e soia, in primis. Inoltre, il crescere dell’inflazione sta erodendo il potere d’acquisto. Nel mercato globale dei cereali, Russia e Ucraina hanno prodotto il 28,47% – rispettivamente il 19.5% e l’8.97% – delle esportazioni globali di grano, per un importo totale di 14.71 miliardi di dollari.[1]
Un mercato che le due nazioni in guerra contendono a Canada (13.9% per 7,13 miliardi), Stati Uniti (13,7% con 7,04 miliardi) e Francia (9.26% con 4.76 miliardi). Seguono altri produttori: l’Australia (5,21%), la Germania (4.32%) e l’Argentina (4.17%). Tra i principali importatori di grano, invece, ci sono l’Egitto (10,1%, per 5,2 miliardi), la Cina (6.75%, 3.47 miliardi), la Turchia (4.74%), l’Indonesia (4.04%) e la Nigeria (4.17%). La classifica continua con paesi del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia, dell’America Latina: Algeria (3.19%), Filippine (2.9%), Bangladesh (2.5%), Marocco (2.49%), Brasile (2,38%) e Messico (1.91%). Già da una prima analisi di questi dati è possibile riscontrare che numerosi paesi non godono della sovranità alimentare, ossia sono costretti a importare grano per far fronte al fabbisogno interno. Ben prima dell’inizio del conflitto, la situazione era critica per il sovrapporsi di molteplici fattori. Infatti, il prezzo del grano – e di tutti i cereali – era aumentato vertiginosamente (48%) durante la pandemia, nel 2021, ma anche a causa dei cambiamenti climatici, della siccità nei paesi produttori e della conseguente bassa produzione. Si pensi al caso degli Stati Uniti che rappresentano il 13.7% della produzione di grano e sono i maggiori esportatori di cereali (30.5 miliardi di dollari). Nel periodo in considerazione, era stato registrato un calo netto della produzione – concentrata prevalentemente in Oregon, Texas e Louisiana. Turchia e Iran, addirittura, sono stati costretti a raddoppiare l’importazione a causa della scarsa produzione nazionale. Nella stessa condizione si sono trovate anche la Francia, falcidiata dal maltempo, e l’Argentina. Se adottiamo una lente più ampia – quella dei cereali – la situazione cambia solamente in cima alla classifica. Come già anticipato, gli Stati Uniti sono il primo produttore (con 20,2 miliardi di dollari, pari al 15.7%). Seguono Russia (8,95%, ossia 11.5 miliardi), Ucraina (8,14%, 10,5 miliardi), Argentina (7,33%, 9,41 miliardi), India (6,93%, 8,9 miliardi). Tra i maggiori importatori, invece, ci sono la Cina (8,56%), l’Egitto (5,59%), il Giappone (3,89%), il Messico (3,5%) e l’Arabia Saudita (3,38%). Nel continente africano, gli stati obbligati a comprare cereali sono Algeria, Nigeria, Marocco, Tunisia, Senegal, Sud Africa, Costa d’Avorio e Benin; in Asia: Vietnam, Filippine, Iran, Indonesia, Malesia, Iraq, Yemen e Qatar; in America Latina: Brasile, Colombia, Peru, Cile, Venezuela ed Equador. Dunque, sono evidenti alcune questioni di carattere storico. Per prima cosa, una parte consistente dei Paesi costretti a importare grano e cereali hanno mantenuto, fin dal colonialismo e anche dopo la decolonizzazione, un rapporto di dipendenza agro-alimentare con quelli europei e occidentali. In alcuni casi, il controllo delle sementi – e la modificazione per finalità commerciali – ha provocato e continua a causare veri e propri disastri socio-ambientali: desertificazioni, crisi economiche e migrazioni. Per comprendere quale sia il potere assunto da questo comparto – e il pericolo che sta correndo il Pianeta – si pensi che nel 1981 le aziende produttrici di sementi erano 7.000, mentre oggi sono solo una ventina di multinazionali che governano oltre l’80% del mercato globale dei semi e il 75% dei pesticidi. Il controllo e la modificazione delle sementi possono avere impatti globali, arrivando a determinare persino il default di un paese, se la sua economia è centrata sul settore agroalimentare come spesso è accaduto in Africa, America Latina e Asia. Inoltre, in moltissime ex-colonie il water grabbing (sarebbe l’accaparramento dell’acqua, si riferisce a situazioni in cui attori potenti sono in grado di prendere il controllo o deviare a proprio vantaggio risorse idriche preziose, sottraendole a comunità locali o a intere nazioni) è endemico. Prendiamo a campione esemplificativo il continente più falcidiato da questo fenomeno: l’Africa. Solamente per quanto riguarda i cereali, numerosi sono i progetti di estrazione di ricchezza avviati negli ultimi due anni da parte di capitali esteri: ad esempio, il governo egiziano che ha stretto un accordo con la holding saudita al Dahra per la produzione di grano (30%), mais (25%), patate (25%) ed erba medica (20%) nella zona di Almunajah Abu Wahsh e in altre aree del sud[2]. Poco lontano dal confine con il Sudan, le autorità del Cairo hanno venduto terre ai fondi internazionali Rajhi[3] e Jenaan[4]. In Sudan, i siti di produzione agricola sono numerosi. Nel perimetro tra Kartum, al Dabbah, Merowe, Abu Hamad e Atbara, operano la cinese ZTE Corporation, l’Abu Dhabi Fund for Development, il fondo Hassad Food del Qatar, il al Rajhi International fund e Zayed al Khair degli Emirati Arabi Uniti, il Hail Agriculture dell’Arabia Saudita, con produzione intensiva di grano, mais, erba medica, sorgo e orzo. Più a sud, a spartirsi le zolle fertili sono compagnie di Abu Dhabi (al Dahra), di Djibuti (Societé Dijiboutienne de Securité Alimentaire) e dell’Arabia Saudita (Nadec). Stessa è la situazione in Etiopia, Sudan del Sud, Uganda e Tanzania. In Zambia, nell’area tra Katima Mulilo, Livingstone, Serenje e Luanshya, sono attivi oltre 17 grandi progetti di produzione agricola finanziati da capitali esteri. Situazioni simili si registrano anche in Mozambico, Zimbabwe, in Burkina Faso e Senegal. E, va ripetuto, ci si è limitati ad esaminare i dati degli ultimi due anni relativi ai nuovi territori comprati, affittati, rubati da capitali esteri per la coltivazione di cereali. Dunque, ricapitoliamo: controllo delle sementi e land grabbing. Se a ciò si aggiunge la crisi economica derivante dalla pandemia e l’incapacità da parte dei governi dei Paesi del Sud globale di dare risposte – efficaci ed efficienti – per una riforma agraria, per un supporto ai piccoli agricoltori, o per garantire una giusta alimentazione a ogni persona senza devastare gli ecosistemi, la situazione diventa davvero tragica.
IL CAPITALISMO BUROCRATICO E L’ECONOMIA DEL TERZO MONDO
Pera capire maggiormente il ruolo subordinato del Sud del Mondo mercato globale imperialista bisogna usare il concetto di Capitalismo Burocratico.
Il Capitalismo Burocratico è il capitalismo che l’imperialismo sviluppa nei paesi oppressi.
La borghesia burocratica è costituita dai dirigenti/ funzionari del settore pubblico dell’economia e dai capitalisti le cui imprese nascono e si sviluppano principalmente grazie all’opera dello Stato.
Non sono vere le tesi che affermano che per l’imperialismo necessita di un regime totalmente controllato e che con la cosiddetta globalizzazione c’è stato un salto qualitativo nelle penetrazione dei paesi oppressi, poiché il Capitale non si accontenta di rapinare materie prime e prodotti agricoli, e non si accontenta più del controllo indiretto della produzione.
Se guardiamo ai fatti, si vede che i dati dell’economia capitalista dimostrano chiaramente che non è così. Un’analisi degli investimenti diretti nei “paesi in via di sviluppo” (termine diplomaticamente osceno per definire i paesi oppressi), mostra nella sostanza non c’è stato un tale cambiamento qualitativo, ma al contrario, le caratteristiche dell’economia dei paesi oppressi continuano a essere gli stessi.
Nel periodo 1984-1989,[5] i flussi mondiali di investimenti esteri diretti furono di 115 miliardi di dollari USA, che diventeranno circa 500 miliardi di dollari USA nel periodo 1994-1999, media a valori correnti. Il flusso di investimenti ai cosiddetti “paesi in via di sviluppo” passò dal 19% a più del 30% (150 miliardi di dollari USA) rispettivamente. Se prendiamo le cifre 1994-1999, il 50% (75 miliardi) corrisponde a 4 paesi “in via di sviluppo”: Cina, Messico, Argentina (che infatti sono paesi OCSE). Argentina, e Brasile assorbirono oltre il 16% (24 miliardi9 dell’investimento estero diretto ai “paesi in via di sviluppo” nel periodo designato. Se si esamina in maniera dettagliata, si nota che le esportazioni di Argentina e Brasile verso i paesi imperialisti continua a essere costituita da materie prime e prodotti agro pecorai, mentre la produzione industriale è per il mercato locale. Così le imprese e i monopoli imperialisti che si espandono in questi paesi, non hanno applicato strategie e comportamenti diversi a quelli che avevano portato a termine in tutto il periodo precedente successivo alla seconda guerra mondiale, quando l’imperialismo stimolò lo sviluppo del capitalismo burocratico con la strategia di “industrializzazione per sostituzione delle importazioni”, che pretendeva di essere diverso a quello che aveva applicato nel periodo precedente fondato sulle esportazioni delle materie prime, sull’industrializzazione per l’esportazione. Inoltre vediamo che la cosiddetta globalizzazione non rappresenta nulla di nuovo, nessun salto qualitativo, in sostanza lo sviluppo degli ultimi 20 anni è solo la continuazione di quello che è sempre stato l’imperialismo.
In tutti gli investimenti stranieri diretti in Argentina e Brasile, il principale paese investitore continua a essere gli USA. Altri paesi imperialisti, come la Germania, la Francia, la Svizzera, il Regno Unito, l’Italia e l’Olanda sono anche loro degli importanti investitori in questi paesi, che vedono, inoltre, una presenza crescente d’imprese spagnole, portoghesi e giapponesi (in particolare in Brasile). Pertanto l’imperialismo USA si mantiene nella regione in quantità simile (con una leggera crescita “proporzionale” al periodo precedente).
[1] https://www.fao.org/news/story/it/item/43215/icode/
[2] https://www.infoaut.org/conflitti-globali/crisi-alimentare-globale-guerra-e-neocolonialismo
[3] https://it.investing.com/funds/al-rajhi-commodities-mudaraba
[5] Questi dati sono tratti dal documento del Movimento Popolare Perù, intitolato Critica ad un articolo apparso su “A World to win” n. 28, del M.P.P., dal Sol Rojo n. 20, marzo 2003.