DAL SINDACALISMO RIVOLUZIONARIO AL FASCISMO

   Si parla molto di fascismo, termine che viene usato nella polemica politica, ma ben poco si sa della sua nascita, dell’evoluzione ideologica.

   Partiamo dal fatto che di tutte le ideologie del Novecento, l’ideologia fascista è la sola che nasca nel XX secolo. Esso di pose come terza via liberalismo (sorto nel XVII secolo) e il marxismo (sorto nel XIX secolo), il fascismo si propone una soluzione alternativa ai problemi posti, in Europa a cavallo tra il XIX e il XX secolo, dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione proletaria.

IL SINDACALISMO RIVOLUZIONARIO IN ITALIA

   Il movimento sindacalista francese fu, a un tempo, il terreno di coltura del sindacalismo europeo. Esportate in Italia e in Spagna, le dottrine del sindacalismo rivoluzionario assunsero espressioni più radicali.

   Anche a causa dello scarso sviluppo industriale, la diffusione del movimento socialista e sindacale era prevalentemente concentrata nelle aree centrosettentrionali, inoltre, la presenza socialista mostrava una forte caratteristica provinciale; il PSI si mostrava radicato in molte realtà più periferiche rispetto alle linee dello sviluppo industriale e tra i contadini in primo luogo della Pianura Padana. Una delle forme peculiari dell’insediamento socialista in quest’area fu rappresentata da proprio dal nesso strettissimo che – in seguito alla progressiva conquista da parte dei socialisti di molti comuni da parte dei socialisti nel ventennio che precedette l’avvento del fascismo – si venne a stabilire tra leghe agrarie, le amministrazioni comunali, che si fecero promotrici della municipalizzazione di alcuni servizi e il movimento cooperativo.

   In ogni caso, la complessiva debolezza del movimento operaio italiano si rifletteva nel rapporto tra il PSI e le organizzazioni sindacali, che nel corso di tutta la fase che precedette il fascismo si rivelò complesso. Il movimento sindacale si era strutturato secondo le due modalità organizzative prevalenti: le federazioni di mestiere e le Camere del Lavoro. Le federazioni di mestiere erano sorte nella maggior parte dei casi ai primi del Novecento e avevano conosciuto una rapida diffusione nazionale arrivando a contare il 1902 altri 200.000 iscritti. Si trattava di strutture che organizzavano verticalmente le diverse categorie operaie. La maggioranza delle federazioni di categoria salvo alcune eccezioni (come la Federazione dei ferrovieri) costituì dei punti di forza dei settori riformisti del PSI.[1] Sorte sul modello francese, con il carattere di ufficio di collocamento e di arbitrato nelle vertenze sindacali, le Camere del Lavoro avevano avuto una grande diffusione negli anni Novanta dell’Ottocento. Queste strutture riunivano orizzontalmente e in conformità a un criterio territoriale tutte le categorie di lavoratori. Col passare degli anni avevano allargato le loro funzioni fino a configurarsi in molte realtà come centri propulsivi delle organizzazioni operaie e di resistenza. Questo tipo d’istituzioni, conobbe all’inizio del Novecento una notevole generalizzazione (da 14 che erano nel 1900 diventarono 76 nel 1902). Malgrado che nei loro statuti facessero professione di apoliticità, le Camere del Lavoro in molte città, giacché organizzavano anche i lavoratori non qualificati e i disoccupati, vedevano al loro una forte presenza anarchica ed esprimevano un atteggiamento politico più radicale rispetto alle Federazioni di mestiere.

   In Italia, il movimento sindacalista nacque all’interno del PSI e fu originariamente diretto da uomini che si consideravano marxisti ortodossi. Il primo organo del sindacalismo rivoluzionario italiano fu il giornale L’Avanguardia socialista, fondato nel 1902 da Arturo Labriola. Gramsci definì il primo sindacalismo italiano come: “l’espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il blocco con la borghesia e per un blocco con i contadini”.[2]

   L’ala sindacalista del PSI fu per cinque anni percepita come una sorte di parafrasi dell’esperienza d’oltralpe in chiave socialista.

   Negli ultimi mesi del 1902, alcuni membri del P.S.I. guidati da Arturo Labriola crea all’interno del Partito una frazione che si propone di rappresentare l’ala rivoluzionaria del partito.[3] Al socialismo riformista, Labriola e i sindacalisti rivoluzionari rimproverano di appoggiarsi soprattutto sul proletariato industriale del Nord, trascurando la grande maggioranza delle masse popolari del paese (in particolare quelle del sud); la rivoluzione socialista non potrà avere successo, affermano, se non si organizza tutto il proletariato in sindacati di lotta che, al momento opportuno, sottrarranno alla borghesia il controllo del processo di produzione. Da ciò l’etichetta di sindacalismo rivoluzionario. Il primo gruppo sindacalista rivoluzionario sorge a Milano alla fine del 1902, che intraprende nel dicembre dello stesso anno la pubblicazione del settimanale Avanguardia Socialista. Questo gruppo di intellettuali, profondamente influenzati da Sorel trova più di un alleato nella corrente di Leone e Longobardi, molto attivo a Napoli.[4] L’ideologia che si cerca di mettere a punto si fonda sul principio dell’azione diretta, la cui espressione caratteristica, in questo primo periodo, è l’idea di uno sciopero generale concepito nel contempo come mito mobilitante e come legittimo strumento di lotta.

   Il forte impatto dell’ideologia sindacalista e la volontà di metterla in pratica senza indugi, provocano uno scisma nel P.S.I. Filippo Turati leader dei riformisti, aveva infatti accolto il modello dei Bernstein, ritenendolo compatibile con la realtà Italia. Secondo Turati, è possibile cooperare con i settori avanzati del mondo liberale, al fine di ottenere taluni vantaggi per gli operai dell’industria settentrionale, che rappresentavano il grosso della base elettorale del P.S.I. Una volta accettate le regole del gioco democratico, i socialisti hanno bisogno ormai urgente bisogno di risultati, non soltanto per “consegnare la merce” promessa al proprio elettorato, ma anche per assicurarsi la permanenza del suo appoggio. Il riformismo permette loro di raggiungere il duplice obiettivo.

   La nascita del sindacalismo rivoluzionario in Italia è legata ad un movimento di idee le cui origini intellettuali sono da ricercare fuori dai confini nazionali. Ma nel momento stesso in cui penetra nella penisola, l’ideologia sindacalista si trova da essere condizionata da alcune fattori locali, di natura sociale e storica, la cui influenza sul destino dell’ideologia stessa è di capitale importanza:

  1. La dicotomia nord-sud, soprattutto in campo economico;
  2. L’instabilità del P.S.I. in parte provocata dall’assenza di una lunga tradizione socialista;
  3. L’unificazione relativamente recente del paese, che spiega la quasi inesistenza di una tradizione di centralismo politico, e per certi versi la cattiva ripartizione geografica del rapido sviluppo industriale;
  4. La mancanza di una tradizione sindacale, che ha come conseguenza la debolezza delle organizzazioni operaie.

   D’altra parte, gli anni 1900-1910, se si eccettua la crisi del 1907, sono in Italia anni di rapida espansione economica e di relatività prosperità, grazie alla politica protezionistica che favorisce il nord industriale a scapito del sud agricolo.[5] Durante tutto questo periodo, il governo è guidato da G. Giolitti, leader dei liberali: la sua abilità politica e la sua consumata arte del compromesso permettono al sistema politico dominante di avere alto livello di stabilità politica, consentendogli nel contempo di neutralizzare l’opposizione di sinistra.

   Nonostante la loro avversione per la democrazia liberale e il loro atteggiamento ostile verso il P.S.I., i sindacalisti rivoluzionari usciranno dal partito solo nel 1907. Fino a quel momento, pur tentando di persuadere la sinistra socialista ad adottare la strategia dell’azione diretta, non esitano a prendere parte attiva alla campagna elettorale per le elezioni legislative del 1904, di poco posteriori allo sciopero generale, cui partecipano nelle liste del P.S.I. Pur essendosi dichiarata antipolitico, il movimento sindacalista, fin dal primo giorno di vita, si mostra molto attivo nella vita politica del partito, partecipando ai congressi regionali e nazionali e beneficiando della pubblicità della stampa socialista (Enrico Leone e Paolo Orano restano nel comitato di redazione dell’Avanti fino al 1905). I sindacalisti rivoluzionari fanno persino un tentativo di conquistare la direzione del partito, in collaborazione con l’ala che si potrebbe definire “ortodossa” di Enrico Ferri.

   Ma per quanto intensa sia l’attività dei sindacalisti il loro gruppo resta minoritario all’interno del P.S.I.  Gli uomini di Labriola non dispensano peraltro di imporre il loro punto di vista e conseguono qualche successo. Nel febbraio 1904, al congresso regionale lombardo, che si tiene a Brescia, Walter Mocci, condirettore di Avanguardia Socialista fece approvare una mozione che dichiarava: “Riaffermando il carattere permanente ed intransigentemente rivoluzionario e contrario allo stato borghese dell’azione proletaria, il Congresso dichiara degenerazione dello spirito socialista la trasformazione dell’organizzazione politica della classe operaia in partito prevalentemente parlamentare, costituzionale e possibilista monarchico; respinge quindi come incoerente con il principio della lotta di classe e con la vera essenza della conquista proletaria dei pubblici poteri ogni collaborazione del proletariato colla borghesia, sia mediante la partecipazione a qualunque Governo monarchico o repubblicano di iscritti al partito, sia mediante l’appoggio a qualunque indirizzo di Governo della classe borghese”.

   Al Congresso nazionale del PSI che si svolse Bologna (1904) le correnti di sinistra (gli intransigenti di Ferri in alleanza con i sindacalisti rivoluzionari) del PSI, che nel mese precedente avevano assunto il controllo di alcune delle più importanti federazioni socialiste, conquistano la maggioranza e assunsero la direzione del partito.

   Labriola e la corrente sindacalista rivoluzionaria propagandavano incessantemente lo sciopero generale. Appena cinque mesi dopo il Congresso di Brescia e poche settimane dopo che il Congresso di Amsterdam della Seconda Internazionale (agosto 1904) ebbe respinto l’applicabilità dello sciopero generale, un tale sciopero dilagò in tutta Italia nel settembre del 1904. Esso fu proclamato dopo l’ennesimo eccidio di lavoratori compiuto dalla forza pubblica a Buggeru in Sardegna per protestare contro la violenza repressiva scatenata dal governo nei confronti delle manifestazioni operaie. Esso si svolse senza incidenti di grande rilievo per la scelta dell’allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Giolitti di lasciare che esso si esaurisse da solo e si risolse in una sconfitta, mostrando la forza ma anche i limiti del movimento e mettendo in evidenza l’ineguale diffusione del socialismo nelle diverse aree geografiche e l’assenza di un solido collegamento politico e sindacale a livello nazionale.

   I sindacalisti rivoluzionari erano consapevoli che una delle cause del fallimento dello sciopero generale è stato l’assenza di un progetto politico e di un coordinamento. Ma, soprattutto, sono consapevoli che la Direzione del PSI non ha potuto (e neanche voleva) orientare il movimento in senso rivoluzionario. Per i sostenitori del sindacalismo rivoluzionario, dunque, il svolgersi degli eventi da un’ulteriore prova del divorzio tra il partito socialista, essenzialmente riformista e il proletariato “essenzialmente rivoluzionario”. Traggono da questo primo impatto con la prassi dell’idea dello sciopero generale, l’aspetto positivo che il nord industrializzato abbia risposto con uno sciopero a scontri che avevano avuto vittime tra i lavoratori del sud. Inoltre, per tutta la durata dell’agitazione, il centro operativo del movimento è stato la Camera del Lavoro e non il partito, il che significa dal punto di vista dei sindacalisti rivoluzionari, che le idee di Sorel iniziavano a essere applicate anche in Italia.

   Gli esiti dello sciopero generale del 1904 e, più in generale, gli insuccessi nelle lotte rivendicative del biennio 1904-1905 portarono a una riorganizzazione del movimento sindacale, con la nascita nel 1906 della Confederazione generale del lavoro (Cgl) – che guidata da R. Rigola (fino al 1918) diventò un caposaldo dei riformisti. La stipulazione di un accordo formale tra la Direzione socialista e la Cgl (Firenze ottobre 1907), che rispecchiava l’impostazione data dal Congresso della Seconda Internazionale a Stoccarda (agosto 1907), stabiliva che la PSI spettava la direzione del movimento politico, mentre alla Cgl quello del movimento economico. Quest’accordo limitava l’attività del partito che, anche nel caso di scioperi politici o di azioni di solidarietà, avrebbe dovuto procedere in accordo con la Confederazione.

   I riformisti riuscirono a riconquistare progressivamente una posizione preminente nel PSI, aiutati dalla crisi che investì la coalizione che era uscita vincente nel Congresso di Bologna. Già nel 1906 al Congresso di Roma, dove fu rifiutata la proposta di fare il sindacato, il luogo privilegiato della lotta socialista e i sostenitori della mozione si trovarono minoritari e isolati, ma soprattutto, al Congresso di Firenze del settembre 1908 riassunsero completamente la guida del PSI. I riformisti – che potevano avvalersi dell’appoggio della Cgl – sfruttarono a loro favore gli insuccessi degli scioperi promossi negli anni precedenti dai sindacalisti rivoluzionari e culminati nel 1908 con lo sciopero dei braccianti di Parma, che ne era la loro roccaforte.

   Nel luglio del 1907, in occasione di un’assemblea di sindacalisti rivoluzionari che si tenne a Ferrara (dove le organizzazioni sindacali, particolarmente forti e organizzate, avevano organizzato con successo alcuni scioperi nel maggio e nel giugno dello stesso anno) si decise che il movimento esca dal PSI per concentrare tutti i suoi sforzi nella politica sindacale. In quest’ottica va vista la decisione di rafforzare la presenza nella Cgl, dove al congresso di fondazione avevano raccolto, insieme agli anarchici, un terzo dei voti, e potevano contare soprattutto sull’adesione di molte Camere del Lavoro. Nel novembre del 1907, durante una riunione che ha luogo a Parma, i sindacalisti rivoluzionari decidono di creare un Movimento nazionale di resistenza, per combattere la politica riformista della Cgl. Una nuova generazione di attivisti, formatasi con la frequentazione delle Camere del Lavoro e dagli scioperi duri, prende la direzione delle lotte in corso. In effetti, già all’indomani dello sciopero generale del 1904 alcuni militanti operai, radicalizzano la propria posizione, cominciano a dare ascolto all’ideologia sindacalista rivoluzionaria. Il sindacalismo rivoluzionario, acquista così un reale peso storico, tramutandosi in una forza dotata d’impatto sociale. I più brillanti dei nuovi agitatori sindacali alla testa dei grandi scioperi contadini del 1907 e del 1908, diventeranno i dirigenti del sindacalismo rivoluzionario: Michele Bianchi, Alceste De Ambris, Filippo Corridoni: uomini che concepiscono il sindacalismo come una lotta radicale, di classe e antipartitica, convinti che un’élite operaia ben organizzata possa sempre catalizzare attorno a sé il conflitto con la borghesia e uscirne vittoriosa.

   La tesi dell’élite sindacalista combattente sarà messa alla prova dei fatti, nel 1908, con lo sciopero contadino di Parma, punto culminante dello scontro che vedeva opposti gli operai agricoli organizzati all’associazione dei proprietari terrieri. Lo sciopero inizia il primo maggio, come risposta di tutti i lavoratori alla serrata decisa dai proprietari, giunta ormai al suo 43° giorno. In breve tempo la Camera del Lavoro di Parma diventa centro nevralgico del movimento, organizzando nel frattempo la solidarietà con gli scioperanti, grazie ai contributi versati dagli aderenti al sindacato. Alto è il livello della disciplina interna e dell’organizzazione, il che permette a più di 33.000 lavoratori di cessare ogni attività per oltre otto settimane. Lo sciopero si schiude con l’intervento dell’esercito, che dopo lo scontro tra scioperanti e crumiri (protetti dalle forze dell’ordine), occupa la Camera del Lavoro, confiscando il fondo di solidarietà e vari documenti.

   Uno degli argomenti costanti della propaganda sindacalista fu quello antimilitarista dello sciopero generale contro la guerra. In Italia vi fu il tentativo di metterlo in pratica, nel settembre 1911, contro la guerra di conquista della Libia. Tuttavia anche se appoggiato (tiepidamente) dal PSI e dalla Cgl, lo sciopero non riuscì a modificare nulla. In più all’interno del movimento sindacalista la componente intellettuale capitanata ad Arturo Labriola appoggiò l’intervento militare. Cercando di combinare il sindacalismo con il nazionalismo, essi seguivano l’esempio di Sorel che in quello stesso periodo, in Francia, stava collaborando con il movimento reazionario nazional-monarchico dell’Action Française. Comunque l’atteggiamento generale del movimento permane antimilitarista.

   Riunitisi in congresso a Modena, i sindacalisti rivoluzionari, quando crearono, insieme agli anarchici, all’Unione sindacale italiana (Usi), che avrà più di 100.000 membri alla fine del 1913 quando la Cgl ne contava 300.000[6].

   I membri dell’USI svolgono un’attività intensa, impegnandosi in numerose vertenze, sia nel settore agricolo che in quello industriale. Nel 1913 l’USI diresse le maggiori agitazioni operaie, favorita anche da un certo appoggio da parte del PSI dove la sinistra intransigente e massimalista nel Congresso di Reggio Emilia (1912) aveva conquistato la maggioranza. Gli epicentri delle lotte operaie furono prima Torino e poi Milano, dove gli operai metallurgici s’imposero come avanguardia del proletariato.

   L’Unione Sindacale Milanese (USM), a meno di due settimane della sua costituzione, diresse una vertenza tra gli operai delle ditte automobilistiche milanesi (Isotta Fraschini, E. Bianchi e Alfa). L’Internazionale del 19 aprile 1913 recava, nella rubrica Cronache operaie italiane, una breve nota in cui s’informava che l’80% degli operai delle tre fabbriche aveva approvato un memoriale e l’eventuale sciopero, qualora il memoriale fosse respinto, aggiungendo “è opinione comune che il risultato delle trattative fosse nullo”.[7] Poiché la previsione era esatta, lo stesso 19 aprile gli oltre mille operai dei tre stabilimenti si astenevano dal lavoro, iniziando uno sciopero che si sarebbe poi esteso gradualmente ad altre fabbriche e dal 19 maggio avrebbe coinvolto tutto il comparto metallurgico, fino a raggiungere la soglia dei 40.000 scioperanti. Nei giorni 27 e 29 maggio, poi, lo sciopero era appoggiato dall’astensione di oltre 2000 tramvieri, il cui sindacato aveva come segretario Alceste De Ambris. L’estensione dello sciopero al personale tramviario provocò degli scontri violenti e l’arresto di numerosi leader sindacali e politici, tra cui Decio Bacchi (segretario del sindacato metallurgico dell’USM) e di Corridoni. I sindacalisti rivoluzionari riuscirono a mantenere un certo grado di compattezza e unità all’interno dei metallurgici. La Camera del Lavoro e la FIOM erano tagliate fuori perché emarginate, a causa dalla strategia adottata in precedenza, dal tessuto operaio. Scriveva il Questore: “I socialisti nella presente contingenza non hanno e trovano seguito per opporre serio e risoluto ostacolo alla tendenza da cui per l’occasione sembrano dominante alcune classi lavoratrici per l’Unione sindacale”.[8]

   L’atteggiamento della segreteria nazionale della Cgl era quello della consueta tattica riformista di circoscrivere la lotta e di limitare la solidarietà all’aspetto finanziario, utilizzando forme di mediazione politica, che difficilmente avrebbe potuto funzionare data l’intransigenza degli interlocutori e delle autorità cittadine e centrali. Questo sciopero terminò alla fine di maggio, con un accordo tra le parti piuttosto modesto se rapportato alle richieste operaie. Nel resoconto dell’Avanti dell’assemblea tenutasi all’USM per annunciare il contenuto del concordato, Pulvio Zocchi, segretario della commissione delegata alle trattative, faceva rilevare che “la vittoria odierna non è tanto nei miglioramenti economici conseguiti, quanto nel riconoscimento dell’organizzazione stessa e nell’affermazione dei suoi principi”.[9]

   Ma le condanne inflitte al Bacchi e agli altri organizzatori dell’USM (Corridoni invece sarebbe stato processato agli inizi di luglio, condannato e rimesso in libertà il 14 settembre) provocarono, due settimane dopo, un nuovo sciopero generale cittadino, cui aderiva anche la Camera del Lavoro che in questo modo tentava di uscire dal suo isolamento, mentre Mussolini promuoveva attivamente la mobilitazione e utilizzava la spinta unitaria contro il vertice della Cgl. La critica da parte dei vertici del PSI e soprattutto l’intesa tra la Camera del Lavoro di Milano e l’USM senza che la Cgl fosse preavvertita, portarono alle dimissioni di Rigola e del Comitato Direttivo della Confederazione. Che l’adesione della Camera del Lavoro di Milano non fosse semplicemente di facciata lo si vide il 16 giugno, quando una folla di 40.000 operai riunita a comizio alla Casa del popolo, tentava di portarsi in corto nel centro cittadino scontandosi con le forze dell’ordine che accerchiavano la zona.

   Numerosi furono i feriti e i fermati, tra i quali figuravano anche il segretario camerale, Adelino Marchetti. Il giorno seguente rappresentanti della Camera del Lavoro e dell’USM concordarono la chiusura dello sciopero, riuscendo a convincere la massa recalcitrante degli scioperanti solo con l’annuncio dell’impegno del Prefetto a lasciare in libertà gli arrestati.

   Appena terminatosi lo sciopero generale, e nel mezzo della crisi confederale, scoppiava a Milano un nuovo sciopero, quello del materiale mobile ferroviario, destinato a prolungarsi per i due mesi successivi. Lo sciopero, iniziato il 19 giugno, si trasforma il 28 luglio in uno sciopero generale metallurgico, diventato il 4 agosto uno sciopero generale cittadino e poi uno sciopero generale nazionale, che si effettuerà l’11 e il 12 agosto nelle zone nelle quali i sindacalisti erano più forti e in genere nei centri industriali del centro-nord, con l’eccezione di Torino, dove era in atto un’ondata repressiva dopo la conclusiva degli automobilisti.

   L’atteggiamento della Camera del Lavoro appariva mutato rispetto a quello tenuto in occasione dello sciopero generale di maggio. In questa circostanza il vertice camerale non si mostrava contrario all’agitazione, non tentava di ostacolarla né di circoscriverla, bensì manteneva una posizione “neutrale” che però diventava favorevole dopo una riunione tenutosi il 7 agosto nei locali dell’Avanti, alla presenza di Lazzari, Rigola e Mussolini. La fine dello sciopero generale a Milano, in conformità a un compromesso definito “un puro e semplice armistizio, (…) un rinvio della soluzione, apparentemente per ragioni tecniche e di elaborazione dei dati, in realtà per una precisa valutazione politica circa il reciproco grado di resistenza delle due forze in campo[10] era accolta con sollievo da parte della Camera del Lavoro. Lo sciopero di agosto aveva mostrato non solo una leadership camerale che inseguiva i sindacalisti, ma aveva fatto affiorare una crescente divisione interna destinata a diventare sempre più profonda[11] e in qualche modo a condizionare la linea della Camera del Lavoro nei mesi successivi.

   Durante gli scioperi del 1913 la Cgl ebbe difficoltà enormi a imporre le sue direttive alla Camera del Lavoro di Milano. Questo periodo di lotta portò alla ribalta la grande fabbrica, assommando due differenti cicli di rivendicazione, espressione della collocazione nel ciclo di produzione. Da un lato gli operai professionalizzati in categorie come tipografi, muratori, ferrovieri orientati verso rivendicazioni volte alla delimitazione del potere decisionale del padronato in fabbrica, dall’altra la forza di lavoro generica, la cui preoccupazione principale era rivalutazione salariale in senso egualitario e la trasformazione del cottimo. D’altronde il lento e graduale passaggio dal sindacato di mestiere al sindacato di industria ebbe una forte accelerazione. La categoria perse i suoi connotati corporativi, e la struttura sindacale si adattò alle trasformazioni portando, a partire degli anni ’10, a uno spostamento del baricentro nei rapporti tra i vari livelli sindacali a favore di quello federale, processo che troverà la sua manifestazione più chiara negli anni della prima guerra mondiale imperialista.

   Alla vigilia della prima guerra mondiale imperialista, uno sciopero generale su scala nazionale eruppe come reazione all’uccisione di alcuni manifestanti antimilitaristi ad Ancona. Viene dichiarato lo sciopero generale, che coinvolge tutto il paese. Sostengono l’astensione del lavoro il PSI, la Cgl e il Sindacato dei ferrovieri (SFI). A Milano Corridoni e Mussolini prendono la testa di numerosi manifestanti. In qualche zona lo sciopero prende le sembianze di una e vera e propria rivolta, come in Romagna, dove si giunge quasi alla ribellione armata. Durante, quella che fu chiamata la “Settimana rossa” che durò dal 7 al 14 giugno 1914, molti sindacalisti rivoluzionari pensarono che fosse giunto il momento per la rivolta generale che avevano tanto a lungo predicato, per abbattere il governo, la monarchia e il dominio della borghesia. Ma mancando di un piano di azione per la lotta rivoluzionaria decisiva e di una direzione temprata che lo mettesse in pratica, ben presto lo sciopero si esaurì.

IL SINDACALISMO NAZIONALE IN ITALIA

   Subito dopo si profila il problema dell’intervento nella guerra mondiale imperialista. Quasi tutte le componenti del sindacalismo concordavano che in caso di conflitto generalizzato l’Italia sarebbe dovuto scendere in campo a fianco della Francia e della Gran Bretagna. L’impero prussiano legato all’Austria – Ungheria, rappresentava il simbolo stesso della reazione. Allo scoppio delle ostilità il sindacalismo rivoluzionario prese la testa dell’interventismo di sinistra. Il che provocò forti dissidi all’interno dell’USI, che aveva adottato nell’agosto del 1914 una risoluzione che chiedeva all’Italia di restare neutrale, minacciando nello stesso tempo di dichiarare uno sciopero generale rivoluzionario nel caso in cui il governo avesse deciso, nonostante tutto di entrare in guerra e quale che fosse il campo che eventualmente avesse scelto.

   Il 18 agosto 1914, alla tribuna dell’U.S.M., Alceste De Ambris lancia un violento attacco contro il neutralismo, sostenendo la necessità di aiutare la Francia e la Gran Bretagna contro la reazione teutonica e mettendo la guerra sullo stesso piano della rivoluzione francese. Questa dichiarazione a cui aderiscono alcuni sindacalisti rivoluzionari membri dell’USI (tra cui Corridoni, il capo dell’U.S.M., che in quel momento era in prigione), provoca una profonda spaccatura nell’organizzazione. La maggioranza guidata dall’anarchico Armando Borghi, sceglie la neutralità, mentre l’U.S.M., la Camera del Lavoro di Parma e un certo numero di sindacalisti rivoluzionari escono dall’USI e fondano all’inizio dell’ottobre 1914, il Fascio rivoluzionario di azione internazionalista. Al Fascio aderisce prontamente Mussolini decidendo di abbandonare la posizione neutralistica del PSI e cominciando la pubblicazione nel novembre 1914 del Popolo d’Italia.

   Quando l’Italia entra in guerra, l’evoluzione ideologica del sindacalismo rivoluzionario ha aggiunto ormai un punto di non ritorno. La sintesi socialista nazionale che era maturata prima del 1914, la prova del fuoco della guerra imperialista accelerò ulteriormente questo processo.

   Il 1917 è l’anno della disfatta di Caporetto e della rivoluzione di ottobre. I sindacalisti interventisti, si schierarono più che mai con la nazione (borghese) contro una rivoluzione che mette in pericolo l’interesse nazionale ma che rappresenta un modello di una rivoluzione “distruttrice”.

   Perciò e del tutto naturale che nel maggio 1918 alcuni sindacalisti rivoluzionari, assieme alcuni socialisti autonomi (non appartenenti al PSI) fondano l’Unione Socialista Italiana (USI), un movimento politico che si presenta come una sintesi delle posizioni interventiste di sinistra con le ideologie nazionalistiche e “rivoluzionarie”. Nelle elezioni del 1919, l’USI conquista 12 seggi in Parlamento: tra gli eletti, Arturo Labriola, che accettò il ministero del lavoro, propostogli da Giolitti.

   Nel giugno 1918 è fondata l’Unione Italiane del Lavoro (UIL), da parte dei sindacalisti interventisti. L’Unione sindacale milanese e i metalmeccanici che organizzava, la Camera di Lavoro di Parma e i lavoratori agricoli che la componevano ne erano le roccaforti, ma ebbe influenza anche negli ambienti sindacali repubblicani romagnoli, fra gli operai di La Spezia, nonché fra gli impiegati, specialmente di Roma. Il sindacato si distinse per le sue posizioni patriottiche, anti-collettiviste e anti-socialiste, per il suo progetto di Parlamento corporativo legiferante (nell’ambito della riforma del Consiglio superiore del Lavoro). Il giornale della Confederazione L’Italia Nostra che prenderà in seguito il nome di Battaglie dell’U.I.L. fa suo lo slogan La patria non si nega, si conquista! e la UIL diventa, negli anni del biennio rosso, tra il 1919 e il 1920, il centro di raccordo di un movimento che si vuole sindacalista e nazionale.

   Lo sciopero di Dalmine scoppia nel marzo 1919, dove gli operai occuparono lo stabilimento. Per la prima volta, gruppi di operai sindacalizzati cercano di dimostrarsi capaci di dirigere la produzione e di gestire la produzione e di gestire la fabbrica. Ma in pochi giorni lo sciopero è represso dall’esercito. I capi dell’agitazione appartenenti alla UIL, attribuiranno il fallimento agli intrighi del PSI e della Cgl.

   Da questo momento, l’ideologia sindacalista nazionale sosterrà l’idea della partecipazione diretta alla gestione dell’impresa. Quando nell’agosto-settembre 1920 gli operai occupano le fabbriche, i sindacalisti della UIL ritengono che gli operai, per evitare un intervento violento da parte dello Stato, che gli operai entrare in possesso dell’intero settore industriale, facendolo funzionare appieno.

   I leader del sindacalismo nazionale (com’è giusto definirli) presentano la loro proposta di autogestione al ministro del lavoro Arturo Labriola e al presidente del consiglio Giolitti, che riesce alla fine con un compromesso con la Cgl riesce a far cessare l’occupazione delle fabbriche.

   I sindacalisti nazionali ritenevano che la vera natura del conflitto in Italia durante il periodo del biennio rosso fosse di natura politica ma soprattutto economica, ritengono che lo sciopero generale, per quanto provocato da fattori economici, deve arrivare a una soluzione di ordine politico, da applicare a tutto il paese. Questa idea avrà come sbocco una concezione di tipo corporativismo e produttivistico, in conformità a un modello economico molto lontano dal socialismo marxista, che pur aveva costituito, quasi vent’anni prima, il punto di partenza e la teoria di riferimento dei sindacalisti rivoluzionari.

   Quando, nel settembre 1919, scoppia l’affare di Fiume, il sindacalismo nazionale si schiera senza esitazione con D’Annunzio: per la UIL, Fiume è parte integrante dell’Italia. De Ambris, che vi aveva soggiornato alla fine del 1919, torna nella città istriana nel gennaio dell’anno seguente, con la mansione di segretario di gabinetto del Comando della città. Con questo titolo, il leader sindacale presenta a D’Annunzio un primo abbozzo del testo che diventerà, alcuni mesi dopo, la nuova costituzione della città: la Carta del Carnaro. Questo documento politico, che da molti è considerato una delle principali prefigurazioni del corporativismo fascista, diventerà nel 1920 il manifesto del sindacalismo nazionale.

   L’insuccesso dell’occupazione delle fabbriche e il fallimento dell’impresa fiumana sono alla base della decisione presa da molti ex sindacalisti rivoluzionari (ora sindacalisti nazionali) di passare sotto la bandiera fascista. Fondato da Mussolini a Milano dopo la manifestazione di Piazza Santo Stefano, il 23 marzo 1919, il movimento fascista conta tra i suoi membri fondatori eminenti dirigenti del sindacalismo rivoluzionario, da Agostino Lanzillo a Miche Bianchi. Tra il 1919 e il 1920, i legami tra il fascismo e il sindacalismo si fanno sempre più stretti fino al momento in cui, verso la fine del 1920, il fascismo non mostrerà – specialmente nelle campagne – il suo lato più violento e reazionario.

   Negli anni 1920-22 si assiste al rafforzamento del fascismo come movimento politico. Dal punto del sindacalismo, in questi anni, si tratta di sapere se sia possibile cambiare il fascismo dall’interno oppure se, al contrario, si debba cercare di dividerlo per recuperarne l’ala sinistra. Prevale alla fine la prima soluzione: aderiscono al movimento fascista, allora, numerosi esponenti del sindacalismo, compresi alcuni teorici e dirigenti di prestigio, Prenunzio, Orazio, Olivetti, Bianchi, Rossi, Finale. Saranno quasi tutti leali servitori del movimento e poi del regime, e lo resteranno anche quando, nel fascismo trionfante, ben poco sarà sopravvissuto degli obiettivi del sindacalismo rivoluzionario.


[1] Ciò era determinato dal fatto che molte di queste Federazioni non erano esenti da tendenza di tipo corporativo.

[2] A. Gramsci, Alcuni temi della questione meridionale, 1926, in A. Gramsci, La costruzione del Partito Comunista 1923-1926, Einaudi Torino, 1971.

[3] Sul sindacalismo rivoluzionario w socialismo in Italia, si vedano: R. Michels, Storia critica del socialismo italiano dagli inizi fino al 1911, Firenze 1926; L. Valiani, Il Partito Socialista Italiano dal 1900 al 1908, in Rivista Storica del Italiana, LXXV, 1963; A. Riosa, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel partito socialista dell’età giolittiana, Bari 1976.

[4] A. Labriola, Spiegazioni a me stesso, Napoli s.d., p. 117.

[5] Lo sviluppo economico dell’Italia, dall’Unità alla vigili della prima guerra mondiale viene descritta da L. Cafagna, La rivoluzione industriale in Italia (1830-1914), in Storia economia d’Europa, diretta da C.M. Cipolla, Torino 1980, vol. IV, pp207-46.

[6] Secondo M. Antonioli, nel suo libro Azione diretta e organizzazione operaia. Sindacalismo rivoluzionario e anarchismo tra la fine dell’ottocento e il fascismo, Piero Lacata Editore, gli aderenti all’USI nel 1912 erano 87.100.

[7] Alla vigilia dello sciopero degli automobilisti, L’Internazionale, 19 aprile 1913.

[8] Asmi, Pref. Mi, Gab. Serie I, busta 302, Agitazione e scioperi operai, 1913, questore e prefetto, 24 maggio 1913.

[9] Lo sciopero automobilistico è finito. Il lavoro sarà ripreso domani, Avanti, 31 maggio 1913.

[10] A. Pepe, Lotta di classe e crisi industriale in Italia p.204.

[11] Questa divisione rifletteva quelle che c’erano nel PSI.

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~ di marcos61 su ottobre 17, 2022.

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