SCENARI ECONOMICI E POLITICI

   Bisogna partire dal fatto che l’agenda elettorale di questo disgraziato paese che è l’Italia è stata scritta da altri, che hanno un interesse relativo per l’Italia e nessuna considerazione per la sua classe dirigente: lo ha scritta la Casa Bianca, come i vari Gauleiter americani ai vertici della UE (compreso Mario Draghi). Ai politici italiani non è restato altro che imbellettare sentenze e decisioni prese da altri, e soprattutto indorare la supposta che gli italiani si apprestano a ricevere.

IL DOLLARO E’ ENTRATO NELLA SUA PIU’ GRANDE CRISI

   La crisi del 2022 non è quella che si sta svolgendo in Ucraina, raccontata e mistificata giornalmente dai mass media di regime. Il conflitto in Ucraina, è una tappa certamente rilevante, ma non l’unica, della profonda crisi che sta vivendo il dollaro negli ultimi anni, e che  è giunta alla sua maturazione già alla fine degli anni Dieci attraverso i primi smottamenti inflazionistici, subito puntellati dal biennio di Pandemia del Covid-19. Ma già dal settembre 2021 la “frana” del dollaro ha ripreso il suo inevitabile percorso perché il biglietto verde è la madre di tutte le bolle finanziarie.

   Questo è solo l’inizio della crisi del dollaro, che non cesserà fino a quando il mondo non avrà risolto il problema del dollaro e quindi del suo rapporto con la metropoli imperiale.

   La bolla del dollaro contiene la domanda fondamentale dell’era del capitale finanziario, ovvero del capitale fittizio, nella quale stiamo vivendo: per quanto tempo ancora il dollaro come mezzo di pagamento globale e moneta di riserva può tenere il centro della scena? La fine degli anni Dieci di questo secolo hanno assistito al divorzio tra capitale finanziario che d’ora in poi andrebbe definito col corretto aggettivo di fittizio e capitale reale. Il sistema non sembra reagire più agli “stimoli” che le banche centrali inventano a piè sospinto; è sostanzialmente scomparso il trasferimento di liquidità dalla finanza all’economia reale e la circolazione monetaria ristagna dentro le istituzioni finanziarie (banche, fondi comuni e fondi sovrani) già troppo piene di circolante immobile. Il quesito posto dalla “Bolla del dollaro” riguarda un filo storico fondamentale per la vita dell’uomo, e proprio per questa ragione relegato nell’augusto ripostiglio delle materie minori e per specialisti: la storia delle monete. Al contrario, questa storia è l’essenza della rappresentazione effettiva della lotta delle classi sociali per la supremazia: chi possiede la banca possiede il potere effettivo, e nelle banche ci sono le monete. A ben vedere, la critica che Karl Marx muove nei confronti della Comune di Parigi (1871) si rivolge a due rinunce fondamentali da parte dei  comunardi:

  1. Attaccare Versailles, sede  provvisoria del governo in fuga da Parigi;
  2. Impadronirsi della Banca di Francia.

   Cosa ci dovrebbe insegnare la storia delle monete? Che il “genio” dell’umanità ha sempre saputo che la clonazione delle monete, attività antica come la storia dell’uomo stesso, dovesse essere sempre soggetta a beni tangibili e limitati, e per questa ragione furono scelti il rame, l’argento e l’oro per il lore crescente grado di rarità. E in Europa, ad esempio, nell’epoca antica caratterizzata dal modo di produzione schiavistico, che nell’epoca medievale, caratterizzata dal modo di produzione feudale (con il lavoro servile predominante), non si venne mai meno alla regola di coniare monete con metalli  preziosi, anche al netto del fenomeno della “tosatura” delle monete, forma primitiva d’inflazione. L’avvento del modo di produzione capitalistico, l’esplosione dei commerci che coinvolgevano ormai tutti i continenti collegati dalle rotte marittime, ed il parallelo sviluppo tecnologico ed industriale diedero spazio a nuove forme di rappresentazione del valore. La storia monetaria degli Stati Uniti dal 1776 è immediatamente caratterizzata da uno strumento di pagamento conosciuto anche in Europa, utilizzato ad esempio nelle piazze commerciali di Amsterdam e Londra del XVIII secolo, ma non nella forma massiva e diffusa che ebbe nella giovane repubblica nordamericana: la banconota chiamata anche biglietto di banca ed ancora moneta cartacea. Il finanziamento della conquista americana dell’ovest è stato fatto sostanzialmente con banconote, cioè strumento di pagamento rappresentato da biglietti cartacei stampati e privi di valore intrinseco. L’uso delle banconote negli Stati Uniti era così importante che ben due tentativi di istituire banche centrali nazionali andarono falliti: la prima banca operò tra il 1791 ed il 1811 per poi essere chiusa; la seconda tra il  1816 ed il 1836 per fare la medesima fine.

   Le banche centrali furono fortemente osteggiate dalla politica americana proprio perché limitavano la cosiddetta “libera” fondazione di banche private nei vecchi e nuovi territori dell’Unione, unitamente alla loro facoltà di emettere banconote con la sola regolazione, spesso presunta, della presenza di depositi in contanti (la vera moneta metallica) dei loro contenuti. Gli Stati Uniti nascono quindi finanziati dal capitale fittizio, che però fu riassorbito dall’immense ricchezze vere e tangibili di quel continente in via di colonizzazione. La parallela storia monetaria europea fu, al contrario, sempre soggetta ad un esplicito legame con le monete, fino ad arrivare al sistema aureo per eccellenza del Gold Standard, colonna del ruolo della sterlina come valuta di scambio e riserva mondiale del XIX secolo. Il dollaro  accettò di buon grado di entrare nel Gold Standard di quel periodo, forte della ricchezza nazionale accumulata e del ruolo crescente della sua industria e del suo commercio internazionale, un po’ come farebbe un parvenu che brama di essere accolto nel club  più esclusivo e per poterci si dotò nel 1913, ben 77 anni dopo la chiusura della seconda banca, di un nuovo istituto “quasi” centrale, la Federal Reserve, che come noto è una federazione di banche centrali ma regionali, i cui governi siedono nel consiglio direttivo con sede a Washington D.C. I due conflitti mondiali del XX secolo hanno permesso al dollaro di sostituire la sterlina nel ruolo di valuta di riserva e scambio mondiale. Per essere accettata dai paesi vincitori (Gran Bretagna e Francia) e vinti (Germania e Italia), gli Stati Uniti accettarono una forma mediata di ancoraggio del dollaro all’oro (35 dollari all’oncia) denominato Gold Exchange Standard, sistema che gli americani tollerarono solo dal 1944 (accordi di Bretton Woods) al 1971 con la sospensione unilaterale degli stessi accordi da parte di Richard Nixon.

   Il Gold Exchange Standard, sistema che, con tutti i suoi limiti, impediva l’espansione incontrollata della massa monetaria-dollaro durò solo 27 anni. Dall’agosto 1971 ad oggi, cioè 51 anni, il dollaro non ha più avuto nessuna limitazione alla sua produzione cartacea, rientrando così nell’alveo della sua storia naturale, quella della conquista del West stampando carta moneta. Il dollaro ha potuto, in questa maniera, assicurare gli americani un alto tenore di vita ed allestire nello stesso tempo una poderosa macchina bellica, creando e mantenendo il più grande complesso industriale-militare del pianeta, pagandolo con carta priva di valore, e drenando beni tangibili da tutto il mondo, anch’essi pagati con la medesima carta di nessun valore intrinseco. C’è da chiedersi come il sistema economico mondiale accetta di vendere materie prime, energia e servizi ad un paese che paga con pura e semplice carta? Perché gli Stati Uniti osservano, e non possono fare altrimenti, la regola fondamentale di un impero: la su fortuna si regge su due gambe, la moneta e la forza militare.

IL DOLLAR STANDARD PROCURA GUAI

   Abbiamo visto che la moneta di riserva e di transazione mondiale, il dollaro mantiene il suo ruolo per “meriti” esclusivamente politici e non per ragioni intrinseche alla funzione del contante. Una moneta inconvertibile in oro non è più in grado di svolgere validamente le sue funzioni primarie  che sono misure del valore, riserva del valore e  mezzo di scambio. Il dollaro non è più misura di valore, in quanto il biglietto verde non contiene e non rappresenta nessun metallo prezioso, soprattutto l’oro, non è più riserva di valore a causa dell’enorme e sconosciuto contenuto inflazionistico insito nel dollaro stesso. Il biglietto verde resta mezzo di scambio solo grazie al suo ruolo di moneta di riserva internazionale, che  mantiene nonostante abbia perso i suoi presupposti economici: bilancia commerciale e bilancia dei pagamenti in attivo. Se accettiamo questo assunto possiamo tentare una definizione di Dollar Standard come il sistema monetario che si fonda sulla capacità degli Stati Uniti di costringere la comunità internazionale ad accettare il dollaro attraverso la perpetua minaccia di atti di guerra militare e non militare. Cerchiamo di precisare: la sanzione bellica che gli Stati Uniti hanno adottato in passato ha sempre riguardato Stati che non avevano un’adeguata capacità militare difensiva, lasciando ai media di regime il compito di imbonire l’opinione pubblica accampando pretesti che, nel caso di Saddam Hussein si sono rivelati autentiche menzogne. Va notato che questa strategia non funziona sempre: nella crisi ucraina alla quale stiamo assistendo la minaccia del dollaro proviene dal rublo, moneta protetta da una potenza atomica e militare di assoluto valore.

   Il Dollar Standard, essendo un sistema artificioso e sostanzialmente fraudolento, necessità di generare di continue crisi e tensioni in tutto il mondo, perché in regime di “pacifiche transizioni commerciali”, il rischio che sorga una divisa competitrice ed oggettivamente più sicura è sempre possibile. La politica di “prevenzione” degli Stati Uniti a difesa del dollaro è stata magistralmente illustrata da Ron Paul[1] ex candidato repubblicano alla  carica di Presidenza degli Stati Uniti nel 2008 e deputato alla Camera dei rappresentanti dal 1997 al 2013: “Dopo la II Guerra Mondiale e soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica nel 1989, questa diplomazia[2]lasciò posto a una vera e propria “egemonia del dollaro”. Oggi la regola è: “Colui che stampa la moneta detta le leggi”, almeno per il momento.

   Obbligare Paesi stranieri, mediante la propria superiorità militare e il controllo della stampa di moneta, a produrre e quindi a finanziare il proprio Paese. Quando la carta moneta viene rifiutata, o quando l’oro finisce, la ricchezza e la stabilità politica sono perse. Le élite del mondo monetario, appoggiate fortemente dalle autorità americane, perfezionarono un accordo con l’OPEC in modo da fissare il petrolio esclusivamente in dollari per tutte le transazioni mondiali. Questo conferì al dollaro una posizione privilegiata e, in essenza, agganciò il dollaro al petrolio. In cambio, gli Stati Uniti promisero di proteggere gli stati ricchi di petrolio sparsi intorno al Golfo Persico da invasioni o da rivolte interne. L’accordo negli anni Settanta con l’OPEC, riguardante la determinazione del prezzo del petrolio esclusivamente in dollari, diede una incredibile forza, benché artificiale, al dollaro stesso, che divenne la più importante valuta mondiale, questa situazione ha creato una forte domanda per la valuta statunitense, domanda che ha assorbito gli enormi quantitativi di moneta immessi dalla FED ogni anno.

   Nel 2015 la massa monetaria definita come M3 (denaro circolante e dei depositi a vista, nonché depositi a scadenza fissa ed infine contratti pronti contro termine, i titoli del mercato monetario e quelli a scadenza fissa ed infine contratti pronti finno a due anni) è aumentata di oltre 700 miliardi di dollari. L’agganciamento del dollaro al petrolio sarà difeso per permettere al dollaro al petrolio di perpetuarsi come valuta principale. Ogni attacco a questa relazione sarà in futuro come in passato combattuta con la forza. Nel 2000 Saddam Hussein chiese in cambio del suo petrolio, euro invece che in dollari. Questa richiesta venne percepita come una grande minaccia per il dollaro; militarmente l’Iraq non ha mai impensierito gli Stati Uniti.

   Alla prima riunione della neoeletta amministrazione Bush Jr., secondo quanto dice il segretario del tesoro Paul O’Neill[3], l’argomento principale fu come sbarazzarsi di Saddam Hussein, benché non era reso chiaro e trasparente che tipo di minaccia rappresentasse.

   Come si sa l’intervento bellico fu ottenuto attraverso distorsioni e con false rappresentazioni dei fatti.

   Poco dopo, dopo l’occupazione militare dell’Iraq, tutte le esportazioni petrolifere irachene tornarono a essere pagate in dollari. Nel 2001, l’ambasciatore venezuelano in Russia fece trapelare che il suo Paese  era intenzionato a richiedere euro per le esportazioni di petrolio. Dopo un anno ci fu un tentativo di golpe ai danni di Chavez, con l’assistenza della CIA. Il 19 marzo 2011 la Risoluzione ONU n. 1973 dà via ai bombardamenti alla Libia di Gheddafi per “proteggere”, si dice, i civili vittime del regime. Alle operazioni partecipano l’Italia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Non dimentichiamo che la Libia, coi suoi 46,5 milioni di barili di riserve petrolifere è la più grande cassaforte d’Africa di questo combustibile. L’attacco alla Libia avviene quando Gheddafi decide di staccarsi dal Fondo Monetario Internazionale per aderire al Fondo Monetario Africano dove aveva messo un capitale iniziale di 42 milioni di dollari[4].

    Tutto ciò sta dimostrare il ruolo antagonista che in modo naturale ed anche involontario l’euro esercitò appena nato nei confronti del dollaro, teniamo ben presente la cattiva opinione dell’Establishment americano alla moneta unica, perché uno dei precisi mandati ricevute da Mario Draghi assumendo la direzione della BCE, fu proprio quello di indebolire l’euro attraverso la politica del Quantitative Easing[5]. Abbiamo visto che la strategia degli USA fino alla fine degli anni Dieci di questo secolo, in massima sintesi, è stata una costante ricerca di frizioni , tensioni, crisi e possibilmente colpi militari contro metà del pianeta: sempre contro la Cina, spesso contro la Russia, e poi nel Medio oriente, nel Nord Africa, nell’Oceano Indiano e in Sud America. Questa strategia,  però, non solo non serviva a risolvere il continuo allargamento della base monetaria del dollaro, ma al contrario la favoriva, un’abnorme massa monetaria forzatamente ristretta all’interno di un angusto sistema finanziario, le cui leggi sono indipendenti anche presenza di una porta aerei USA davanti alla costa della prossima vittima. in altre parole, la massa di dollari ha bisogno di essere continuamente impiegata nel modo più adeguato possibile su tutte le piazze mondiali, perché in assenza di tale utilizzo essa ritorna inevitabilmente a “casa”, cioè presso lo Stato che l’ha generata, e se questo non ha da “offrire” in sacrificio” una proporzionale massa di beni e servizi da trasformare, incorre in quello che sta accadendo in modo evidente dal settembre 2021 al galoppo.

L’ESPORTAZIONE DELL’INFLAZIONE

  All’interno del Dollar Standard, quindi, non vigono regole monetarie e finanziarie, queste norme sono state abbondatamene trasgredite per cinquant’anni creando una situazione debitoria non più recuperabile. Attualmente il debito federale USA ammonta  a 30.895 miliardi di dollari[6]  (a titolo di paragone quello italiano è di 3.200 miliardi di dollari)[7], visto questi dati è assurdo pensare seriamente che questi debiti vengano restituiti, come sarebbe assurdo pensare che si possa invertire la tendenza del loro perenne aumento. Il debito pubblico americano è uno dei principali indicatori, ma non l’unico, che segnala il continuo accrescimento della massa monetaria, a tale indicatore andrebbero aggiunti i debiti degli Stati, delle regioni, delle città e dei privati. La gestione del dollaro è quindi una questione puramente e squisitamente politica, soggetta ad analisi, previsioni e strategie conseguenti. Il principale campanello di allarme per gli strateghi USA in questo secolo si è avvenuto nel 2008 con la (ormai) famosa crisi del subprime, attraverso la quale, gli analisti americani, e non solo loro, hanno potuto valutare parzialmente l’immensa forza distruttrice del biglietto verde sia sul sistema economico USA sia su quello mondiale in quanto gestito dal dollaro, portatore poco sano del virus dell’iperinflazione. Effettuata l’analisi, gli strateghi hanno individuato nuovi strumenti per gestire le certe e future crisi del dollaro il quale, aumentando continuamente la sua massa monetaria, avrebbe inevitabilmente accresciuto la sua forza devastatrice. Per questa ragione, la strategia adottata è stata quella di tentare la dollarizzazione delle altre economie capienti, cioè dotate di un PIL significativo: Unione Europea, Russia; il Giappone no perché è già stato abbondantemente dollarizzato. Vediamo quindi due definizioni che chiariscono la necessità dell’esportatore e le conseguenze per l’importatore dell’inflazione del dollaro. La necessità per l’esportatore USA deriva direttamente dalla classica definizione di inflazione che ci ha dato John Kenneth Galbraith nel suo libro La Moneta del 1972: “John Stuart Mill propose una spiegazione di ciò che determina i prezzi, e quindi il valore della moneta… I prezzi dipendono dall’offerta di moneta in relazione con la quantità dei beni e dei servizi offerti. Rimanendo immutati l’offerta di beni e il conseguente volume dei commerci, quanta più moneta circola, tanto più i prezzi salgono. Se l’offerta di moneta è straordinariamente grande, come nella Germania del 1923, i prezzi saranno quindi infinitamente alti”. La Germania guglielmina prima e di Weimar poi ebbe circa 9 anni (dal 1914 al 1923) per stampare a rotto di collo Marchi ad uso bellico e post bellico, conosciamo in quale clamoroso modo il Pepier Mark si dissolve nell’iper inflazione del 1923. Gli Stati Uniti stampano dollari senza limite dal 1971, cioè da 51 anni, un tempo infinitamente maggiore rispetto all’esperienza tedesca; quindi, non possiamo avere alcuna comparazione plausibile per quanto riguarda il livello d’inflazione che il dollaro potrebbe raggiungere in caso di suo dissolvimento. Spostiamoci ora dal lato dell’importatore di inflazione attraverso la definizione di dollarizzazione della sua economia: “Processo di trasformazione massiva della moneta di riserva mondiale in materie prime,  beni e servizi nella disponibilità o necessità del paese, o comunità di paesi, oggetto di dollarizzazione, sostituendo surrettiziamente la moneta nazionale, ovvero comunitaria, con il dollaro attraverso  l’allineamento del cambio. Tale obiettivo è raggiungibile esclusivamente mediante la decisione politica di tale paese, ovvero comunità di paesi, di cercare materie prime, beni e servizi al prezzo più alto possibile, ed espressi nella valuta di riserva mondiale, allo scopo d’impiegare la maggiore aliquota della riserva”. È quello che sta succedendo in Europa: l’importazione massiva di inflazione del dollaro attraverso la suicida politica di acquisto di gas liquido dagli Stati Uniti, di gas naturale dall’Algeria, dalla Norvegia, dal Quatar e addirittura dal Mozambico, ai folli prezzi speculativi, ma espressi in dollari, del mercato di Amsterdam; di rinunciare ai prezzi minori contrattualizzati, ad esempio con Gazprom; di impedire l’apertura di del North Stream 2 con scuse burocratiche;  di provocare la Russia con sanzioni e ricatti di ogni genere fino a costringerla a ridurre il gas attraverso il North Stream 1.

   Bisogna rendersi conto che l’esportazione dell’inflazione del dollaro dagli USA all’Europa è un fatto politico. Se non vi fosse questa determinazione da parte dell’Unione Europea con la scusa della guerra in Ucraina, oggi la percentuale di inflazione negli USA potrebbe essere già doppia! Facciamo questo semplice ragionamento: il tasso di inflazione americano nel mese di settembre 2022 era del 8,3%[8], il tasso di inflazione della UE è al valore record del 9,1%[9]; essendo tutta inflazione derivante  dai prezzi di energia  e materie prime, cioè del dollaro, se l’inflazione nell’Eurozona fosse quella media dei primi 8 mesi del 2021, cioè del 2,2%, oggi l’aumento dei prezzi negli USA sarebbe del 15,20%. Si tratta, poi, di un dato del tutto prudenziale, perché non avremmo la riprova del tasso di cambio tra dollaro ed euro, a pari tassi di inflazione . Il cambio dollaro euro attualmente è sostanzialmente 1,00, ma se il divario dell’inflazione fosse quello sopra ipotizzato il cambio potrebbe essere 2 dollari contro 1 euro.

GLI USA HANNO DECISO DI DOLLARIZZARE L’EUROPA

   In sostanza la dollarizzazione è uno strumento di calmierazione della corsa inflazionistica del dollaro. Nel 2008 gli strateghi americani furono obbligati a rivedere la loro strategia globale quando la Cina si dimostrò capace affrontare l’accentuazione della crisi.

   Vediamo in breve l’evolversi della crisi economica.

   E’ errato sostenere (come fanno i riformisti vecchi e nuovi) che l’attività economica complessiva è stata abbandonata alla libera iniziativa di tanti singoli individui. Al contrario la sua direzione è stata sempre più concentrata nelle mani di un ristretto numero di capitalisti e dei loro commessi. In secondo luogo, con la mondializzazione del Modo di Produzione Capitalista si è  avuto il passaggio del capitale finanziario a ruolo guida del processo economico capitalista. La “globalizzazione”, con la finanziarizzazione e la speculazione sono stati gli strumenti che hanno permesso all’economia capitalista di evitare il collasso. Con l’estorsione del plusvalore estorto ai lavoratori di tutto il mondo o con le plusvalenze delle compravendite di titoli, i capitalisti hanno soddisfatto il loro bisogno di valorizzare il loro capitale e accumulare. I bassi salari dei proletari (in tutti i paesi imperialisti compresi gli USA il monte salari è stato una percentuale decrescente del PIL) sono stati in una certa misura compensati dal credito: grazie a ciò il potere di acquisto della popolazione è stato tenuto elevato e milioni di famiglie si sono indebitate, le imprese sono riuscite a vendere le merci prodotte e hanno investito tenendo alta la domanda di merci anche per questa via.

   Si è trattato di un’autentica esplosione del credito al consumo attraverso l’uso generalizzato del pagamento a rate per ogni tipo di merce, delle carte di credito a rimborso generalizzato, nel proliferare come funghi di finanziarie che nei canali televisivi offrivano credito facile (persino anche a chi ha avuto problemi di pagamento!). Questo fenomeno si è diffuso dagli USA a tutti i paesi occidentali, dove in paesi come l’Italia (dove tradizionalmente le famiglie hanno sempre teso al risparmio), l’indebitamento delle famiglie occidentali è salito in pochi anni, in Spagna è salito al 120% del reddito mensile e in Gran Bretagna è arrivato a essere riconosciuto come una patologia sociale.

   Ma nonostante la droga creditizia messa in atto, il collasso delle attività produttrici di merci non è stata evitata e a causa della bolla immobiliare dei prestiti ipotecari USA e del crollo del prezzo dei titoli finanziari, si restringe il credito.

   Bisogna considerare, inoltre, che la massiccia profusione di credito introdusse numerosi squilibri nel sistema poiché l’aumento del credito concesso non era accompagnato dalla crescita dei depositi liquidi atti a fronteggiare eventuali fallimenti dei debitori. Il problema nasce dal fatto è che questo sistema poggia sulla continua rivalutazione delle attività finanziarie, cui all’origine sta il rientro dei debiti contratti e a valle la fruibilità dei prestiti fiduciari tra le istituzioni di credito. Poiché le passività tendono a essere molto più liquide delle attività (è più facile pagare un debito che riscuoterlo), l’assottigliamento dei depositi significa che in corrispondenza di una svalutazione degli assetti finanziari che intacchi la fiducia, le banche diventano particolarmente esposte al rischio d’insolvenza.

   Le chiavi attorno a cui ruotò l’intero meccanismo furono essenzialmente quattro:

  1. I Veicoli d’Investimento Strutturato (Siv). Si presentano come una sorta di entità virtuali designate a condurre fuori bilancio le passività bancarie, cartorizzarle e rivenderle. Per costruire una Siv, la “banca madre” acquista una quota consistente di obbligazioni garantite da mutui ipotecari, chiamati Morgtgagebaked Securities (Mbs). La Siv, nel frattempo creata dalla banca, emette titoli a debito a breve termine detti assett-backed commercial paper – il cui tasso di interesse è agganciato al tasso di interesse interbancario (LIBORrate) – che servivano per acquistare le obbligazioni rischiose dalla “banca madre”, cartorizzarle nella forma di collateralizet debt obligation (Cdo) e rivenderle ad altre istituzioni bancarie, oppure a investitori come fondi pensione o hedge fund. Per assicurare gli investitori circa la propria solvibilità, la banca madre attiva una linea di credito che dovrebbe garantire circa la solvibilità nel caso in cui la Siv venga a mancare della liquidità necessaria a onorare le proprie obbligazioni alla scadenza. Quando nell’estate del 2007, la curva dei rendimenti – ossia la relazione che i rendimenti dei titoli con maturità diverse alle rispettive maturità – s’invertirà e i tassi di interesse a lungo termine diventeranno più bassi di quelli interbancari a breve termine, la strategia di contrarre prestiti a breve termine (pagando bassi tassi di interesse) si rivelerà un boomerang per le banche madri, costrette ad accollarsi le perdite delle Siv.
  2. Colleteralized Debt Obligation (Cdo).  La cartolarizzazione è una tecnica finanziaria che utilizza i flussi di cassa generati da un portafoglio di attività finanziarie per pagare le cedole e rimborsare il capitale di titoli di debito, come obbligazioni a medio – lungo termine, oppure carta commerciale a breve termine. Il prodotto cartoralizzato divenuto popolare con lo scoppio della crisi è il Cdo ossia un titolo contenente garanzie sul debito sottostante. Esso ha conosciuto una forte espansione dal 2002 al 2003, quando i bassi tassi di interesse hanno spinto gli investitori ad acquistare questi prodotti che offrivano la promessa di rendimenti ben più elevati.
  3. Agenzie di rating. Sono società che esprimono un giudizio di merito, attribuendone un voto (rating), sia sull’emittente, sia sul titolo stesso. Queste agenzie non hanno alcuna responsabilità sulla bontà del punteggio diffuso. Se il titolo fosse sopravalutato, le agenzie non sarebbero soggette ad alcuna sanzione materiale, ma vedrebbero minata la loro “reputazione”. Tuttavia, data la natura monopolista dell’ambiente dove operano, anche se tutte le agenzie sopravalutassero i giudizi, nessuna sarebbe penalizzata.
  4. Leva finanziaria. Essa è il rapporto fra il titolo dei debiti di un’impresa e il valore della stessa impresa sul mercato. Questa pratica è utilizzata dagli speculatori e consiste nel prendere a prestito capitali con i quali acquistano titoli  che saranno venduti una volta rivalutati. Dato il basso costo del denaro, dal 2003 società finanziarie di tutti i tipi sono in grado di prelevare denaro a prestito (a breve termine) per investirlo a lungo termine, generando profitti. Per quanto riguarda la bolla, l’inflazione dei prezzi immobiliari sta alla base della continua rivalutazione dei titoli cartolarizzati che ha spinto le banche a indebitarsi pesantemente per acquistare Cdo, lucrando sulla differenza tra i tassi della commercial papers emessi dalle Siv e i guadagni ottenuti, derivanti dall’avvenuto apprezzamento dei Cdo. In realtà, si è giunto al cosiddetto “effetto Ponzi” in cui la continua rivalutazione dei Cdo non era basata sui flussi di reddito sottostante, ma su pura assunzione che il prezzo del titolo sarebbe continuato ad aumentare.

     Questa bolla non è certamente esplosa per caso.

   La New Economy, ha visto forti investimenti in nuove tecnologie informatiche (TIC): ma alla fine i forti incrementi di produttività non hanno compensato i costi della crescita dell’intensità del capitale, e quindi la sostituzione del capitale al lavoro.[10]

   L’indebitamento delle famiglie come si diceva prima, era stato favorito dal basso costo del denaro che favorì una crescita dei processi di centralizzazione, dell’indebitamento delle imprese e appunto delle famiglie, della finanziarizzazione dell’economia e di attrazione degli investimenti dall’estero. Ne conseguì un boom d’investimenti nel settore delle società di nuove tecnologie infotelematiche, in particolare sulle giovani imprese legate a Internet; con la conseguente crescita fittizia della New Economy che alimentò gli ordini di computer, server, software, di cui molte imprese del settore manifatturiero erano forti utilizzatrici e le imprese produttrici di beni d’investimento in TIC avevano visto esplodere i loro profitti e accrescere i loro investimenti. Ma, a causa degli alti costi fissi e dei prezzi tirati verso il basso dalla facilità di entrata di nuove imprese nel settore della New Economy, queste ultime accumularono nuove perdite e quando cercavano di farsi rifinanziare (avendo molte di queste società forti perdite) la somma legge del profitto che regola l’economia capitalistica indusse i vari finanziatori a stringere i cordoni della borsa in quanto avevano preso atto della sopravvalutazione al loro riguardo e le più fragili videro presto cadere attività e valore borsistico. Si sgonfiò così il boom degli investimenti in TIC.

   Dopo la fine della New Economy nel 2001 le autorità U.S.A. favorirono l’accesso facile al credito a milioni d’individui, in particolare per l’acquisto di case come abitazione principale o come seconda casa. Tra il gennaio 2001 e il giugno 2003 la Banca Centrale USA (FED) ridusse il tasso di sconto dal 6,5% al 1%. Su questa base le banche concedevano prestiti per costruire o acquistare case con ipoteca sulle case (senza bisogno di disporre già di una certa somma né di avere un reddito a garanzia del credito). I tassi di interesse calanti garantivano la crescita del prezzo delle case. Ad esempio chi investiva denaro comprando case da affittare, il prezzo delle case era conveniente finché la rata da pagare per il prestito contratto per comprarle restava inferiore all’affitto. Il prezzo cui era possibile vendere le case, quindi, saliva man mano che diminuiva il tasso d’interesse praticato dalla FED. La crescita del prezzo corrente delle case non copriva le ipoteche, ma consentiva di coprire nuovi prestiti. Il potere d’acquisto della popolazione USA era così gonfiato con l’indebitamento delle case.

   Ma quando la FED, per far fronte al declino dell’imperialismo U.S.A. nel sistema finanziario mondiale (l’euro sta contrastando l’egemonia del dollaro, poiché molti paesi, per i loro scambi e i processi di regolamentazione delle partite correnti tra merci cominciano a preferire l’euro) nel 2007 riporta il tasso di sconto al 5,2% fa scoppiare la bolla nel settore edilizio USA e causa il collasso delle banche che avevano investito facendo prestiti ipotecari di cui i beneficiari non pagavano più le rate. Questo a sua volta ha causato il collasso delle istituzioni finanziarie che avevano investito in titoli derivati dai prestiti ipotecari che nessuna comprava più, perché gli alti interessi promessi non potevano più arrivare. Tutto questo, alla fine, provocò il collasso del credito, la riduzione della liquidità e del potere di acquisto.  Diminuzione degli investimenti e del consumo determinano il collasso delle attività produttrici di merci.

   Se si guarda il percorso storico della crisi, dagli anni ’80, si nota che le attività produttrici stavano in piedi grazie a investimenti e consumi determinati dalle attività finanziarie. Quando queste collassano anche le attività produttrici crollano.

   Le autorità pubbliche di uno stato borghese, per rilanciare l’attività economica, le uniche cose che possono fare rimanendo dentro l’ambito delle compatibilità del sistema, sono:

  1. Finanziare con pubblico denaro le imprese capitaliste.
  2. Sostenere (sempre con pubblico denaro) il potere d’acquisto dei potenziali clienti delle imprese.
  3. Appaltare a imprese capitalistiche lavori pubblici.

 Per far fronte a questi interventi, le autorità chiedono denaro a prestito, proprio nel momento in cui le banche non solo non danno prestiti ma sono anche loro alla ricerca di denaro perché ognuna di esse possiede titoli che non riesce a vendere. Infatti, chiedono denaro per non fallire e per non negare il denaro depositato sui conti correnti presso di loro. Si sta creando un processo per cui le banche centrali fanno crediti a interesse zero o quasi alle banche per non farle fallire, le stesse banche che dovrebbero fare prestiti allo Stato. Essendo a corto di liquidità lo fanno solo con alti interessi e pingui commissioni. Lo Stato così s’indebita sempre di più verso banche e istituzioni finanziarie, cioè verso i capitalisti che ne sono proprietari. Finché c’è fiducia che lo Stato possa mantenere i suoi impegni di pagare gli interessi e restituire i debiti, i titoli di debito pubblico diventano l’unico investimento finanziario sicuro per una crescente massa di denaro che così è disinvestita da altri settori.

   Per far fronte alla crisi ogni Stato cerca di chiudere le proprie frontiere alle imprese straniere e forzare altri Stati ad aprire a loro. Quindi tutti i mezzi di pressione sono messi in opera. La competizione fra Stati e il protezionismo dilaga, come dilaga nazionalismo, fondamentalismo religioso, xenofobia, populismo, insomma tutte le ideologie che in mancanza di un’alternativa anticapitalista si diffondono tra i lavoratori e che sono usate dalle classi dominanti per ricompattare il paese (bisogno di creare un senso comune, di superare le divisioni politiche – qui in Italia in questo quadro bisogna vedere la propaganda per il superamento della divisione tra fascismo/antifascismo).

 il capitalismo verso il crollo?

   Nel primo trimestre 2009 le 390 imprese più grandi che ci sono al mondo vedono calare i loro profitti del 75% e il fatturato del 26% su base annua[11].

   La crisi incide nei consumi della maggior parte della popolazione. All’inizio del 2009 negli USA 32,2 milioni di persone fanno la spesa con i buoni governativi, se poi si guardassero i consumi più indicativi (case e auto) si scopre che negli USA 12 milioni di persone vivono in coabitazione e le richieste in tal senso crescono, mentre 14 milioni di abitazioni sono vuote[12].

   Quanto all’auto essa ha avuto diversi sostegni per opera di vari governi, ma la più grande fabbrica russa licenzia, nel 2009 27.000 dipendenti, la FIAT nel terzo trimestre del 2009, accusa su base annua un calo del 15,9% del proprio fatturato, e lo stesso avviene per il gruppo PSA francese, sia pure in maniera più contenuta.

   Nel 2009 negli USA Chrysler e GM sono decotte e l’industria dell’auto lavora al 51,2% delle proprie capacità produttive contro il 54,5% del 2008. Ma è tutta l’industria USA come quella degli altri paesi imperialisti che lavora con una capacità utilizzata al 70%.

   Le banche sono in ginocchio: le perdite ufficiali sono di 1717,4 miliardi di dollari (1167,5 USA, 567,1 Europa 48,2 Asia), tuttavia il Fondo Monetario Internazionale ammonisce che la metà delle perdite bancarie sono occultate con giochi di bilancio[13], il che significa che le cifre prima indicate vanno raddoppiate, sfiorando i 3.500 miliardi di dollari.

   Non meno mostruosa è la crescita dell’indebitamento pubblico, le previsioni sono catastrofiche, ad esempio, per il 2010 era prevista per gli USA una crescita del debito del 97/5% (rapporto debito federale-PIL). In realtà non si conoscono le cifre esatte dell’indebitamento totale, c’è chi parla di 80-90 miliardi di dollari d’indebitamento mondiale[14].

LA BURLA DELLA LOTTA AI PARADISI FISCALI

   Chi pagherà questa massa enorme di debiti? Esiste una consistente riserva inutilizzata: i capitali in giacenza presso i paradisi fiscali, che secondo alcune stime sarebbero qualcosa come 33 miliardi di dollari[15]. Se un improbabile San Francesco convertisse gli evasori (capitalisti che falsano i bilanci, politici corrotti, mafiosi ecc.) a dare i loro capitali occultati per riparare il buco nero che sta divorando l’economia mondiale, si potrebbe ottenere una cifra pari a 1/7 del volume del debito globale (dico potrebbe perché con le cifre bisogna essere prudenti e quelle ufficiali sono di molto inferiori alla realtà). Poco per riparare il debito. Poiché di un San Francesco non se ne intravede l’ombra, gli evasori professionali continuano con il loro tipico atteggiamento: sottoscrivono i bond del debito pubblico in cambio d’interessi favorevoli e di benevolenza verso l’evasione fiscale, altrimenti nulla[16]. E i governi lo sanno bene, poiché le politiche messe in atto contro i paradisi fiscali sono in realtà un’autentica burla, del fumo negli occhi.

   Il capitalismo è in un culo di sacco, per distruggere il debito dovrebbe attuare una politica iperinflazionistica come quella attuata nella Germania del 1923, quando i prezzi crescevano di ora in ora, se non di minuto in minuto, dove un fascio di broccoli costava 50 milioni di marchi, e il cambio sul dollaro del 23.11.1923 arrivò a 4.200 marchi per dollaro. Questa inflazione permise di azzerare i vecchi debiti: si poteva rimborsare il mutuo fatto per acquistare una casa con una somma che, al momento dell’estinzione, bastava ad acquistare un paio di scarpe.

   L’economia tedesca però era ferma: le industrie erano ferme, la moneta non valeva più nulla (si ritornava allo scambio in natura), sicché il governo dovette cambiare, radicalmente, la politica inerente, la stampa selvaggia di carta moneta; i vecchi marchi furono ritirati dal mercato con un tasso di cambio del genere: una monetina d’oro da un marco contro mille miliardi di carta straccia.

   In altre parole per distruggere il debito si rischia di distruggere l’apparato produttivo, in sostanza di creare un deserto[17].

   Torniamo alla cosiddetta lotta ai paradisi fiscali e all’evasione fiscale. Perché cosiddetta? Perché burla? Se Obama (come qualunque altro governante borghese) avesse voluto veramente combattere l’evasione fiscale, non avrebbe bisogno di spingersi sulle montagne svizzere, gli basterebbe varcare il Delaware ed entrare nel territorio di uno Stato appartenete alla Federazione americana di cui egli era presidente, che è uno dei paradisi fiscali dei più illustri al mondo, le cui performance umiliano Svizzera e Lussemburgo, e senza dimenticare Puerto Rico che è un protettorato USA di diritto, e di Panama che è  di fatto e un  protettorato USA. Questo discorso vale anche per gli altri paesi imperialisti che tuonano contro lo scandalo dei paradisi fiscali, ma proteggono da decenni, i propri paradisi fiscali[18]. Come Macao e Hong Kong sono un’emanazione della Cina, Monaco è un protettorato francese, l’Andorra è un protettorato franco-spagnolo, San Marino è un’isola in terra italiana. I comunicati che i vari paesi imperialisti contro i paradisi fiscali, sono delle autentiche buffonate, perché basterebbe che i singoli paesi (USA, Inghilterra, Francia, Cina in testa), prendessero misure concrete (e serie) sui loro paradisi fiscali, quelli cioè che si trovano nel loro territorio o nella loro orbita. Così non avviene. L’iniziativa di Obama contro la Svizzera in realtà mirava a colpire la Svizzera per favorire i paradisi fiscali      USA. In sostanza un atto concorrenziale, volto a convincere gli evasori americani a tornare in patria, dove potranno continuare a evadere ma patriotticamente.

   Ma quanto vale o pesa l’evasione fiscale? Prendiamo le cifre ufficiali (da prendere sempre con le molle): per l’OCSE vale 7000 miliardi di dollari[19], per il governo USA siamo a 7300 miliardi, per Guerra, numero uno dell’OCSE, siamo a 11 miliardi (così corregge al rialzo la stima della propria organizzazione). Come si vede sono cifre enormi ma assolutamente approssimative, perché indicano in genere il volume del capitale che giacciono nei cosiddetti paradisi fiscali in un momento dato, ma il fatto è che queste somme sono capitali che vanno investiti, il compito dei paradisi è di occultare, e reinvestire i capitali con un continuo movimento di andirivieni.

   In Italia, negli anni ‘70 il Ministero delle Finanze riteneva che 1/3 del reddito italiano fosse occultato[20], poco male nella vicina Francia, che ha fama di grande efficienza burocratica, ciò avveniva dagli anni ’60. A questo bisogna aggiungere la massa enorme dei profitti creati dalle attività criminali: l’industria del crimine è valutata dall’ONU come un’industria che vale il 5% almeno del PIL mondiale e questo significa evasione necessaria: questo reddito deriva dal commercio della droga, dallo sfruttamento della prostituzione, dal commercio dei lavoratori clandestini ecc.

   Analogo discorso vale per il lavoro nero: in Italia Confindustria e ISTAT (che portano dati da prendere sempre con le molle) stimano al 15% del PIL[21], e a livello mondiale l’OCSE ha stimato che il 60% dei lavoratori al mondo (1,8 miliardi) lavora in nero.

   Torniamo alla cosiddetta lotta all’evasione fiscale lanciata da Obama. Il contenzioso contro la Svizzera, volta a ottenere informazioni sui conti di 52.000 correntisti americani ottenne il risultato che furono consegnati o rivelati solo 4450 conti. L’amministrazione Obama spacciò questo risultato come una vittoria, ma d’altronde questo non deve meravigliare, poiché è consuetudine dei tutti politici borghesi chiamare vittorie le sconfitte.

   Un’altra cosa da rilevare è che nei paradisi fiscali non sembrano per nulla impressionati dagli squilli di guerra contro di loro; dopo il G20 di Londra, il presidente della Liberia, un altro notissimo paradiso fiscale, dice che “non cambia nulla e non cambierà niente” e che continueranno a collaborare come prima con gli USA (che sono il loro protettore)[22].

   Se poi si andasse a vedere i conti occultati in Svizzera e che furono rivelati, quello che viene fuori è che sono intestati a prestanome poco consistenti da punto di vista patrimoniale, ma dietro ci sono autentici colossi. Ma questo in realtà è solo un aspetto secondario del problema, perché gli USA sono essi stessi un paradiso fiscale (non solo il Delaware), perciò la manovra di Obama era in realtà, come si diceva prima, un atto di concorrenza tra paradisi fiscali.

   Abbiamo parlato prima del Delaware. Si scoprirà che in questo piccolissimo Stato, hanno sede un milione di società tra cui 250 delle 500 più grandi classificate da Fortune; in un palazzo della capitale di questo stato hanno sede 200 mila società[23], che fa rendere ridicolo il “primato” mondiale delle Cayman nelle quali un palazzo ospitava solo 18.000 società; il motivo di ciò è molto semplice, nel Delaware non si pagano imposte sui profitti societari e il libro dei soci è impenetrabile sicché il 56% delle società quotate a New York hanno sede nel piccolo Stato[24], tutto questo di chi ha la faccia tosta a sinistra a indicare gli Stati Uniti come un modello per la lotta all’evasione fiscale.

LA CRISI BANCARIA

   Enorme è stato l’impegno a sostegno dei salvataggi bancari, valutabili in termini di trilioni di dollari in aiuti diretti e indiretti. Le banche sembrerebbero “risanate”. Sembrano appunto. Nel 2008 negli USA il numero dei fallimenti furono 25, nel 2009 (fino all’inizio di novembre) 124, cui si devono aggiungere 522 banche in serie difficoltà.

   Ma non è tutto: un settore importante su cui il sistema finanziario si regge, è quello dei fondi pensione per via dei loro immensi patrimoni. Questi alla fine del 2009, dichiarano di non poter garantire il vecchio livello delle pensioni (che è fondamentale per il livello dei consumi negli USA) se non trovano una “piccola” somma di 2000 miliardi che al momento manca[25].

   Perciò si può tranquillamente dire che la crisi bancaria non è passata. La politica dei salvataggi può solo tamponare la situazione.

INCOSISTENZA DELLE POLITICHE ECONOMICHE

   I vari incontri dei paesi imperialisti, noti come G (G8, G20 e così via) dimostrano l’inconsistenza delle tesi che è possibile governare l’economia capitalista e dell’estinzione delle contraddizioni fra i vari paesi capitalisti.

   Dopo la Seconda guerra mondiale imperialista, gli USA hanno assicurato la persistenza o il ristabilimento del dominio delle classi borghesi nella parte continentale dell’Europa Occidentale, in Giappone e in buona parte delle colonie e delle semicolonie.

   Gli USA aiutarono la borghesia dei singoli paesi a ricostruire i propri Stati. Essa pose tuttavia dei limiti alla sovranità di alcuni Stati (l’Italia in primis), assicurandosi vari strumenti di controllo della loro attività e d’intervento in essi.

   Nei 45 anni che seguirono la fine del conflitto, i conflitti tra questi Stati e gli USA non hanno avuto un ruolo rilevante nello sviluppo del movimento economico e politico, con delle eccezioni come, ad esempio, le tensioni con gli Stati della borghesia francese e inglese in occasione della campagna di Suez del 1956.

   Questo non significa che è finita l’epoca dei conflitti fra Stati imperialisti. Finché gli affari sono andati bene, finché l’accumulazione del capitale si è sviluppata felicemente (e ciò è stato fino all’inizio degli anni ’70), non si sono sviluppare contraddizioni antagoniste tra Stati imperialisti, né potevano svilupparsi se è vero che esse sono la trasposizione in campo politico di contrasti antagonisti tra gruppi capitalisti in campo economico. Il problema sorge quando dalla metà degli anni ’70 comincia la crisi. E da questo momento che la lotta da parte degli Stati Uniti per la difesa dell’ordine internazionale (quello che certa pubblicistica ha spacciato per “nuovo ordine internazionale”) si mostra alla fine per quello che è effettivamente: lotta per difendere gli interessi dei capitalisti USA e delle condizioni che favorivano la stabilità politica all’interno degli USA, cioè del dominio di classe sulla popolazione americana. Questo obiettivo lo raggiunge anche a scapito degli affari della borghesia degli altri paesi, diventando quindi un fattore d’instabilità politica.

   Né i capitalisti operanti in altri paesi possono concorrere a determinare la volontà dello Stato USA al pari dei loro concorrenti americani:

  1. Benché vi sia una discreta ressa di esponenti della borghesia imperialista di altri paesi a installarsi negli USA, a inserirsi nel mondo economico e politico USA: pensiamo solamente ai defunti Onassis e Sindona;
  2. Benché molti gruppi capitalisti di altri paesi organizzino correntemente gruppi pressione (lobbies) per orientare l’attività dello Stato federale USA e partecipano, di fatto, attivamente a determinarne l’orientamento.

  Man mano che le difficoltà dell’accumulazione di capitale, c’è il tentativo da parte di una frazione della borghesia imperialista mondiale di imporre un’unica disciplina a tutta la borghesia imperialista cercando di costruire attorno allo Stato USA il proprio Stato sovranazionale. Questo tentativo è favorito dal fatto che negli anni trascorsi dopo la seconda guerra mondiale imperialista, si è formato un vasto strato di borghesia imperialista internazionale, legata alle multinazionali, con uno strato di personale dirigente cresciuto al suo servizio.

   Già sono stati collaudati numerosi organismi sovrastatali (monetari, finanziari, commerciali), che sono, tentativo di gestione collettiva che deve mediare il contrasto tra la proprietà privata delle forze produttive con il loro carattere collettivo. Attraverso questi organismi uno strato di borghesia imperialista internazionale tenta di esercitare una vasta egemonia.

   Parimenti si è formato un personale politico, militare e culturale borghese internazionale. Di conseguenza ci sono le basi materiali per il formarsi di un unico Stato, ma la realizzazione di un processo del genere, quando la crisi economica avanza e si aggrava, difficilmente si realizzerebbe in maniera pacifica, senza che gli interessi borghesi lesi dal processo si facciano forti di tutte le rivendicazioni e i pregiudizi nazionali e locali.

   Tutto questo è importante, per comprendere le dinamiche che avvengono a livello di politica economica, internazionale e l’inseguire falsi obiettivi, come l’andare a contestare le varie riunioni come il G8 dove si riuniscono i principali briganti imperialisti. In realtà, queste riunioni non sono un embrione di governo mondiale dell’economia, ma sono un mascheramento delle reciproche impotenze dei vari paesi imperialisti a governare la crisi. 

   Quando nel 2009 si riunirono i vari briganti imperialisti a Londra, essi misero sul piatto della bilancia 5.000 miliardi di dollari d’interventi, ma al TG2 della sera del 02.04.2009 Federico Rampini, giornalista di Repubblica, fa notare che questa è solo la somma dei diversi provvedimenti decisi dai singoli governi, senza alcun coordinamento globale, ognuno agisce per contro proprio, non esiste nessuna politica economica mondiale dei vari paesi che partecipano ai vari G. Sintomatico, è quello che avviene nel campo degli ammortizzatori sociali: USA e Canada lasciano scoperti (senza alcuna tutela cioè) il 57% dei lavoratori, che diventano il 93% in Brasile, l’84% in Cina, il 77% in Giappone, il 40% nel Regno Unito, il 18% in Francia e il 13% in Germania (fonte ILO)[26], come si vede, si va da una copertura quasi totale come in Francia e in Germania a una marginale ò pressoché assente in Cina, Giappone e Brasile.

   Ma è poi vero che i miliardi spesi sono 5000? Proprio nei giorni del G20 di Londra, Il Sole 24 Ore pubblica una mappa analitica e aggiornata degli interventi compiuti dai vari governi dal settembre 2008 al marzo 2009 e la cifra è sconcertante: 22-23 mila miliardi di dollari, contro gli 80 che costò il New Deal e i 500 del costo della seconda guerra mondiale imperialista[27], la metà di questa cifra o quasi è impegnata solo dal governo USA (amministrazioni Bush e Obama) e larghissima parte di essi, in USA e nel mondo, è destinato alle banche.  Né questa è l’unica valutazione in materia, altri esperti stimano in 8,5 trilioni di dollari gli impegni del governo USA[1], che non sono tutti interventi “pronto cassa” ma di garanzia, tuttavia lo sforzo è immane. Fa spavento anche il raffronto con la seconda guerra mondiale, anche tenendo conto della svalutazione del dollaro rispetto al 1945, il raffronto è agghiacciante per due motivi:

  1. La spesa della seconda guerra mondiale imperialista abbraccia un arco di 6 anni, qui siamo in presenza di 6-7 mesi;
  2. La spesa militare nella seconda guerra mondiale imperialista rilanciò l’economia USA, infatti, nel 1941 il PIL era di poco superiore al 1929 e s’impenna negli anni susseguenti raddoppiando quasi mentre nel 1943-44 la percentuale del PIL della spesa militare era pari al 44,6%. Adesso invece si spende molto di più ma l’economia non sembra reagire positivamente[28].

   Che queste cifre non siano arrivate alla stampa “popolare” è evidente: l’enormità della cifra significa che siamo vicini al si salvi chi può.

   A fronte di questa accentuazione della crisi, la Cina è stata l’unica economia che per dimensioni geografiche e produttive è stata capace di assorbire una considerevole massa di dollari. Allo scenario Cina, tuttavia, gli americani pensarono bene di aggiungere due scenari di minore importanza, ma più facile di affrontare: quello russo, perché la parziale dollarizzazione di quel paese era stata fatta sotto la presidenza di Boris Eltsin.

   Nell’URSS revisionista, la ricchezza sociale che gli operai e i contadini creavano veniva estorta e accumulata in senso capitalistico dallo Stato, cioè dalla grande borghesia burocratica a livello centrale e a livello locale dalle singole aziende capeggiate dai nuovi capitalisti ovvero  dai dirigenti delle imprese collettive, e dai  funzionari e dirigenti del PCUS.

  Il crollo delle democrazie popolari e la dissoluzione a partire dalla fine del 1991 dell’URSS hanno determinato, quindi, il passaggio da un economia sostanzialmente a capitalismo di Stato, retta da una borghesia burocratica e frutto della graduale restaurazione di rapporti capitalistici da parte dei revisionisti moderni, a un sistema di capitalismo privato, con l’adozione del modello politico della democrazia borghese.

   Gli anni della presidenza di Eltsin furono caratterizzati dalla completa liquidazione delle forme socialiste in campo economico, sociale e politico e la nuova borghesia russa era ormai priva di cappi per l’accrescimento del profitto.

   Furono in questo periodo che cominciarono a formarsi i primi gruppi monopolisti, soprattutto nel settore delle materie prime come, petrolio, gas e  settore minerario.

   Negli anni della presidenza Eltsin parte della borghesia burocratica russa cercò di contrapporsi alla politica presidenziale di privatizzazione e di modellamento di regime sempre acquiescente agli interessi dell’imperialismo atlantico.

   Putin è espressione di quella parte di borghesia burocratica che propende per una politica di non accettazione del modello unipolare imposto da Washinton e di apertura con i mercati di Cina e India.

  L’altro scenario è quello europeo in quanto è tradizione degli USA aggredire i propri alleati quando le cose vanno male.

   Negli anni Dieci del XXI secolo la presidenza di Vladimir Putin non dava segno di voler intraprendere la strada della resa incondizionata agli USA, che nel linguaggio dei mass media occidentali si traduce con lo slogan “svolta democratica e liberale”; la cosiddetta “annessione” della Crimea da parte della Russia fu una risposta che non era disposta a tornare negli anni Novanta del XX secolo.

   In Ucraina le Organizzazioni non Governative naziste degli imperialisti USA hanno condotto un colpo di Stato nel 2014, mandando al potere il regime di estrema destra nazionalista e pro-occidentale di Tucinov. Il nuovo regime credeva che il popolo ucraino avrebbe accettato  tutto questo senza fiatare, che avrebbe guardato con indifferenza i novelli nazisti vietare la lingua russa e sfoggiare atteggiamenti russofobi.

      Subito dopo il rovesciamento del governo di Yanukoych i fascisti ucraini lanciarono un pogrom contro il Partito Comunista (assalti alle sue sedi, attacchi incendiari contro le abitazioni dei suoi leader, ecc). E risuscitato l’antisemitismo. A Leopoli è stata una sinagoga. Di conseguenza un rabbino capo ha invitato gli ebrei a immigrare in Israele. A Odessa i nazisti attaccano il presidio permanente: sono armati di spranghe, molotov, coltelli e pistole. I compagni presenti sono costretti alla fuga. Alcuni di loro cercano rifugio dentro la Casa dei sindacati a Odessa. Sarà una strage.  Decine di persone muoiono trucidate.

     E invece gli abitanti dell’Ucraina sudorientale e della Crimea si sono sollevati contro questa violenza, contro i tentativi di separare i popoli fratelli di Ucraina e Russia per contrapporli l’uno all’altro e spingerle in una guerra fratricida.

      Il mondo occidentale ha immediatamente parlato di aggressione quando le truppe russe su sollecitazione del governo di Crimea eletto dal parlamento regionale, ha chiesto ai dirigenti russi di intervenire per difendere gli abitanti della Crimea contro le scorribande dei fascisti ucraini e impedire l’imposizione di un regime antirusso. Eppure, proprio sotto la tutela dell’imperialismo USA e degli altri imperialisti occidentali che con l’ausilio delle cosiddette Organizzazioni non Governative, sono stati nutriti, addestrati e foraggiati in Ucraina gli squadristi nazionalisti che sono una copia delle SS hitleriane.

     Nelle regioni insorte sono proclamate le Repubbliche Popolari e organizzato un referendum per l’autonomia da Kiev.

   La preoccupazione maggiore, per la popolazione e i lavoratori dell’Est ucraino, è quella della persecuzione razziale, ma anche quello delle privatizzazioni e della svendita delle proprie industrie, come previsto dagli accordi di associazione con l’UE.

   Il governo golpista ha risposto con i bombardamenti e le stragi condotte all’interno dell’operazione “anti-terrorismo” ancora in atto. Come risposta la popolazione del Donbass ha organizzato la propria resistenza, nelle cui fila si arruolano sia gli autoctoni sia i tanti volontari provenienti da altri paesi.

   Questa politica da parte della Russia ha determinato il fatto che il Dollar Standard necessitava assolutamente di una nuova crisi più grande di quelle passate, chi rimaneva alla Casa Bianca da bastonare?

   Nel 2015 vi fu un importante test sulla capacità del dollaro di far saltare in aria l’economia di un paese europeo. A gennaio di quell’anno il cambio del franco svizzero sulle altre valute decollò repentinamente tanto da determinare la decisione della Banca centrale elvetica di abbandonare il tasso di riferimento di 1,20 franchi per avere 1 euro e lasciare fluttuare il cambio. Il 31 gennaio 2015 il cambio franco euro era già arrivato a 1,04, in un solo mese la  valuta elvetica era rivalutata del 16% con tutto quello che ne conseguiva per le esportazioni di un paese industrializzato e dotato di importanti multinazionali come la ABB, Nestlè, Novartis, Roche ecc. Governo e Confindustria elvetica compresero che se non avessero reagito il loro export sarebbe andato fuori mercato nel giro di pochi mesi e, colti dal panico, costrinsero la riottosa Banca centrale a stampare franchi a manetta per  cambio con l’euro sulla parità.

   La crisi di valutazione del franco svizzero non aveva a che vedere con l’euro, bensì con una straordinaria richiesta di valuta elvetica da parte di operatori finanziari americani: ingenti quantità di dollari si stavano riversando sui mercati delle valute alla caccia di franchi svizzeri. Se coloro che governano la politica monetaria elvetica, nonostante le titubanze e i ritardi, alla fine non avessero reagito stampando a rotta di collo, il franco svizzero avrebbe raggiunto quotazioni tali da rendere impossibile l’export dei prodotti elvetici, paese piccolo e di fatto privo di un mercato interno significativo, determinando quindi una crisi economica senza precedenti. La lezione ricevuta dagli strateghi americani grazie al test del franco svizzero, fu che per rendere efficace un attacco monetario all’Europa occorreva la collaborazione dei vertici UE e dei principali Stati comunitari. La questione andava gestita da un punto di vista politico, in occasione della successiva “invasione”  del dollaro sul territorio europeo le autorità del vecchio continente non dovevano opporsi alla dollarizzazione. Occorreva quindi che ai vertici della UE e delle principali nazioni europee ci fossero dei leader “collaborazionisti”, condizione impossibile per quanto riguarda paesi come la Cina e la Russia. Gli Stati Uniti individuarono un gruppo ristretto e coeso di personalità d’élite, assolutamente in sintonia con la strategia USA sia per loro convinzioni ideologiche atlantiste e liberiste, sia per opportunismo legato alle carriere personali: questi personaggi dovevano essere disposti a sacrificare l’interesse del loro paese (e della loro borghesia soprattutto quella legata la mercato interno) e di quello della UE in nome della difesa del dollaro. Oggi sappiamo chi sono, ed è interessante vedere che già nel 2015 occupavano posti di rilievo nell’organigramma finanziario mondiale: Mario Draghi, nel 2015 presidente della BCE e in seguito capo del governo italiano; Cristine Lagarde nel 2015 Direttrice Operativa del Fondo Monetario Internazionale, oggi presidente della BCE. Al di sotto di queste due figure apicali della strategia di dollarizzazione, gli americani individuarono una serie di figure esecutrici di questa strategia, una delle principali di queste figure è senza dubbio Ursula von der Leyen che nel 2015 era ministro della “difesa” della Germania e si stava già destreggiando come una decisa revanscista nei confronti della Russia, quindi un ottimo elemento da aggiungere alla squadra dei dollarizzatori. Oggi la Presidente della Commissione Europea è la principale sostenitrice della continuazione della guerra in Ucraina, permettendo all’inflazione del dollaro di affondare l’economia UE. Nella schiera degli esecutori, gli strateghi americani sapevano inoltre di poter contare cono i partiti socialisti/socialdemocratici europei, che da sempre sono i “partiti degli americani”, fin dai tempo della richiesta di Helmut Schmidt di posizionare in Europa gli euromissili.

   E non è certamente un caso che tra i principali sostenitori europei di Zelensky troviamo i socialdemocratici Pedro Sanchez (Partito socialista spagnolo), Sara Marin (Partito socialdemocratico finlandese)[29] e Magdalena Anderson (Partito Socialdemocratico dei Lavoratori di Svezia)[30]. Merita una note a parte Olaf Scholz (Partito socialdemocratico di Germania), essendo lui la chiave che ha permesso agli americani di aprire il lucchetto del vecchio continente.

   Questa politica da parte della socialdemocrazie europea viene da lontano. Quando alla fine del XIX secolo ci furono alcuni miglioramenti salariali molti dirigenti del Movimento Operaio ma anche molti lavoratori a considerare questo passeggero miglioramento delle condizioni dei lavoratori come l’inizio di uno sviluppo che avrebbe infine fatto sparire per sempre le durezze dello sfruttamento.

       Non si vedeva che l’aumento del salario reale, la diminuzione dell’orario di lavoro e l’istituzione delle scuole di apprendistato, avevano l’unico scopo di spremere dall’operaio un rendimento più alto di prima; che lo sfruttamento estensivo, poco redditizio, veniva semplicemente sostituito dallo sfruttamento intensivo, molto più redditizio, introducendo nelle aziende un ritmo di lavoro sempre più intenso.

      Al pari delle condizioni materiali anche la struttura sociale della classe operaia venne largamente influenzata dal sorgere dell’imperialismo.

   Soprattutto tre fattori acquistarono grande importanza per il movimento operaio nel periodo dell’imperialismo:

   L’estrema acutizzazione dei contrasti tra i capitalisti determinata dallo sviluppo dell’imperialismo imponeva al proletariato di mutare la propria strategia e la propria tattica. Si trattava di preordinare e sviluppare – pur non trascureranno l’attività parlamentare – il passaggio a grandi azioni di massa, a scioperi e dimostrazioni su vasta scala. La classe operaia doveva prepararsi con tutti i mezzi alla crisi rivoluzionaria che si avvicinava.

   Il riformismo dando un peso eccessivo all’attività parlamentare portò gravissimi danni, poiché si trascurava la preparazione ideologica e organizzativa delle masse e la preparazione di una nuova tattica.

   In una fase caratterizzata dalla preparazione della guerra e dello sviluppo delle potenzialità rivoluzionarie, il mantenimento della tattica legalitaria e parlamentare paralizzava il movimento e offuscava anche tra i miglior dirigenti del movimento operaio lo sguardo verso nuove forme di lotta che fossero all’altezza della situazione.

     Se il revisionismo ebbe una elaborazione e una diffusione particolarmente vaste in Germania, la ragione non va ricercata nel fatto che qui era sorto il suo rappresentante più importante; E. Bernstein, ma per ragioni storiche e sociali, le più importanti erano:

   L’egemonia del revisionismo portò i diversi partiti socialisti e socialdemocratici aderenti alla Seconda Internazionale (a esclusione di quello russo e serbo) ad appoggiare le rispettive borghesie quando scoppiò la prima guerra mondiale.

   Non ci deve meravigliare che fu il socialdemocratico Noske (con tutto il governo socialdemocratico) nel 1918-19, con l’aiuto degli ufficiali reazionari dei corpi militari smobilitati, che fece scatenare il terrore bianco per soffocare la rivoluzione proletaria.

   La distanza che separa la collaborazione di classe dalla controrivoluzione non è poi molto ampia, e la degenerazione della socialdemocrazia tedesca segnò anche quella della Seconda Internazionale.

   I partiti socialdemocratici uscirono dalla seconda guerra mondiale con un bagaglio di esperienze estremamente vario. La socialdemocrazia tedesca uscì distrutta dal regime nazista, altre come la socialdemocrazia svedese o il Labour Party inglese, parteciparono a governi di coalizione. Il Partito Socialdemocratico Danese continuò la sua vita parlamentare anche sotto la dominazione nazista, quella francese semplicemente si sfasciò.

   Nella sostanza dopo la seconda guerra mondiale i partiti socialdemocratici dovettero affrontare la situazione caratterizzata da una situazione che vedeva il rafforzamento delle posizioni dei partiti comunisti grazie al loro ruolo svolto nella Resistenza antinazista e dal prestigio che aveva l’URSS, dalle speranze di miglioramento e di cambiamento da parte della classe operaia – dopo anni di sacrifici durante la crisi negli anni Trenta e nella guerra mondiale – rafforzate dalla lotta contro il nazismo che aveva portato a vasti settori di classe a una radicalizzazione.

   Dentro questo quadro la socialdemocrazia vide con favore l’intervento degli USA in Europa con quello che fu definito Piano Marshall, che si concretizzò nel Programma per la Ricostruzione Europea (ERP), e divenne immediatamente parte integrante dell’apparato della cosiddetta guerra fredda.

   Il Piano Marshall venne accolto entusiasticamente dai governi dell’Europa occidentale che erano quasi tutti i socialdemocratici o alleati con questi ultimi.

  Il fatto che l’ERP consolidasse il sistema capitalista, che, stando ai programmi che all’epoca avevano, avrebbero dovuto combattere, sembrò meno importante della possibilità di attuare qualche riforma operando all’interno e nei limiti del sistema capitalista. Gli aiuti USA permisero ai partiti socialdemocratici dell’Inghilterra, della Francia e dell’Olanda di attuare una politica imperialista e di stimolare la ripresa economica (capitalistica ovviamente) europea e americana.

   Contemporaneamente gli USA cercarono di crearsi dei punti di appoggio, delle teste di ponte nel movimento operaio europeo, soprattutto nei paesi dove era presente ed operante un forte partito comunista. Quando l’ala destra del PSI abbandonò il partito perché era contraria all’applicazione del fronte comune con il PCI, essa fondò un proprio partito che era riformista e anticomunista. Il sindacato statunitense  AFL diede a questa operazione le necessarie garanzie economiche.

   All’epoca della scissione della CGT in Francia, avvenuta nel 1947 sindacalisti americani al soldo dei servizi segreti americani giocarono un ruolo fondamentale.

   Il risultato degli sforzi statunitensi per guadagnare alla propria causa il Movimento Operaio europeo fu che nel 1949 venne fondata la Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi (ICFTU). In questa situazione i sindacalisti americani Jay Brown e Irving Brown giocarono un ruolo fondamentale a persuadere i sindacalisti socialdemocratici europei ad abbandonare la Federazione Sindacale Mondiale (FSM).

   Nei confronti di quasi tutti i conflitti internazionali che hanno scosso il mondo, dopo la seconda guerra mondiale, la socialdemocrazia ha sempre assunto le difese della Borghesia Imperialista. Per fare degli esempi basta citare il caso del Labour party e della guerra civile greca, del Labour e della Rhodesia, della Labour e del Movimento di Liberazione della Malesia e l’atteggiamento dei socialdemocratici belgi nei confronti del Congo.

L’ITALIA NEL BARATRO

   Seguendo il ragionamento che abbiamo fatto prima possiamo dire che ci troviamo di fronte alla crisi del dollaro; l’attuale conflitto in Ucraina è uno degli scenari di questa crisi.

   La crisi del dollaro si sta manifestando attraverso l’inflazione prossima alla doppia cifra, gli Stati Uniti stanno esportando ingenti aliquote della propria inflazione in Europa per evitare la deflagrazione in iperinflazione, questo tipo di inflazione per gli importatori si chiama dollarizzazione delle proprie economie; la dollarizzazione è fatto eminentemente politico; lo scenario è stato studiato dagli americani a seguito dell’accentuazione della crisi del 2008 e del test sul franco svizzero nel 2015; gli Stati Uniti hanno agevolato l’ascesa di loro uomini (e donne) ai vertici della UE e delle maggiori nazioni europee perché fossero agevolatori della dollarizzazione delle loro economie. Questi processi molto complessi hanno avuto diversi svolgimenti nei vari paesi,  ma ve n’è uno che, per la sua particolarità fragilità politica, sociale ed economica, ci permette di valutare meglio il funzionamento del meccanismo di dollarizzazione di una singola economia: l’Italia.

  Infatti,  Mario Draghi ha tolto il velo del sistema e ha rivelato all’opinione pubblica più avveduta il processo della formazione di quello che si potrebbe benissimo definire Partito Unico, composto al suo interno da correnti che, per ovvie ragioni di messa in scena per le “farse elettorali”, si presentano alle elezioni sotto le forme di partiti. Il Partito Unico è riconoscibile dal comune programma costituito essenzialmente da due voci:

Il Partito Unico è formato da due correnti:

   Il Movimento 5 Stelle è stato scelto dalla Curia Romana come interlocutore politico.

   Draghi ha portato avanti una politica di dollarizzazione spacciandola come “economia di guerra”. Ma c’è da chiedersi come si fa a parlare di “economia di guerra” quando l’Italia ufficialmente non è in conflitto con nessuno?

   Cosa significa allora “economia di guerra?”. Ci sono due possibili definizioni. La prima, più volte papa Francesco, essendo gesuita e quindi esperto di politica, l’8 settembre 2022 ha definito l’attuale situazione internazionale una sorta di “terza guerra mondiale a pezzi”, il pontefice ha ragione se tale lettura viene interpretata attraverso il libro Guerra senza limiti di Qiao Lao e Wang Xiangsui, testo che nel quale si spiega che a causa dell’eccessiva capacità distruttiva dell’arma atomica, gli Stati Uniti hanno la necessità fare guerre con strumenti  non militari quali la finanza, la comunicazione, l’informatica. Anche i fronti di guerra sono molteplici. Per esempio gli Stati Uniti si ergono contro la Russia da un punto di vista formale, ma grazie alla crisi Ucraina, stanno muovendo una reale guerra finanziaria contro l’Europa e l’euro.

   Per l’Enciclopedia Treccani per Economia di Guerra si intende: “Adeguamento del sistema economico alle necessità della guerra…Quanto più un guerra fura nel tempo, tanto maggiori saranno le risorse necessarie. Le fonti di finanziamento sono sempre state 4: le tasse dei cittadini, il debito pubblico (sia interno sia estero), le donazione e l’inflazione. L’altro aspetto importante dell’economia di guerra e dato dall’organizzazione produttiva: poiché si deve creare spazio a produzioni belliche, si restringono quelle civili, spesso introducendo forme di razionamento dei generi di prima necessità”.

  Possiamo quindi discendere alla definizione di Economia di Guerra come pensata dal Partito Unico  come una decisione politica del governo italiano, che con l’alibi della crisi ucraina, di non acquistare materie prime ed energia ai prezzi convenienti contrattualizzati con la Russia, bensì di acquistare quantitativi insufficienti delle stesse ai prezzi più alti possibili. Il sovraprezzo viene scaricato direttamente su imprese e cittadini facendo pagare a loro tariffe elevatissime in bolletta per avere un’erogazione contingentata di gas e elettricità. Queste bollette vengono pagate da un’aliquota sempre maggiore, inoltre, bisogna considerare un aumento di cassintegrati e disoccupati determinato dalle chiusure temporanee o definitive delle imprese che non riescono ad assorbire i maggiori costi dell’energia. Il surriscaldamento dei prezzi determina inoltre un’inflazione “zoppa”  prossima alla doppia cifra, zoppa in quanto non viene compensata da aumenti di salari, stipendi e pensioni. L’Economia di Guerra risponde adeguatamente all’ordine pervenuto dalla Casa Bianca di difendere il dollaro ad ogni costo.

   L’Economia di Guerra è stata pensata e voluta da Mario Draghi e dal Partito Democratico. La sua messa in opera prevede una comprensione del tenore di vita degli italiani a causa dell’erosione del potere di acquisto dei loro redditi.

LA DESTRA POLITICA NON E’ MAGGIORANZA NEL PAESE

   Cerchiamo di ragionare sugli esiti elettorali del 25 settembre.

   Prima di tutto bisogna dire che la destra politica non è maggioranza nelle urne ma, grazie alla più putrida legge elettorale mai concepita nel nostro paese, è larga maggioranza negli eletti, gli autori di questo misfatto hanno un nome e cognome: Renzi e PD.

   L’Italia ha un meccanismo elettorale che permette a chi ha il 40% dei voti di ottenere il 60% degli eletti. In sostanza, non un premio di maggioranza ma è un furto di minoranza. Questo capolavoro fu pensato e attuato da Renzi  quando ottenne il 40%  alle europee del 2014 e si fece fare dal suo fido Rosati una legge elettorale su misura per ottenere il 60% degli eletti  e governare da solo, ma la responsabilità non è solo loro perché sostanzialmente tutto il PD sostenne e votò la legge.

   Questa legge avrebbe dovuto essere modificata, anche per il fatto del taglio dei parlamentari, ma solo i  5 Stelle avevano insistito, la destra politica, sapendo che le conveniva si è opposta, mentre Letta e il PD, se ne sono disinteressati. Risultato: per la prima volta dal 1945 una formazione politica fascista è a capo del governo italiano.

   Conte ha saputo rappresentare ampi settori popolari, in particolare al Sud, che sono le condizioni di povertà e precarietà sociale, se non si fosse posto in difesa Reddito di Cittadinanza molti di questi settori si sarebbero astenuti.

   Questo ha permesso di strappare molti collegi uninominali alla destra politica che altrimenti avrebbe ottenuto i 2/3 degli eletti.

    Ebbene quei galantuomini di Calenda e Renzi hanno dichiarato la loro disponibilità a collaborare con la destra politica per le modifiche alla Costituzione, ed hanno fatto aperture anche sul presidenzialismo.

   Continuiamo ad analizzare il voto.

   La destra politica ed i fascisti della Meloni vengono presentati come dei vincitori, dei trionfatori, ma se si considera i partecipanti al voto hanno segnato un minimo storico al 63% (erano stati il 73% nel 2018), e se consideriamo che la destra politica ha sempre ottenuto, in tutti i passaggi elettorali, circa il 40%, vediamo che in termini di voti la destra politica non ha guadagnato, ma anche perso dei voti.

   Il dato nuovo di questa tornata elettorale è che gli elettori di destra che da diverso tempo sono migranti, non sui barconi ovviamente, dopo essere passati da Forza Italia alla Lega sono ora approdati in Fratelli d’Italia (Fdl). Questa migrazione ha determinato anche la completa sparizione del cosiddetto centro del centrodestra (Lupi e compari sono a rischio di estinzione), a quanto pare questo elettorato si è distribuito tra Fdl e Calenda/Renzi.

   Questo processo è iniziato quando l’ex elettorato di Forza Italia, che era il dominus della coalizione, ha capito che Berlusconi era arrivato al capolinea e che non c’era un degno sostituto (tutti i possibili papabili erano stati silurati da Berlusconi), e così, con l’aiuto dei media dell’area del centro destra,  sia nella carta stampata che delle reti televisive, è iniziata quella che si potrebbe definire “l’operazione Salvini”.

  Ma Salvini non si è dimostrato di essere all’altezza, ha accumulato una serie di fallimenti ed ha messo in luce tutti i suoi limiti, per cui si sono dovuto buttare sull’unico cavallo disponibile: Giorgio Meloni.

   È iniziata, quindi, la beatificazione di Giorgia che è diventata la predestinata alla vittoria.

   L’operazione è riuscita non certo per le capacità della leader di Fdl, ma per “merito” (ma sarebbe meglio dire per demerito) di altri, che non stanno nella coalizione della destra politica.

  Per avere un’analisi più approfondita bisogna vedere le contraddizioni che ci sono tra i partiti politici della coalizione di destra: le ambizioni di Forza Italia di essere il supervisore della coalizione e del governo, le frustrazioni della Lega che è passata da essere il partito dominante al ruolo di comprimario e la volontà di Fdl di guidare il paese.

   La prima avvisaglia di questa situazione è già emersa, dopo pochi giorni dal voto, con la pretesa da parte di Salvini di ottenere il ministero degli interni, di fatto respinta dagli “alleati” e con la sua minaccia di appoggio esterno al governo.

   Non è possibile sapere come questa situazione possa evolvere, ma bisogna notare che tutta la destra è molto compatta nella gestione del potere e con il numero di eletti che ha, potrebbe attuare il suo progetto di modifiche istituzionali e di politiche antisociali e questo può essere un forte collante per la coalizione di destra.

   Come si diceva prima la vittoria della Meloni non è stata determinata dai suoi meriti, ma demeriti di altri. A voler essere precisi, la responsabilità principale è del PD e del suo segretario: Letta.

   Letta non è uno stupido, ma l’unica spiegazione razionale delle decisioni del segretario del PD di fa vincere, coscientemente la destra, è la coscienza di appartenere al Partito Unico atlantico e che molto probabilmente oltre atlantico siano inviato delle indicazioni di far vincere la coalizione avversa.


[1]


[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Rand_Paul

[2] Del dollaro.

[3] Paul Henry O’Neill (nato il 4 dicembre 1935 a Saint-Louis ( Missouri ) e morì 18 aprile 2020 a Pittsburgh ( Pennsylvania ) è un politico statunitense . Un membro del Partito repubblicano, è stato Segretario del Tesoro tra il 2001 e il 2002 nella amministrazione del presidente George W. Bush. https://it.frwiki.wiki/wiki/Paul_O%27Neill

[4] Belluno Press, 8 settembre 2015).

[5] Espressione inglese per “alleggerimento quantitativo”. Si tratta di una politica messa in atto dalle Banche centrali per “creare moneta” mediante l’acquisto di titoli di Stato o altre obbligazioni sul mercato. https://www.treccani.it/enciclopedia/quantitative-easing/

[6] https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2022/06/06/debito-guerra-usa-russia/

https://www.trend-online.com/opinioni/debito-pubblico-stati-uniti/

https://www.quinterna.org/pubblicazioni/rivista/28/struttura_debito_americano.htm

[7] https://italiaindati.com/il-debito-pubblico-italiano/

[8] Soldi On-Line del 13 settembre 2022. 

[9] ANSA del 18 settembre 2022.

[10] Spinte dalla concorrenza le imprese se non volevano essere spazzate via hanno investito in nuove tecnologie e modernizzato il capitale produttivo, tutto ciò ha causato un aumento fortissimo dei costi.

[11] G. Turani, Multinazionali l’anno orribile delle super-giganti, in La Repubblica Affari & Finanza, 22/06/09.

[12] M. Calabresi, Un tetto due famiglie. La casa al tempo della crisi, La Repubblica, 17.02.09.

[13] V. Puledda, Nascosta la metà delle perdite bancarie, in La Repubblica, 26.112009.

[14] M. Panara, Mercati, lo tsunami del debito, in La Repubblica Affari & Finanza, 09.02.2009.

[15] V. Rampini, Le dieci cose che non saranno più le stesse, Mondadori, Milano, 2009.

[16] Un’avvisaglia in tal senso c’è stata a Londra all’inizio del 2009, dove un’asta di bonds fallisce. L. Franceschini, USA e Inghilterra allarme debito, a Londra fallisce un’asta BOT, La Repubblica, 26.03.2009.

[17] È meccanicistico vedere la distruzione delle forze produttive come condizione della ripresa. Bordiga portò alle estreme conseguenze questa tesi osservando che i paesi che escono con le ossa rotta da una guerra sono favoriti nella ripresa.

   C’è da rilevare che i “miracoli” dei tre paesi vinti nella seconda guerra mondiale imperialista (Italia, Germania, Giappone) sono impensabili senza la funzione di traino all’economia mondiale svolta in quel periodo dagli USA, che erano nel 1945, la metà dell’economia mondiale, e che non avevano subito distruzioni belliche. In altre parole senza un meccanismo di accumulazione che tiri non si riparte, e poiché in questo periodo non c’è, dovrebbero intervenire a favore della borghesia per il rilancio dell’accumulazione San Gennaro assieme alle madonne di Lourdes e di Fatima.

[18] F.G. STEVENS, in Appendice a GRACCHUS, Guerre fiscali, De Donato, Bari 1980.

[19] L. Iezzi, Evasione, riciclaggio, corruzione, così i centri offshore gonfiano la crisi, in La Repubblica, 23.02.2009.

[20] A. Carlo, Studi sulla crisi della società industriale, Loffredo, Napoli, 1984, pp. 169

[21] A. Carlo, L’economia mondiale.

[22] N. Francalacci, Liberia per gli italiani un paradiso fiscale, ne Il Venerdì di Repubblica 01.05.2009.

[23] C. Stagnaro, Viva i paradisi fiscali, in supplemento al n. 4 di Limes 2009.

[24] Le imprese troveranno negli USA il paradiso fiscale perduto? ne Il Venerdì di Repubblica, 22.05.2009.

[25] Allarme fondi pensione USA, servono altri 200 miliardi, in Finanza & Mercati, 06.01.2010.

[26] B. Ardù, E. GRION, Allarme OCSE.

[27] M. Marzocco, Un salvataggio da 23 mila miliardi, ne Il Sole 24 Ore, 22.03.2009.

[28] M. Gaggi, La valanga della crisi americana alla recessione globale, Laterza, Roma-Bari, 2009, pp. 114-115.

[29] Tra un festino e l’altro.

[30] Prontamente messa alla porta dagli elettori svedesi.

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~ di marcos61 su dicembre 27, 2022.

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