LA NATURA DEL BIOCAPITALISMO

      Il capitalismo ha attraversato nella sua lunga storia diverse fasi, ma ha seguito un unico percorso evolutivo, caratterizzato dal processo di una progressiva diffusione del capitale nella realtà sociale. Il capitale infatti, in virtù della sua natura quantitativa e impersonale, ha la capacità di assumere qualsiasi forma e di propagarsi nel mondo qualitativo del valore d’uso e dei bisogni umani.  In altre parole, ha la capacità di smaterializzarsi e di penetrare in profondità nella cultura individuale e sociale, facendo assumere a quest’ultima un carattere astratto.

   Innanzitutto, il processo di astrazione riguarda il capitale stesso. La ricchezza economica, in cui da sempre esso si concretizza, è infatti cambiata: un tempo legata alla concretezza della terra e ad altri beni immobili, ora si è fatta più mobile e leggera, assumendo ad esempio le forme del credito e della finanza. Ne è testimonianza la smaterializzazione progressiva del denaro, avvenuta, a partire dalla Grecia antica, attraverso tre fasi successive: il denaro che incorpora direttamente il suo valore (d’oro, d’argento), il denaro di carta e l’assegno (che svolgono una funzione simbolica in quanto sono realizzati con un materiale privo di valore, sebbene abbiano ancora un’esistenza concreta) e la moneta elettronica, cioè il denaro virtuale circolante nelle reti telematiche. Come ha messo in luce già alla fine dell’Ottocento Georg SImmel[1], che il denaro ha perso il suo valore materiale e specifico per trasformarsi in valore astratto e indistinto. Ciò gli ha consentito però di funzionare sempre meglio come unità di misura di tutte le cose, come “equamente generale” che livella le differenze qualitative e quantifica tutto per poterlo rendere scambiabile. 

   Marx affermava che nel capitalismo il processo di astrazione riguarda principalmente il lavoro ed è evidente nella particolare capacità della forza lavoro di trasformare il suo valore d’uso in valore economico, dunque di farsi astratta. La qualità della forza lavoro diventa cioè quantità nel momento in cui il lavoro viene venduto sul mercato al capitalista come un qualsiasi merce. Con lo sviluppo dei mercati e del capitalismo, il lavoro ha trasformato progressivamente la propria natura, da concreta in astratta. Perciò, anche il lavoro come il denaro, è stato smaterializzato dal processo di diffusione sociale del capitale.

   Una tappa fondamentale nel processo di astrazione del lavoro si è avuta a metà del Novecento, quando nei paesi capitalisti più avanzati i cosiddetti “colletti bianchi”, cioè i lavoratori che occupano posizioni direttive, tecniche e impiegatizie hanno cominciato a pesare quantitativamente nelle aziende. Per questo motivo molti sociologi borghesi cominciavano a parlare, erroneamente di “società postindustriale”.

   Approdiamo un attimo questa problematica inerente i “ceti medi”. Nel Manifesto del Partito Comunista  Marx ed Engels volevano mettere in evidenza la scissione sempre più netta, sotto il profilo politico, della società capitalista in due “grandi campi” fra loro antagonisti, campi che hanno la loro forza egemone nella classe borghese e nella classe proletaria. Nel 18 brumaio, e nelle Lotte di classe in Francia, in Rivoluzione e controrivoluzione in Germania e in altre opere storico-politiche di Marx e di Engels troviamo la piena conferma di questa loro concezione (che sarà poi ripresa e sviluppata da Lenin). Ed è innegabile che tutto lo sviluppo della società capitalista fino ad oggi sia andata in questa direzione.

   Sotto il profilo economico, la questione della riduzione marxiana del sistema capitalista a due soli classi è stata, in generale, fraintesa, confondendo il problema della produzione del valore e del plusvalore, con quello della sua realizzazione. Per quanto riguarda l’origine del plusvalore, è del tutto irrilevante sapere se, e come, esso poi sarà ripartito fra diverse classi che abbiano titolo a percepirne una determinata quota; interessa sapere chi lo estrae a chi, e questo rapporto si instaura fra due sole classi. Per quanto riguarda, invece, la realizzazione del plusvalore, l’esistenza di altre classi (oltre alle due fondamentali degli operai salariati e dei capitalisti) non solo non è negata da Marx, ma è da lui ritenuta necessaria per il funzionamento del sistema capitalistico.

   Nel Capitale, Volume III, egli afferma esplicitamente che “allo stato attuale delle cose, la ricostituzione dei capitali impiegati nella produzione dipende soprattutto dalla capacità di consumo delle classi improduttive”. E nelle Teorie sul plusvalore, Volume II, mette in rilievo mette il “costante accrescimento delle classi medie che si trovano nel mezzo, fra gli operai da una parte e i capitalisti e i proprietari fondiari dall’altra, in gran parte mantenute direttamente dal reddito, e che gravano come un peso sulla sottostante base lavoratrice”.

   Nel III volume delle Teorie del plusvalore vi è poi un brano ancora più eloquente. Marx spiega come siano i consumatori improduttivi a salvare (almeno in parte) i capitalisti dalle crisi di sovrapproduzione, “poiché i consumatori improduttivi non solo costituiscono un enorme canale di scarico per i prodotti gettati sul mercato, ma da parte loro non gettano alcun prodotto sul mercato; quindi, per quanto numerosi siano, non fanno concorrenza ai capitalisti, ma rappresentano tutta la domanda senza offerta”. Chi sono questi consumatori improduttivi? Sono in primo luogo i proprietari fondiari; ma continua Marx “questi rentiers fondiari non bastano a creare una domanda sufficiente”. Bisogna ricorrere a mezzi artificiali. “Questi consistono, in una massa di sinecuristi[2] statali ed ecclesiastici, in grandi eserciti, pensionati, decime per i preti, in un considerevole debito pubblico e, di tanto in tanto, in guerre dispendiose”.

   Questa descrizione che fa Marx, sembra una descrizione del giorno d’oggi; dall’enorme apparato burocratico dello Stato borghese alle spese militari, dai gravami fiscali per i lavoratori alla voragine del debito pubblico, fino all’otto per mille a favore della Chiesa Cattolica.

   Per quanto concerne la natura e la composizione delle “classi medie”, gli ideologi borghesi hanno interesse, da un lato, a gonfiarne la consistenza quantitativa, dall’altro a ricomprendere sotto la generica etichetta “ceto medio” un conglomerato eterogeneo di classi e ceti diversi (dal punto di vista terminologico, anche Marx ed Engels usano spesso il termine Mittelstande = ceti medi,[3] la questione, tuttavia, non è di parole, ma di sostanza).

   Ci può aiutare ad affrontare questo lavoro sulla definizione di “ceti medi” l’affrontare il rapporto fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.

   I testi generali di riferimento sono alcune pagine del Libro I del Capitale, il cosiddetto Capitolo VI inedito del Capitale stesso, nella parte che si intitola appunto Lavoro produttivo e lavoro improduttivo, il vol. I cap. 4° delle Teorie del plusvalore e l’Appendice allo stesso volume.

   Dal punto di vista del processo lavorativo semplice è produttivo ogni lavoro che mette capo a un risultato utile, a un valore d’uso, a un prodotto qualsiasi destinato al consumo. Dal punto di vista della produzione semplice di merci, è produttivo ogni lavoro che si oggettiva in un prodotto il quale assuma la forma merce, quale unità di valore d’uso e valore di scambio. Nel modo di produzione capitalistico, il processo lavorativo è soltanto un mezzo per la valorizzazione del capitale; perciò, dal punto di vista della produzione capitalistica di merci, è produttivo solo quello che si oggettiva, sì in merci, ma oltre a questo valorizza il capitale, aumenta il capitale, produce cioè un plusvalore per il capitale investito in quel ramo della produzione.       

   Scrive Marx nel    Capitolo VI inedito: “Poiché il fine immediato e lo specifico prodotto della produzione capitalistico è il plusvalore, in essa è   produttivo soltanto quel lavoro – e produttivo solo quell’erogatore di forza-lavoro – che produce direttamente plusvalore; quindi soltanto il lavoro consumato direttamente nel processo di produzione per valorizzare il capitale”.

   Sono dunque produttivi (di plusvalore) i lavoratori che scambiano il proprio lavoro vivo con denaro-capitale, sono improduttivi i lavoratori che scambiano il loro lavoro vivo con un reddito (cioè con una qualsiasi somma di denaro che non funge da capitale) e che pertanto non sono sussunti, né formalmente né realmente, nel rapporto di produzione capitalistico.

   La categoria dei lavoratori produttivi non coincide, dunque, con quella, dei lavoratori salariati. Vi sono lavoratori (per esempio, un giardiniere assunto in modo fisso da una persona che ne compensa il lavoro con una retribuzione mensile), i quali scambiano il loro lavoro semplicemente con un reddito. Questa persona può anche essere un capitalista; ma non è in quanto capitalista che essa assume il giardiniere perché tenga in ordine il giardino di casa. Altro esempio, le colf sono retribuite mensilmente o a ore con retribuzione che il loro datore di lavoro detrae dal proprio reddito. Il lavoro della colf non aumenta alcun capitale; al contrario il salario da essa percepito riduce di volta in volta il reddito della controparte. La colf è dunque una lavoratrice improduttiva.

   L’analisi di Marx è estremamente preciso in proposito: “Ogni lavoratore produttivo è salariato, ma non per questo ogni salariato è lavoratore produttivo. Se il lavoro è comperato per consumarlo in quanto valore d’uso, in quanto servizio, anziché per sostituirlo come fattore vivente al valore del capitale variabile e incorporarlo al processo di predazione capitalistico, il lavoro non è lavoro produttivo, e il salariato non è lavoratore produttivo. In questo caso, il lavoro è consumato per il suo valore d’uso non in quanto pone lavoro di scambio (…) Come le merci che il capitalista compera per il suo consumo privato non sono consumate produttivamente, non diventano fattori del capitale, così non sono consumati produttivamente i servizi che egli acquista, o volontariamente o per necessità di cose (servizi forniti dallo Stato, ecc.), a causa del loro valore d’uso, per il suo consumo”.

   A proposito dei servizi forniti dallo Stato (esercito, polizia, magistratura, pubblica amministrazione, ecc.), Marx nei Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica), Cap. III, distingue ulteriormente il “salario” (Lohn) dal “soldo” (Sold), che fu storicamente la prima forma di retribuzione fissa, percepita dai soldati negli eserciti antichi. Sotto questo aspetto, anche negli Stati moderni i membri delle forze armare, i funzionari, gli impiegati statali ecc. sono degli “assoldati” rispetto ad altre categorie di “salariati”.

   Sotto la generica categoria dei “servizi” la sociologia borghese (e le statistiche borghesi) coprono figure sociali ed appartenenze di classe molto diverse, mistificando il tutto fino al ben noto slogan secondo il quale la società in cui viviamo sarebbe diventata la “società dei servizi” (slogan imbecille, che fa il paio con altri, non meno noti ed altrettanto mistificatori, come la “società dello spettacolo”, la “società dell’informazione”, la “società del benessere”, ecc.).

   Ciò che, invece, richiederebbe oggi un’analisi attenta, e sempre più approfondita, è la crescente sussunzione sotto il rapporto di produzione capitalistico di tutta una serie di attività che, in precedenza, erano condotte in modo non capitalistico da lavoratori autonomi (ristorazione, lavanderie, manutenzione e ripartizione, noleggio auto, attività culturali e ricreative, ecc).

   A proposito di certe attività di lavoro che non consistono nella produzione di beni materiali, Marx fa tre esempi che chiariscono molto bene le idee: lo scrittore, la cantante e l’insegnante.

   Lo scrittore:

  1. Può scrivere esclusivamente per il proprio piacere;
  2. Può scrivere libri per venderli, di volta in volta, come merci sul mercato librario: in tal caso, fa di se stesso un “trafficante di merci”;
  3. Scrive libri in modo continuativo su comando di un editore-capitalista che lo assume come suo salariato; valorizza, in tal caso, col suo lavoro il capitale dell’editore, produce per lui un plusvalore (Marx lo definisce esplicitamente, in quest’ultimo caso “letterato-proletario”).

   La cantante:

  1. Può cantare esclusivamente per il proprio piacere.
  2. Canta per un complesso che riceve di volta in volta (vendita di un servizio che assume forma di merce); è “un trafficante di merci”.
  3. È assunta, per cantare, in modo continuativo da un impresario teatrale capitalista che le corrisponde un salario, anch’essa, in quest’ultimo caso, aumenta un capitale; è una “cantante-proletaria”.

   L’insenante:

  1. Dà lezioni private per un compenso che riceve di volta in volta dai suoi allievi (vendita di un servizio che assume forma di merce) è “trafficante di merci”;
  2. Viene assunto come salariato da un istituto di insegnamento privato gestito su base capitalistica: valorizza il capitale del suo imprenditore, produce per lui un plusvalore; “è in insegnante-proletario”.

   Marx aggiungeva, ai tempi suoi, che “la grande maggioranza di questi lavori non è sottomessa (neppure) formalmente al capitale, ma rientra nelle forme di transizione verso il modo di produzione capitalistico”. Questa transizione si sta compiendo in forma sempre più accelerata.

Possiamo dunque concludere che uno stesso lavoro:

  1. Può essere produttivo o improduttivo a seconda che sia eseguito da un capitalista in quanto agente del capitale o per il consumo di un consumatore qualsiasi (un artigiano, un operaio, un capitalista, un contadino, ecc.);
  2. Il carattere produttivo o improduttivo del lavoro non dipende dal contenuto materiale del lavoro.

   Inoltre, uno stesso lavoratore può, in certi casi, cumulare nella sua persona entrambe le figure di lavoratore produttivo e di lavoratore improduttivo. Per esempio: il dipendente di una ditta commerciale, quando trasporta le merci all’interno del negozio e le dispone per la vendita, svolge un lavoro direttamente produttivo di pluslavoro (trasporto = prolungamento della produzione nella sfera della circolazione); quando vende le merci al cliente, svolge un lavoro non direttamente produttivo di plusvalore.

   Dunque, nell’odierna società capitalista a proposito del rapporto fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, alcune figure che i sociologi borghesi includono nel “ceto medio” fanno parte integrante del proletariato.

   Altre figure sociali appartengono, invece, alla piccola borghesia urbana, classe intermedia della società (distinta dalle classi fondamentali della società civile stessa): ne fanno parte gli artigiani nella sfera della produzione e i piccoli commercianti in quella della circolazione. Come scrivono lapidariamente Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista, essi spesso “combattono la borghesia”, ma “per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancor più, essi sono reazionari, essi tendono a far girare all’indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi economici presenti, ma i loro interessi futuri”.

   La miglior descrizione di questa classe sociale rimane ancor oggi quella che ne dette Engels in Rivoluzione e controrivoluzione in Germania: “La sua posizione intermedia tra la classe dei capitalisti, commercianti, ed industriali maggiori, tra la borghesia propriamente detta e la classe dei proletari o industriale, determina il suo carattere. Mentre essa aspira alla posizione della prima, il più piccolo rovescio di fortuna precipita i suoi membri nelle file della seconda”. Dal punto di vista politico, è una classe estremamente instabile e vacillante nelle sue opinioni, perché “sballottata esternamente tra la speranza di salire nelle fila della classe più ricca  e la paura di essere ridotta alla condizione di proletari e pesino di poveri, tra la speranza di favorire i propri interessi con la conquista di una partecipazione nella direzione degli affari pubblici e il timore di provocare, con la sua opposizione intempestiva, la collera di un governo da cui dipende la sua stessa esistenza, perché ha il potere togliere i migliori clienti”.Questa descrizione potrebbe benissimo essere associ della sinistra borghese.

   Piccoli commercianti, artigiani, piccoli contadini sono classi di origine precapitalistica che conservano, anche nella fase del capitalismo maturo, la loro essenziale caratteristica di classi transitorie. Ma, accanto a questa piccola borghesia di tipo tradizionale, la dinamica interna del capitalismo nella sua fase caratterizzata dal Capitalismo Monopolistico di Stato genera una piccola borghesia urbana di tipo nuovo (tecnici, pubblicitari, esperti di marketing ecc.) che svolge ruoli particolari sia nella sfera della produzione che in quella della circolazione del capitale.

   Infine l’esigenza di una mediazione statale che regoli in forme più istituzionali le crescenti contraddizioni e i sempre più gravi squilibri del capitalismo nell’epoca imperialista genera uno sviluppo ipertrofico dell’apparato statale e parastatale (pubblico impiego).

   Nelle società di tardo capitalismo, tende a essere assorbita nel “ceto impiegatizio” statale anche una parte notevole di quella che Marx chiamava “ceti ideologici” (insegnanti, scrittori) e di quegli altri “ceti sociali” (avvocati, medici, liberi professionisti ecc.) che, in epoca precapitalistica, svolgevano la loro attività in forma privata.

   Esiste, inoltre, una massa di lavoratori salariati che, nelle città e nelle campagne, vendono la loro forza-lavoro al capitale solo per una parte limitata della loro giornata lavorativa, mentre nell’altra parte della loro giornata svolgono lavori non sussunti sotto il rapporto di produzione capitalistico (lavori di natura autonoma). Questi lavoratori salariati potrebbero essere classificati come semiproletari.

   Con l’arrivo del post fordismo[4] nelle metropoli imperialiste la grande fabbrica ha assunto la forma di una struttura reticolare dispersa sul territorio e composta da piccole realtà produttive.

  Questo processo nasceva come una risposta alla crisi generale del capitalismo (crisi non solo economica, ma anche politica, culturale e ambientale) cominciata nella metà degli anni Settanta.

   La crisi oltre alla transizione tra fordismo e postfordismo, ha provocato anche la tendenza nell’affermazione di nuove tecnologie come forza trainante dell’espansione economica[5] e la tendenza alla massiccia internazionalizzazione dei flussi finanziari.

   Un altro fattore che ha favorito le ristrutturazioni aziendali oltre all’accentuazione della concorrenza determinata dalla crisi è stata la lotta di classe dove negli anni Settanta nelle metropoli imperialiste ci fu una radicalizzazione delle lotte operaie.

   Non è certamente un caso che negli USA le prime aziende a essere ristrutturate sono quelle più sindacalizzate.

    In effetti, dopo il ciclo di lotte operaie degli anni ‘60/’70, i capitalisti sentivano la necessità di sperimentare nuove strategie produttive che consentissero loro un maggior controllo. Ma era la stessa evoluzione del sistema industriale che spingeva i capitalisti a ricercare una maggiore flessibilità produttiva. Una flessibilità resa possibile anche dalla riduzione del costo dei trasporti e dalla disponibilità di quella particolare struttura a rete che caratterizza il funzionamento delle tecnologie informatiche. A ciò va aggiunta la spinta al cambiamento derivante dalla crisi economica cominciata come si diceva prima nella metà degli anni Settanta, quando molti mercati dei beni di largo consumo raggiunsero per la prima volta il livello della maturazione e della saturazione.

   Nel corso dei secoli, anche la materia ha vissuto un processo di astrazione in conseguenza dell’analogo processo subito dal capitale. I beni hanno progressivamente ampliato i loro significati, sviluppando le loro componenti comunicative e immateriali a scapito di quelle puramente materiali. A partire dalla fine del Medioevo, prese vita il “mercato dello stile”, che si basava sullo scambio di oggetti preziosi, opere d’arte e persino volumi manoscritti in edizioni di lusso, cioè manufatti unici che richiedevano molti mesi per la loro realizzazione. Si trattava di un mercato riservato agli aristocratici e ai ricchi borghesi, che per diversi secoli è rimasto tale. Con l’arrivo dell’Ottocento però l’industrializzazione ha fatto grandi passi avanti e la riproduzione in serie di oggetti di stile ha dato l’avvio a un mercato di massa per questi articoli, un mercato cioè in cui un maggior numero di persone poteva permettersi di acquistare imitazioni standardizzate di oggetti tipici del mondo aristocratico.

   Nell’Ottocento ha inoltre avuto origine il concetto di design. Esso inizialmente si riferiva all’intero processo di progettazione dei prodotti, ma via via il suo significato è passato a indicare la possibilità di abbellire la superfice esterna degli oggetti. Possibilità realizzabile con decorazioni e forme slegate dalla funzione svolta dall’oggetto. Nel contempo, anche la disponibilità di nuove tecniche di costruzione e di materiali come l’acciaio e le grandi lastre di vetro ha consentito la creazione di uno stile architettonico sempre più astratto, in grado di esprimere una tensione verso l’immaterialità e la trascendenza. Il grattacielo, ardita invenzione statunitense di fine Ottocento, simbolizza meglio di qualunque altra architettura creata dagli esseri umani l’idea di crescita economica, ma anche di spinta verso l’alto e dunque verso l’immaterialità del cielo.

   Nel Novecento, il processo di smaterializzazione è proseguito tanto che fra gli innovatori dell’architettura e del design moderni, dal 1900 in poi, il fascino dell’immateriale diventò lo scopo del loro lavoro. Nei loro progetti e disegni, e spesso nelle loro parole, l’impulso a liberare la forma dalla sostanza rappresentava uno scopo. È il caso dei designer Walter Gropius, Marcel Breuer oppure di architetti come Le Corbusier e Frank Lloyd Wright.

   Negli ultimi decenni il processo di smaterializzazione degli oggetti è stato particolarmente evidente grazie ai progressi dell’elettronica. Di dimensioni sempre più ridotte e realizzati con nuovi materiali leggeri, gli oggetti sono diventati protagonisti discreti dello scenario sociale. In essi, infatti, la componente hard si è progressivamente ridotta e alleggerita, mentre quella software si è sviluppata, moltiplicando le funzioni sino a rendere a volta addirittura difficoltose per gli utilizzatori di riconoscimento e impiego.

   Insieme agli oggetti e alle architetture, anche i corpi individuali sono stati interessati da un processo di astrazione. Nel corso del Novecento, ad esempio, gli abiti femminili si sono ridotti e semplificati, producendo una percezione di dinamismo e di spostamento verso l’alto della figura femminile. E se nei primi anni del Novecento le rappresentazioni idealizzate del corpo continuavano a riflettere la predilezione per il tangibile, tipica del valore fondiario, con figure corpulente che rimandavano direttamente alla “pesantezza” della ricchezza terriera, nei decenni successivi il corpo femminile si è fatto più sottile e leggero. Rimedi dimagranti e diete sono diventati così la norma (e non solo per il sesso femminile), mentre la cellulite, codificata la prima volta nel 1924 dal medico Louis Alquier, è sempre più percepita come un vero e proprio nemico da distruggere.

   Appare evidente che nel corso della storia del capitalismo l’intera società ha subito una progressiva astrazione. D’altronde, anche la storia dell’industria culturale è imperniata su una progressiva proliferazione di dispositivi che spingono verso la smaterializzazione del mondo vissuto. Con la diffusione a livello di massa di libri a stampa e dei quotidiani, le persone hanno imparato a separare il produttore della conoscenza dalla conoscenza stessa, che è diventata un soggetto sempre più autonomo della società. A metà dell’Ottocento la nascita della fotografia ha indotto il medico statunitense Oliver Wendell Holmes a pensare che tale mezzo avrebbe potuto modificare la percezione della realtà da parte degli individui, producendo una netta separazione tra la forma espressiva e la materia. In effetti, la fotografia l’immagine autonoma dalla realtà oggettuale che rappresenta, stabile nel tempo e facilmente trasportabile. A ciò si può aggiungere che la fotografia è una riproduzione della realtà più convincente della realtà stessa e ha introdotto un processo di produzione meccanica dell’immagine che ha in parte esautorato l’autore umano. Questi non può più comportarsi infatti cone il pittore tradizionale che tendeva a imporre il suo personale punto di vista cercando di stabilire una distanza tra sé e il mondo.

   In seguito con il cinema e la radio, la riproducibilità tecnica perdeva in concretezza e guadagnava in astrazione. Ciò ha consentito a questi due mezzi di potenziare la loro capacità di coinvolgimento dello spettatore. Il cinema, intensificando la forza comunicativa delle immagini fotografiche, ha attraversato il confine dell’esistenza materiale, evocando un modo spirituale. La radio, introducendo invece un flusso di voci per rappresentare la realtà, ha dimostrato un grande potenza evocativa. Così la strategia di messa a distanza che era stata instaurata dal modello di rappresentazione imposto dalla cultura moderna viene progressivamente sostituita da un processo che tende ad annullare la distanza dell’esistente tra lo spettatore e la realtà.

   Ma è stata la televisione a sostituire definitivamente il punto di vista dell’individuo con quello della telecamera.

   Con il mezzo televisivo infatti a inquadrare la realtà non è più lo sguardo del singolo, ma quello della collettività che usa lo schermo. Tanti sguardi individuali si fondono in un unico sguardo, che coincide appunto con quello della telecamera. E tutto ciò viene ulteriormente intensificato oggi dal computer, che rappresenta la somma di tutti i media precedenti, e che in più è in grado di sfruttare le grandi possibilità comunicative proprie della Rete. Pertanto bisogna essere ciechi per non accorgersi che il computer si sta sposando con la televisione per costituire, all’esterno della psiche organica della persona, una psiche elettronica che propone ormai una paracoscienza collettiva.

DALL’EONOMIA MATERIALE ALL’ECONOMIA DELLA CONOSCENZA

   Negli ultimi anni, il processo di astrazione della società si è intensificato. Il denaro man mano si sta trasformando in informazione circolante nelle reti informatiche e dunque senza più vincoli di spazio e di tempo. È diventato cioè una componente di un flusso globale dove tutto si mescola incessantemente: forme di pagamento, messaggi pubblicitari, informazioni, spettacoli, merco e consumatori. E la vita sociale è sempre più il risultato della mescolanza tra i luoghi fisici tradizionali e questo flusso globale.

   Nelle metropoli imperialiste il lavoro si sta trasformando nella gestione di un flusso continuo di informazioni.[6]

   Ciò non significa che il lavoro manuale faticoso e alienante della fabbrica sia scomparso. Ma che si sta sviluppando la tendenza che vede che al lavoratore che non possedeva i suoi mezzi di produzione, si sostituisce più frequentemente un lavoratore che è invece proprietario del suo principale strumento di lavoro: la conoscenza.

   La conoscenza è sempre stata un risorsa importante per il funzionamento del sistema economico. Marx aveva intuito questa trasformazione del capitalismo individuando l’importante ruolo produttivo svolto dal general intellect, cioè dal “sapere sociale generale”, inteso come rete di relazioni e conoscenze che si sviluppano all’interno della fabbrica e che vengono impiegate per la produzione attraverso i macchinari. Nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica aveva sostenuto che il sapere astratto, quello scientifico in primo luogo, ma non solo, si avviava a diventare, proprio in virtù della sua autonomia dalla produzione, niente di meno che la principale forza produttiva, relegando il lavoro parcellizzato e ripetitivo in una posizione individuale.

   Ma il processo che si sta sviluppando oggi è ben più ampio di quello previsto da Marx all’interno della concezione del general intellect. Non riguarda cioè soltanto la capacità del sapere sociale di trasformarsi in Capitale fisso, cioè di rendere produttivi i macchinari operanti nelle fabbriche. A diventare sempre più importanti come strumenti di produzione sono le componenti immateriali dell’essere umano, come i processi mentali, le immaginazioni e le visioni del mondo. Vale a dire che la fonte del valore economico è ancora rappresentata dal lavoro svolto dagli individui, ma, grazie alla delocalizzazione produttiva in aree geografiche dove il costo della manodopera è minimo e alla crescente potenza delle tecnologie produttive, il lavoro nell’Occidente imperialista tende a focalizzarsi soprattutto sulle attività di ideazione, progettazione, promozione e commercializzazione dei prodotti. Cioè sulle attività di marketing e comunicazione e sul loro orientamento verso la ricerca di una relazione con i consumatori. Dunque, oggi la fonte del valore economico per molte aziende sta più che dalla produzione nella invenzione di un bene. Lo dimostra il caso esemplare di un’azienda come Google, dove i dipendenti devono per contratto, dedicare almeno il 20 per cento del proprio tempo a farsi venire idee nuove[7]. Ciò comporta che nel lavoro assumano un peso importante le esperienze e le conoscenze maturate dagli individuo al di fuori degli ambienti lavorativi e che le tradizionali frontiere tra lavoro e tempo libero si sgretolino progressivamente. Si può dire, insomma, che la produzione tende a uscire dalla fabbrica ed è la società che nel suo complesso a divenire la vera sorgente del progresso tecnico, mentre i meccanismi capitalistici di produzione del valore si estendono a tutto il tempo e lo spazio sociali.

SMART WORKING

   A proposito della tendenza del superamento della frontiera tra lavoro e tempo libero non si può non parlare dello Smart Working.

    La pandemia di Covid-19 è stata l’occasione che i capitalisti hanno colto per universalizzare un metodo di lavoro che esalta una delle esigenze fondamentali della produzione capitalistica: la flessibilità.

   Le misure di confinamento obbligatorio, l’ordine di restare a casa come prima e indispensabile misura per non infettare o infettarsi, con la conseguente chiusura di moltissime attività lavorative dove non si sapeva per quanto tempo sarebbe durata questa situazione, calavano sulle masse popolari come un’improvvisa calamità: niente lavoro, niente salario, pericolo di povertà assicurato. Quindi,  al rischio di essersi ammalati di Covid-19 senza accorgersene, al rischio di farsi curare per una malattia sconosciuta con farmaci del tutto inutili se non dannosi, al rischio di finire in ospedale quando i posti letto erano ormai esauriti e la terapia intensiva, o subintensiva, veniva destinata a pazienti selezionati con condizioni ipoteticamente con maggiori probabilità di guarigione, si aggiungeva il rischio di perdere il lavoro, e quindi il salario, e, per i più “fortunati”, di vedersi decurtato sensibilmente il salario con la cassa integrazione.

   Molte aziende, e non solo quelle che rientravano tra le funzioni “essenziali” in tempi di pandemia, hanno continuato per settimane a far lavorare i propri dipendenti per tamponare in qualche modo l’inevitabile perdita di profitto, ma senza attuare la necessaria sanificazione degli ambienti e senza rifornire delle indispensabili protezioni individuali i propri dipendenti (perfino negli ospedali!).

   La tecnologia moderna legata ad internet permette il collegamento a distanza, e non solo fra l’azienda e l’abitazione dei dipendenti, ma fra una parte e l’altra del mondo. Il telelavoro – ormai abitualmente adottato in moltissime operazioni (basti pensare ai call center) – è diventato così il modo di lavorare per una massa sempre più numerosa di lavoratori. Il cosiddetto Smart Working è così diventato una soluzione che risponde magnificamente alla flessibilità di cui hanno bisogno le aziende; può essere temporaneo, parziale, totale, a seconda della situazione in cui l’azienda viene trovarsi. E questa flessibilità aziendale è stata trasformata in “opportunità”, se non in un “favore” che l’azienda offre ai lavoratori – a cominciare dalle lavoratrici – nei casi in cui essi devono occuparsi della gestione domestica dei figli, degli anziani, dei disabili e, naturalmente, della cura della casa. Insomma, lo Smart Working, il lavoro intelligente, agile, rapido che, in realtà, confina in casa i lavoratori e le lavoratrici – come una specie di cottimo 2.0 – separa ogni lavoratore dagli altri, lì isola, li schiaccia nelle faccende domestiche illudendoli di poter “gestire” il proprio tempo di lavoro secondo le proprie esigenze familiari quotidiane.  Invece si tratta, in realtà, di un’ulteriore forma di sfruttamento schiavistico!

   Già nella vita quotidiana imposta dal capitalismo, i proletari sono sempre più costretti a provvedere da sé a tutta una serie di compiti pratici, ben riassunti nella denominazione di lavori domestici. La famiglia, questa forma organizzativa della vita che il capitalismo ha ereditato dalle precedenti società divise in classi, si dimostra sempre più – in particolare per i proletari – una prigione, uno spazio ristretto in cui vivere, un luogo da attrezzare per sopravvivere come se si fosse soli al mondo, un ambito in cui i rapporti tra esseri umani non sono “liberi” di esprimersi a seconda delle predisposizioni e pulsioni individuali di ciascun componente nel pieno rispettò delle predisposizioni e delle pulsioni degli altri componenti il nucleo familiare, ma dipendono dal guadagno privato, dai soldi che uno o più componenti riescono a portare a casa, dalla stabilità di quel guadagno. I soldi decidono tutto, chi ha i soldi, chi porta più soldi a casa acquista più potere all’interno del nucleo familiare, di fatto compra i favori degli altri, il loro affetto o la loro sottomissione, come succede sistematicamente nei confronti dei figli e, in generale, nei confronti delle donne da parte degli uomini. La schiavitù domestica, è ciò che caratterizza la condizione della donna nelle società divise in classi; con il capitalismo e il suo sviluppo, alla schiavitù domestica si è aggiunta la schiavitù salariale. La donna, sotto il capitalismo, soffre di questa doppia schiavitù, e lo Smart Working, riportando le lavoratrici e i lavoratori all’interno delle quattro mura domestiche, li toglie non dalla schiavitù salariale – che permane, in questo caso, sotto forma di auto detenzione – ma dai rapporti diretti con gli altri lavoratori salariati coi quali, proprio in base al lavoro associato che caratterizza l’attività produttiva capitalistica, è possibile confrontarvisi, verificare insieme e negli stessi momenti i comportamenti dei padroni e dei capi, solidarizzare praticamente e sul momento in tutti i casi in cui uno o più lavoratori vengono presi di mira, puniti, emarginati perché si oppongono o si ribellano a condizioni di lavoro insopportabili o rischiose. L’interesse borghese è di dividere, isolare i lavoratori gli uni dagli altri, renderli più deboli, schiacciarli in condizioni lavorative, e salariali, tali da obbligarli ancor più ad accettare “quel che passa il Convento”, ad accettare che le esigenze delle aziende primeggino su qualunque esigenza personale.

   E cosa c’è di meglio che confinare i lavoratori fra le quattro mura di casa dove li si illude di poter lavorare con meno stress, ma nei confronti dei quali non si attenua affatto, anzi, per un certo verso, si rafforza, il controllo sul loro lavoro, sulla quantità e qualità di tale lavoro.

   Lo Smart Working è utile soprattutto alle aziende: risparmiano sui costi fissi (locali in cui far lavorare più persone, postazioni attrezzate con scrivanie, telefoni, energia elettrica, riscaldamento, bagni, mensa o ticket pasti ecc.) e sui costi variabili (cancelleria, carta, ricariche varie ecc.), mentre scaricano una buona parte di quei costi sui lavoratori che si devono attrezzare in casa per collegarsi stabilmente via internet con l’azienda, pagando le bollette per l’elettricità e il gas aumentate per il loro maggior consumo, aumentando i costi dei pasti ecc., senza contare il fatto che non c’è più separazione tra il tempo di lavoro per l’azienda e il tempo a disposizione per se stessi.  L’azienda è entrata in casa, 24 ore su 24!


[1] Georg Simmel (1856-1918) è stato un sociologo e filosofo tedesco. Ad oggi è considerato uno dei padri fondatori della sociologia, insieme ad Émile Durkheim e Max Weber. Il suo pensiero ha ispirato molti e in modi diversi, anche per la vastità della sua opera. https://it.wikipedia.org/wiki/Georg_Simmel

[2] Sinecura s. f. [dalla locuz. lat. eccles. sine cura «senza cura (di anime)»]. – 1. . Beneficio ecclesiastico senza obbligo di uffizî e di cura spirituale di fedeli. 2.. Ufficio, occupazione di scarso impegno e di poca fatica e responsabilità. https://www.treccani.it/vocabolario/sinecura/

[3] https://www.google.it/search?q=mittelstand+traduzione&source=hp&ei=2-ApYqSGMYPYaKifuvAD&iflsig=AHkkrS4AAAAAYinu60ShPxKjfRgegtjekve1eJ4iZn6T&oq=Mittelstande+&gs_lcp=Cgdnd3Mtd2l6EAEYADIECAAQDTIGCAAQDRAeMgYIABANEB4yCAgAEA0QChAeMgYIABANEB4yBggAEA0QHjIGCAAQDRAeMgYIABANEB4yCAgAEA0QChAeMgYIABANEB5KBQhAEgExUABYAGDyHGgAcAB4AIABjQeIAY0HkgEDNi0xmAEAoAECoAEB&sclient=gws-wiz

[4] Postfordismo In economia, la fase di sviluppo industriale che caratterizza gran parte delle economie capitaliste più avanzate a partire dagli ultimi decenni del 20° secolo. Contrariamente alla fase del fordismo, la cui caratteristica precipua era la produzione industriale di massa basata sull’impiego di lavoro ripetitivo che aveva progressivamente perso qualifiche e specializzazioni, il postfordismo si caratterizza per l’adozione di tecnologie e criteri organizzativi che pongono nuova enfasi sulla specializzazione, qualificazione e flessibilità dei lavoratori. L’industria, abbandonata la tradizionale produzione di massa, acquista maggiore flessibilità produttiva e organizzativa, adeguando la propria offerta a una domanda, in particolare di beni di consumo, sempre più diversificata e soggetta a cambiamenti anche molto repentini. Metodo di produzione emblematico del p. è il sistema di gestione delle scorte chiamato just in time

https://www.treccani.it/enciclopedia/postfordismo

[5] Microelettronica, telecomunicazioni, elaborazioni dati, tecnologie ottiche, robotica ecc.

[6] Tutto questo però non ha niente a che fare con le teorie della scomparsa della classe operaia e con le tesi della società “postindustriale”.

[7] https://www.giovannilucarelli.it/2014/05/principi-innovazione-google-2/

https://www.feltrinellieditore.it/news/2007/09/17/vittorio-zucconi-google–i-dieci-anni-che-sconvolsero-il-web-8986

https://formiche.net/2013/09/google-lavoro-tempo-libero-convivono-azienda-i-dipendenti-hanno-diritto-al-20-liberta-creativa-fino-quando/ ci

~ di marcos61 su aprile 27, 2024.

Una Risposta to “LA NATURA DEL BIOCAPITALISMO”

  1. Ho iniziato a letturare a voce alta alcuni dei tuoi articoli sul mio canale YT…parzialmente ! Scritto qui perche ho bloccato la mia email per chiunque ergo non posso e voglio essere contattata da nessuno.

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