VERSO UNA SVOLTA EPOCALE?
Si può dire che nell’Occidente imperialista siano al potere dei personaggi che si potrebbero definire tranquillamente dei nazisti tecnocratici.
Mentre i nazisti classici indirizzavano la loro furia contro le razze ritenute inferiori destinate per nascita e stirpe porsi al servizio dei padroni. I nazisti tecnocratici invece, abbandonato il relitto razziale, puntano ora a sublimare per altre vie i sempreverdi concetti di sopraffazione e oppressione.
La furia dei moderni torturatori è molto più estesa rispetto al passato; i seguaci di Hitler, infatti, concentravano i loro infami sforzi contro alcune specifiche categorie messe ignobilmente all’indice; gli epigoni odierni del Führer puntano adesso allo sterminio indistinto di tutte le categorie sociali considerate inferiori. A costoro interessa fucilare in maniera capillare e risoluta “il mondo di sotto”, costringendo infine i deboli ad accettare, in preda alla disperazione, una sostanziale schiavitù al servizio delle classi dominanti.
Una delle caratteristiche principali che sostiene la permanenza in vita del nazismo tecnocratico è rappresentata dalla sofisticata capacità del sistema mediatico di manipolare la realtà.
Dietro a una parvenza di un pluralismo di facciata, il sistema mediatico presenta chiavi di lettura pressoché identiche, creando le condizioni per l’imposizione erga omnes di un sistema valori dominante che sfocia nel sistema di un pensiero unico. Formalmente tutti conservano il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma in realtà chi rifiuta di accettare le verità pre-confezionate offerte dal circuito finisce con l’essere sempre isolato e colpito.
Per soggiogare, manipolare e indirizzare i popoli non bastano le doti carismatiche di qualche imbonitore di provincia, servono le arti del mago. Quando la gente sente parlare di magia spesso e volentieri associa il termine a elementi come Wanda Marchi o ad altri personaggi da baraccone capaci al massimo di raggirare qualche ingenuo credulone. La vera magia – quella che apprendono e studiano i burattinai all’ombra del pensiero esoterico – è un’altra cosa[1]. Suscitare ad arte sentimenti di paura, riconoscenza, coraggio e riverenza è materia del mago, e non c’è nulla di pittoresco in tutto questo.
In una società formalmente libera e plurale chi gestisce il sentire della “pubblica opinione” normalmente domina la scena. Facciamo un esempio concreto per capirci meglio. Quando nel 2011 la frazione dominante della Borghesia Imperialista decise che l’Italia doveva essere commissariata e presa in ostaggio da Mario Monti, i media – che sono i braci operativi di decisioni assunte in altre sedi – prepararono la discesa in campo del “prestigioso professore” che venne raffigurato come un messia. Di certo i nazisti tecnocratici, per quanto potenti, non potevano limitarsi a dire la verità, cavandosela con una spiegazione del tipo “i padroni siamo noi”. Bisognava pur inventarsi qualcosa che giustificasse l’assalto, bisognava incutere nel popolino una qualche paura, scatenare il panico, affinché una volta abbassate le capacità critiche e razionali, i cittadini finissero per accettare le condizioni di “emergenza” ciò che avrebbero certamente respinto in condizioni di normalità. Fu così che nacque il terrore dello spread[2]. Il mago moderno fa questo, crea suggestioni dal nulla – non vere ma potenzialmente verosimili – che legittimano il passo successivo. Un passo in apparenza dettato da situazioni imprevedibili, oggettive ed eccezionali, in realtà placidamente sedimentato e deliberato fin dal principio.
Si tratta dello stesso procedimento logico che Nerone utilizzò per perseguitare i cristiani. L’imperatore fece bruciare Roma e poi addossò la colpa ai cristiani. Chiaramente l’obiettivo di Nerone non era quello di bruciare Roma ma trovare un escamotage per regolare i conti con i cristiani.
Spegnere il fuoco immaginifico rappresentato dallo spread rappresentava un obbiettivo da raggiungere a ogni costo, senza mai che nessuno sospettasse che l’incendio fosse stato aizzato ad arte proprio per volere di chi – cavalcandone gli effetti – sarebbe infine riuscito a centrare lo scopo desiderato.
Il nazismo tecnocratico come quello classico, è incompatibile con la democrazia sostanziale, e da un po’ di tempo a questo a questa parte anche di quella formale. Un caso emblematico e alla stesso tempo raccapricciante che testimonia la violenta e assurda torsione totalitaria che attanaglia l’Europa è rappresentato dal referendum greco tenutosi nel luglio del 2015[3].
Quando si parla di magia, si deve intendere, orientare nel senso desiderato il pensiero delle masse; magia è creare suggestioni false, suggestioni credute però da tutti come fossero vere; magia è veicolare surrettiziamente il senso di colpa presso le masse, magia è spiare la vittima, indurla ad autocolpevolizzarsi al fine cioè di scagionare conseguentemente in radice i veri responsabili (un esempio lampante è la retorica quando si accusa le masse di “avere vissuto al di sopra delle proprie responsabilità”). Magia è tutto questo, ma è di più e di peggio.
Nel formare le convinzioni di uomini che in seguito hanno avuto posizioni di potere ci sono dei cenacoli occulti come la Golden Dawn e la Società Teosofica.
La Golden Dawn (più precisamente Hermetic Order of the Golden Dawn, in italiano Ordine Ermetico dell’Alba Dorata) è una società fondata nel 1887 con l’obiettivo dichiarato di “praticare in modo più efficace la via attiva della magia nella fedeltà all’ideale insegnato dai Rosacroce nel XVII secolo”. I tre fondatori erano i massoni britannici William Robert Woodman, William Wynn Westcott e Samuel Liddel MacGregor Mathers che tra l’altro erano membri della Societas Rosicruciana in Anglia (S.R.I.A.). Aleister Crowley fu sicuramente l’esponente della Golden Dawn più importante. Secondo il politologo e storico Giorgio Galli (Il nazismo magico) la Golden Dawn fu lievito del nazionalsocialismo. Il movimento greco di estrema destra, nato sulle rovine economiche e sociali della Grecia, si chiama certamente non a caso Alba Dorata.
La Società Teosofica è nota ed è inscindibile da quella della sua fondatrice, Elena Petrovna Blavatsky, nata in Russia nel 1831 da genitori tedeschi e fuggita a 16 anni da quel paese (e da un matrimonio con un ufficiale). La sua vita sarà costantemente costellata da contatti con personaggi di varia e spesso enigmatica provenienza, tra cui non mancheranno molti frequentatori di logge massoniche. Massone, era il colonnello americano Henry S. Olcott, con il quale la Blavatsky creò a New York, nel 1873 la Società Teosofica, una sorta di parareligione sincretista, che univa elementi di Oriente e d’Occidente in una sorta di meeting post spiritualista.
Questa funzione “strumentale” della Blavatsky, all’interno di complesse vicende dai risvolti non sempre chiari, sembra evidenziarsi soprattutto a partire dai suoi primi viaggi in India (1878), che all’epoca era sotto dominio britannico. In India, la funzione della Società teosofica sarà non solo quella di elaborare una sorta di neo-orientalismo esportabile in Occidente, ma anche, quella di occidentalizzare l’Induismo. Lo storico indiano R. Mukerjee inserisce la Società teosofica fra le quattro organizzazioni che maggiormente hanno lavorato per trasformare la tradizione indù in una forma più in sintonia con la mentalità occidentale, elaborando una sorta di “protestantesimo indù”[4]. Non a caso, uno dei più stretti collaboratori della Società teosofica in India, Dayananda Saraswati, sarà noto nella sua terra con il soprannome di “Lutero indiano”[5]. Un’operazione culturale, questa, che sembra avere avuto aiuto diretto dello stesso governo britannico, che allora (e non bisogna scordarsi) era sotto il suo dominio, ed era interessato alla creazione di una “forma di spiritualità” che potesse essere condivisa dagli occupanti e dai colonizzati[6].
In Occidente, il ruolo della Società teosofica sarà quella di creare una nuova religiosità sulle rovine del cristianesimo: “Il nostro scopo non è di restaurare l’Induismo, ma di cancellare il Cristianesimo dalla faccia della Terra”[7].
Lo stesso obiettivo, sarà ribadito anche dal successore della Blavatsky, Annie Besant, che nel discorso di chiusura al Congresso dei Liberi Pensatori tenutosi a Bruxelles nel 1880, affermerà: “Innanzitutto combattere Roma e i suoi preti, lottare ovunque contro il Cristianesimo e scacciare Dio dai cieli!”.
Alice Bailey, fondatrice nel 1920 dell’associazione Lucifer Truts, il cui nome è stato poi cambiato in Lucis Truts, affinché il riferimento a Lucifero (che per il Teosofismo è un’entità positiva, presiedente all’evoluzione dell’umanità) non ferisse la sensibilità dei “profani”. Oggi la Lucis Trust è membro del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, il cui debito ideologico è stato pubblicamente riconosciuto nel 1948 dall’allora assistente del Segretario generale delle Nazioni Unite, il belga Robert Muller.
Alice Bailey, è stata tra quelli che hanno promosso quell’ideologia dell’Era dell’Acquario che, a partire dalla cultura hippie degli anni ’60 fino alla New Age, ha costituito un vero e proprio annuncio profetico del “nuovo mondo”. Secondo la Bailey, infatti, l’Età dell’Acquario sarebbe destinata a sostituire la vecchia Età dei Pesci (dominata dal cristianesimo) con una Nuova Era di riunione fra i popoli e fra le religioni, sotto il controllo delle organizzazioni internazionali. Quest’obiettivo si realizzerà, secondo la Bailey con un’opera volta a trasformare la coscienza di massa: “Segno della magia del settimo grado sulla coscienza di massa, è l’uso crescente di slogan per ottenere certi risultati e spingere gli uomini a certe azioni collettive”[8]. Cosa non è quest’affermazione se non dare dignità teorica alla manipolazione delle menti delle persone?
Tutte queste realtà visibili, tuttavia, sembrano essere più che altro la punta dell’iceberg di un mondo complesso e sotterraneo, di cui è difficile farsi un’idea. In definitiva, per quanto riguarda le organizzazioni e i gruppi visibili, non ha torto René Guénon, quando afferma un giudizio sulla Blavatsky: “Si può legittimamente concludere che M.me Blavatsky fu soprattutto, nel bel mezzo delle circostanze, un “oggetto” o uno strumento nelle mani di individui o di gruppi occulti che si facevano scudo della sua personalità, allo stesso modo di altri che a loro volta furono strumenti nelle sue mani”[9].
Tutto questo deve essere visto dentro una situazione generale che vede la predominanza del capitale finanziario.
Su questa definizione bisogna fare una precisazione: il capitale finanziario non è la causa o la forza motrice della crisi. Il gonfiamento, l’accrescimento rapido, tumultuoso e illimitato del capitale finanziario è un effetto, una delle manifestazioni della crisi, come lo è la sovraproduzione delle merci e la sovraproduzione di capitali.
Il capitale finanziario è una categoria tipica della fase imperialista. Lenin ha mostrato il ruolo dirigente, in questa fase del capitalismo nel campo economico del capitale finanziario.
Con questo, non bisogna esagerare il ruolo delle banche[10] nell’economia, Lenin non parlò mai di soggezione del capitale industriale al capitale bancario, bensì di fusione di queste due forme di capitale che egli denominò capitale finanziario.
Marx dice a proposito: “Quando la produzione capitalista si sviluppa pienamente e diventa il modo di produzione fondamentale, il capitale usuraio si sottomette al capitale industriale e il capitale commerciale divento un modo di essere del capitale industriale, una forma derivata dal processo di circolazione. Ma proprio per questo, entrambi devono arrendersi e assoggettarsi preventivamente al capitale industriale” (K. Marx, Teorie del plusvalore, Tomo II°).
Per Marx è la banca si indebolisce se perde i suoi legami con l’industria e il commercio. Il capitale può funzionare solo simultaneamente come capitale produttivo, capitale merci e capitale denaro. Ma in questa formula trinitaria è il capitale produttivo che svolge il ruolo più importante poiché può funzionare autonomamente, mentre gli altri costituiscono ciò che Marx chiama “capitale inattivo”.
Certi equivoci nascono dal fatto che per “finanza” il cosiddetto senso comune intende fondamentalmente la speculazione borsistica. La definizione di Lenin è come si è visto più ampia e lungimirante: infatti, se si approfondisce l’analisi dei bilanci delle grandi imprese che nominalmente fanno parte del settore manifatturiero, si scopre che il peso delle attività finanziarie è ancora maggiore di quello che dicono le statistiche. Il capitale produttivo, degli stabilimenti FIAT (attualmente FCA), è determinato non solo dalle partecipazioni azionarie della FIAT detenute dalle varie “finanziarie” del gruppo e del denaro in prestito delle banche, ma anche dalle azioni del gruppo FIAT detenute dalle banche, tutto ciò determina la formazione di un unico capitale finanziario. I fondi pensioni degli USA, per esempio, detengono azioni e obbligazioni di grosse imprese, speculano sui cambi e sui tassi di interesse, hanno quote investite in immobili: la speculazione, la produzione materiale e immateriale, il capitale bancario, la rendita immobiliare, il capitale produttivo di interesse, tendono a fondersi, a presentarsi come singoli aspetti di un gigantesco meccanismo di valorizzazione su scala mondiale. Secondo lo studio della società di consulenza InterSecResearch, le azioni possedute da queste strutture su scala mondiale nel 1998 arrivavano a 11 miliardi di dollari. Il 10% circa dei portafogli dei fondi pensione statunitensi sono investiti fuori dagli USA, e sono diventati o protagonisti di primo piano delle fusioni e delle acquisizioni nel mondo. La General Motor, pur essendo una delle più grandi imprese del settore automobilistico del mondo, in realtà è un agglomerato in cui gli assetti finanziari costituiscono l’80% del suo bilancio aggregato, il discorso vale per le imprese come Ford e Chrysler.
Vediamo adesso il discorso su crisi e speculazione.
Con il crollo del 1987 il sistema economico cade vittima dell’estrema instabilità dei rapporti che si era venuta a creare. Ma a differenza del 1929, dove le classi dominanti strinsero i cordoni del credito e assettarono così una mazzata finale, il sistema aveva creato nel frattempo delle “cinture protettive”, che permise di circoscrivere i danni e isolare i settori colpiti da tutti impedendo la propagazione dei fenomeni. Queste forme di gestione collettiva dell’economia per gestire la crisi, che già Marx ne parlava nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse). Il capitolo del denaro. (Opere complete Vol. 29), nascono dal fatto che la fase imperialista del capitalismo è caratterizzata dal contrasto tra la proprietà privata delle forze produttive con il loro carattere collettivo[11],per questo motivo diventa un’esigenza da parte della borghesia creare in continuazione forme di gestione collettiva che costituissero una mediazione di questo contrasto, che cerchino di porre in qualche misura dei freni agli effetti più devastanti del fatto che i rapporti di produzione capitalisti sopravvivono. Queste forme di gestione collettiva sono: le società per azioni, le associazioni di capitalisti, i cartelli internazionali di settore, le banche centrali, le banche internazionali, i sistemi monetari internazionali, i sistemi monetari fiduciari, le politiche statali, gli enti economici pubblici, i contratti collettivi di lavoro, i sistemi assicurativi generali, i regolamenti pubblici dei rapporti economici, gli enti sopranazionali, il capitalismo monopolistico di Stato.
Ma permanendo lo stato di crisi, il capitale speculativo si ingigantisce, ha come unica strada per cercare di evitare esplosioni ancora più violente la deregulation finanziaria, vale a dire lo smantellamento di queste cinture preventiva[12].
In tutti i paesi imperialisti, si adottarono tre misure nel campo delle politiche economiche per cercare di frenare il percorso della crisi.
La prima fu quella di sottrarre le banche centrali e in generale il sistema bancario (che facendo credito crea nuovo denaro) dall’autorità dei governi i quali almeno in qualche misura, rispondevano del loro operato ai partiti di massa che a loro volta dovevano tenere conto del loro elettorato popolare (che magari anche in maniera indiretta, nei momenti di radicalizzazione della lotta di classe, poteva essere influenzato in senso classista se non addirittura rivoluzionario, pensiamo a un’associazione di lavoratori cattolici come le ACLI che nel 1969 sotto l’ influsso dell’autunno caldo rompe il collateralismo con la DC e l’anno dopo parla di “ipotesi socialista” guadagnando la sconfessione del Vaticano. La direzione delle banche centrali, del sistema bancario e più in generale del sistema monetario (le istituzioni che producono denaro, quelle che amministrano la circolazione fissando i criteri della concessione del credito e i tassi di interesse, le regole e le abitudini che presiedono alle relazioni tra loro) vennero affidate a uomini di fiducia della Borghesia Imperialista i sedicenti “tecnici” (come se la loro gestione fosse dettata da leggi di natura, indipendenti dagli interessi delle persone e classi coinvolte).
Nel nostro paese la separazione tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro fu conclusa nel febbraio 1981 dal governo Forlani (nella persona del Ministro del Tesoro Nino Andreatta un tecnocrate della Borghesia Imperialista esponente della cosiddetta “sinistra democristiana”) e dall’allora Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi. Essi alla chetichella e del tutto illegalmente misero in vigore una decisione politica dalle implicazioni enormi ed eversiva anche della Costituzione del 1948. Con questa decisione lo Stato non poteva più decidere quanta moneta la Banca d’Italia doveva creare perché lo Stato potesse far fronte ai suoi compiti in sede politica. Per far fronte a essi da allora lo Stato avrebbe dovuto far ricorso al mercato finanziario. Avrebbe cioè dovuto emettere e vendere titoli finanziari con cui chiedere in prestito alla “comunità internazionale” dei banchieri, delle società finanziarie, dei fondi di investimento, i soldi che eccedevano le sue entrate: cioè dei servizi pubblici, dei profitti delle imprese pubbliche, delle rendite dei beni demaniali.
In questo modo la “comunità finanziaria” otteneva quattro vantaggi.
- Creava un campo proficuo di investimento per i suoi capitali che, stante la sovrapproduzione assoluta di capitale in corso nell’economia reale, aveva difficoltà a investire altrimenti. Era l’epoca delle furiose pressioni del sistema imperialista mondiale sul “campo socialista” e sui paesi neocoloniali, perché si indebitassero.
- Creava un buon pretesto per premere, con la virtuosa motivazione di reperire denaro per la Pubblica Amministrazione, a favore delle privatizzazione del settore pubblico dell’economia e dei servizi pubblici che in questo modo diventano un altro campo di investimento del capitale. Privatizzazione che infatti in Italia partì alla grande sotto l’alta direzione di Romano Prodi all’epoca presidente dell’IRI (mentre il debito pubblico, anziché diminuire per i proventi delle privatizzazioni, continuava ad aumentare a gran velocità).
- Allentava la pressione fiscale, mentre la spesa pubblica aumentava per le prestazioni crescenti che la “politica” (intesa come partiti, correnti, consorterie varie, lobbie di interessi, logge massoniche come la P2) imponeva alla Pubblica Amministrazione. Una delle varie per far fronte alle maggiori spese per la Pubblica Amministrazione era l’aumento delle imposte, delle tasse e dei contributi, ed era sempre viva la pressione per farli pagare, come d’altronde indica la Costituzione (e questo non solo in Italia, ma per effetto della prima ondata della Rivoluzione Proletaria Mondiale cominciata con la rivoluzione di ottobre del 1917 in Russia e sbocciata nel secondo dopoguerra con la costituzione di un campo socialista, principi analoghi alla Costituzione italiana erano iscritti nelle Costituzioni e nelle legislazioni di tutti i pesi retti a democrazia borghese) “ad ogni cittadino i proporzione al suo reddito”, con evidente danno per i capitalisti, il clero e le rispettive associazioni e attività economiche.
- Poneva le premesse per la riduzione della spesa pubblica, cioè per contrastare con maggior argomenti le richieste che il movimento proletario e popolare di crescenti prestazioni della Pubblica Amministrazione per dare attuazione effettiva ai diritti (istruzione, igiene, sanità, pensioni, servizi vari ecc.) che dovevano essere universali stando alla coscienza che la solidarietà sociale che la prima ondata della Rivoluzione Proletaria Mondiale aveva diffuso. Occorre ricordare che in tutti i paese imperialisti dopo la seconda guerra mondiale, la Borghesia Imperialista, attraverso i revisionisti moderni ha corrotto il Movimento Comunista trasformandolo da un movimento rivoluzionario in un movimento puramente rivendicativo nell’ambito della società capitalista. Per la Borghesia fu certamente un decisivo vantaggio politico, che però comportò un prezzo elevato da un punto di vista economico.
In sostanza, con la sottrazione del sistema bancario e monetario all’autorità del governo, in ogni paese imperialista i governi e in generale le autorità della Pubblica Amministrazione nazionale e locale divennero clienti del sistema finanziario. Per finanziare la spesa pubblica eccedente, le loro entrate, emettevano titoli di debito pubblico che vendevano alle banche e tramite queste al pubblico, privatizzando imprese e servizi pubblici e vendendo beni demaniali. Tutte queste privatizzazioni erano campi di investimento per i capitalisti.
La seconda misura fu l’abolizione delle leggi e dei regolamenti e la restrizione dell’autorità dei governi a proposito della circolazione internazionale delle merci e dei capitali di investimento (i cosiddetti investimenti diretti): i capitali usati per aprire nuove aziende o comperare aziende esistenti, (quindi non semplici partecipazioni azionarie al capitale, che rientrano nel capitale finanziario, ma le aziende stesse). Le potenze maggiori imposero agli altri paesi, pena sanzioni e altri trattamenti e condizioni “di minor favore” per il credito e il commercio accordi e patti del tipo World Trade Organisation (WTO) fino al Transatlantc Trade and Investement Partnership tra UE e USA. Questi accordi permettevano ai capitalisti di impiantare imprese nei paesi che preferivano e di esportare dove loro conveniva, limitando o abolendo le interferenze dei governi locali. A questo scopo fu creato e rafforzato un sistema di leggi e di corti a giurisdizione internazionale.
La terza misura fu l’abolizione delle leggi e dei regolamenti che limitavano la creazione di titoli finanziari e la loro circolazione internazionale e che in ogni paese le sottomettevano ad autorizzazioni dei rispettivi governi. Con misure varie veniva facilitata la collocazione delle aziende in Borsa, gli aumenti di capitali da parte delle aziende (l’emissione di nuove azioni e obbligazioni), la creazione di titoli finanziari di nuovo tipo, in particolare di tipo speculativo (relativi a derrate alimentari, a minerali, a quotazioni di titoli già in circolazione), l’acquisto e la vendita di titoli “allo scoperto” (cioè di titoli che il venditore non possiede ma che si impegna a consegnare alla scadenza fissata), l’emissione di titoli che assicuravano titoli già circolanti (titoli derivati), ecc. I titoli finanziari di tipo speculativo drenano i risparmi del ceto medio (commercianti, artigiani, impiegati di livello superiore, tecnici ecc.), e dei lavoratori dipendenti (liquidazioni, pensioni, ecc.) arricchiscono alcuni capitalisti finanziari a danno di altri (coinvolgendo in questa ripartizione l’economia reale dato che il capitale delle aziende che producono beni e servizi è costituito in tutto o in parte da titoli finanziari e che spesso lo stesso capitalista è sia produttore di beni e servizi sia capitalista finanziario e i tracolli finanziari si riversano quindi sulle aziende). Nacque allora quella che Tremonti quando era ministro di Berlusconi declamava come “finanza creativa”. Simili titoli potevano essere comperati, venduti e quotati nelle Borse di vari paesi connesse in rete: ovviamente Wall Street (New York), la City di Londra, Francoforte e Parigi facevano la parte del leone. I paradisi fiscali fiorirono come mai prima. Le nuove tecniche bancarie e di comunicazione principalmente derivanti dall’informatica davano un efficace supporto alle nuove libertà dei capitalisti.
Attraverso le tre misure illustrate, passo dopo passo cresceva la massa del capitale finanziario e le istituzioni finanziarie risucchiavano denaro dall’economia reale che è principalmente industriale, commerciale e monetarie (attività svolte sempre dentro le leggi che muovono l’economia capitalista): quindi esposta al risucchio[13] e aprivano ai capitali terreni più ampi d’investimento (sia nel campo dell’economia reale che in quello finanziario) nei singoli paesi e nel mondo. L’economia finanziaria offriva uno sbocco alla sovrapproduzione di capitale che manifestava nell’economia reale assorbendo da questa capitale che restando nell’economia reale avrebbe esasperato la concorrenza, la sovrapproduzione di merci, il consumismo, le rivendicazioni salariali e normative e altri fenomeni che l’avrebbero sconvolta. Nello stesso tempo l’economia finanziaria alimentava l’economia reale con iniziative speculative (speculazione sulle materie prime con connesse nuove esplorazioni, sulle derrate alimentari, sulle grandi opere ecc.) e bolle di vario genere (bolle nel settore immobiliare, bolle nell’innovazione informatica, bolle nel commercio, ecc.). Come si diceva prima, in ogni azienda capitalista di un certo rilievo, il settore finanziario diventava parte indispensabile e rilevante del funzionamento aziendale.
Lo sviluppo su grande scala del capitale finanziario evitò che la crisi strutturale del capitalismo precipitasse già negli anni ’80 e ’90. L’acuirsi della crisi nell’economia reale capitalista avrebbe, su scala maggiore di quanto avvenga oggi, alimentato la lotta della classe operaia e delle masse popolari in genere.
Ma sul piano dell’economia reale capitalista, della struttura della società borghese che era ammalata di sovrapproduzione di capitale, lo sviluppo su grande scala del capitale finanziario fu un rimedio efficace, come sarebbe un rimedio efficace alla fatiscenza di un edificio, nei cui muri del piano terra si formano delle crepe e nelle cui fondamenta ci sono cedimenti (la crisi strutturale), costruire piani superiori e via via spostarsi a vivere in questi: prima o poi ti troverai travolto in una rovina ancora più disastrosa (quella che si è messa in moto nel 2008).
In un articolo pubblicato nell’ottobre 2014 su Affari e finanza (il settimanale di economia e finanza di Repubblica) del quale si desume che, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (FMI), alla fine del 2013 le attività finanziarie sull’intero globo assommavano a 993 bilioni di dollari (993 mila miliardi) mentre il prodotto lordo mondiale (World Bank) si attestava sui 75 milioni di dollari (75 mila miliardi). In altre parole, il capitale finanziario, era 13 volte il prodotto della economia “reale” (cioè dell’insieme dei beni materiali e dei servizi prodotti sul pianeta).
Tenuto conto che la forza lavoro mondiale assomma a circa 3 miliardi e 415 milioni di persone (World Bank, 2016) le due cifre sopra riportate che ogni lavoratore del globo (da 15 anni in su):
- Produce annualmente beni c/o servizi per un valore (venduti dai produttori) circa 21.962 dollari;
- Ed è personalmente “sovrastato” da una “nuvola” di 290.776 dollari che vorrebbero trovare un impiego profittevole (per i capitalisti che ne detengono i titoli), ma che non lo trovano nelle condizioni attuali di funzionamento del modo di produzione capitalista (stante il grado di sviluppo raggiunto dalla composizione organica del capitale a livello mondiale).
Dall’articolo sopracitato si desume anche che, secondo stime della Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI) di quei 993 mila miliardi di dollari:
- 283 mila miliardi sono finanza primaria, ovvero azioni, obbligazioni e attivi bancari;
- Mentre 710 mila miliardi di dollari sono prodotti costituiti da prodotti derivati scambiati fuori dai mercati regolamentati, dei quali solo una piccola quota è legata a transazioni che hanno a che fare con l’economia reale. Il grosso sono scommesse: sui tassi di interesse, sulle valute, sui prezzi delle materie, sull’andamento degli azionari, sul fallimento di stati o di grandi imprese.
Nella tabella seguente, riepiloghiamo i dati citati sopra:
Economia reale capitalista e captale finanziario. Anno 2013
Miliardi di dollari | % sul totale | |
PIL | 75.000 | 7,0 |
FINANZA PRIMARIA | 283.000 | 26,5 |
DERIVATI FINANZIARI | 710.000 | 66,5 |
TOTALE CAPITALI | 1.068.000 | 100 |
Da questi dati si deduce che l’economia reale capitalista (quella che si produce beni e servizi) è sovrastata è schiacciata da una massa enorme di capitali in cerca di una valorizzazione adeguata agli appetiti dei capitalisti.
Mentre l’economia reale produce continuamente profitti che vanno ad aggiungersi alla massa dei capitali eccedenti le possibilità di impiego nell’economia reale stessa al grado attuale di sviluppo della composizione organica del capitale diminuiscono.
Proviamo a dare le conclusioni politiche di questa analisi. Nel 2013 i capitalisti vantavano un capitale di circa un milione di miliardi di dollari USA. Nelle mani dei capitalisti, il denaro non è mezzo di scambio d’acquisto, ma capitale e quindi ognuno dei capitalisti, vuole che il suo capitale renda, anche se lui “non si sporca le mani” nella produzione di merci. E infatti di anno in anno la massa del capitale vantato dai capitalisti aumenta. Ormai (da quando nel 1971 Nixon abolì la convertibilità del dollaro in oro) il denaro mondiale è tutto fiduciario, i banchieri centrali creano denaro e il denaro è capitale da valorizzare.
Di fronte a questo sta una produzione annua di merci (beni e servizi) che, nonostante tutte le misure messe in atto per aumentarla moltiplicando i bisogni e riducendo la vita dei beni messi in circolazione, nel 2013 ammontava solo a 75 mila miliardi di dollari. Per quanto ogni capitalista produttore di merci sprema i suoi lavoratori (che però sono anche i clienti), i capitalisti da qui ricavano una massa di profitti che è solo una frazione dei 75 mila. Infatti in questi sono compresi anche i salari e il capitale costante (mezzi di produzione consumati e materie prime). È quindi evidente che col passare degli anni i capitalisti hanno sempre più difficoltà a valorizzare il loro capitale con i profitti che ricavano dall’economia reale (la produzione di merci). Ma, a parte i “risparmiatori” che ci rimettono le penne (le crisi bancarie e di borsa sono ricorrenti), l’oligarchia finanziaria, ha i mezzi (il denaro, la posizione politica e sociale e l’intraprendenza) per muovere mari e monti perché il suo capitale renda. Quando nella sezione terza (capitali 13, 14 e 15) della sezione terza de Il Capitale Marx illustrò le crisi per sovraproduzione assoluta (cioè riguardante tutti i settori dell’economia) in cui il capitale sarebbe incappato, egli indicò anche alcune controtendenze che avrebbero frenato il cammino. Ne enumera ben nove. Tra esse indicò anche l’aumento del capitale azionario (grosso modo una parte di quello viene definita finanza primaria), ma non mise però lo sviluppo illimitato del capitale finanziario (una buona parte della finanza primaria) e speculativo (principalmente i derivati finanziari). Cosa del tutto comprensibile, dato che Marx illustrava un futuro a cui la società borghese sarebbe approdata se la rivoluzione socialista non avesse posto fine ad essa. Engels nelle Considerazioni supplementari scritte nel 1895, quindi trent’anni dopo che Marx aveva scritto la sezione sulla sovraproduzione assoluta di capitale, accenna allo sviluppo del capitale speculativo che già alla fine dell’Ottocento aveva assunto un ruolo rilevante, ma di denaro mondiale fiduciario ancora neanche si parlava. Noi oggi ci troviamo in una situazione in cui il corso delle cose è determinato proprio dall’eccedenza di capitale: una massa enorme e crescente di capitale che deve valorizzarsi senza direttamente “sporcarsi le mani” nella produzione di merci. Per quanto grande sia la massa dei profitti che i capitalisti estorcono all’economia reale, essa non basta a soddisfare la fame di profitto di tutto il capitale; mentre la grandezza del capitale complessivo non fa che crescere, l’economia reale diventa una porzione sempre minore di esso. D’altra parte la valorizzazione del proprio capitale è per ogni capitalista la legge suprema, quella che determina il comportamento di tutti i capitalisti e delle loro autorità (chi non sta al gioco al gioco, viene scartato: “siamo in guerra” disse qualche anno fa Marchionne).
Una conseguenza della preminenza del capitale finanziario abbiamo è la degenerazione delle istituzioni e degli apparati degli Stati. È dentro questo quadro che si ha il processo degenerativo-ultimo delle varie massonerie che attuano infiltrazioni nella società e nelle istituzioni. Massonerie che in Europa sono nella sostanza divise in due fronti principali, (divisione che c’è anche in Italia), tra atlantisti-europeisti-mondialisti e nazionalisti anti-Ue, ma anche per l’Europa degli Stati. Ovviamente vi sono varie altre sfumature ma lo scenario dei poteri forti visibili più o meno fornisce a riguardo queste indicazioni.
Inoltre, per capire bene la situazione bisogna tenere conto che la mondializzazione capitalista presuppone un paese egemone, che abbia un autentico dominio nel campo industriale. A garanzia del commercio industriale, nel XIX secolo bastava il dominio dei mari, infatti, l’Inghilterra impediva il blocco dei traffici da parte di potenze locali e imponeva con forza ogni commercio a partire da quello dell’oppio. Non aveva bisogno di un grande esercito, perché era protetta in quanto isola – questo svantaggio svanirà con lo sviluppo dell’aviazione e dei missili – e manteneva il dominio nelle colonie prevalentemente con le truppe indigene.
Furono le lotte per il mercato mondiale e non le pattume di Guglielmo II o la pazzia di Hitler a portare alle guerre mondiali. Dopo il secondo conflitto mondiale sia gli ex paesi dell’asse che quelli alleati (tranne gli USA) erano a terra. Gli USA poterono così imporre il loro dominio economico e militare, la loro lingua, i loro costumi, furono gli stessi investimenti americani a risuscitare, almeno sul piano economico, i vecchi avversari, Germania, Giappone, Italia, poi lo sviluppo economico giganteggiò in altre parti del mondo. Gli stessi successi della mondializzazione capitalista stanno avendo come conseguenza il tramonto dell’egemonia economica USA, anche se, se per inerzia storica, non è ancora infranto il suo dominio politico, militare, culturale e linguistico.
Il controllo del mondo è diventato sempre più costoso. È fallito, il progetto pseudoliberale di Obama, di inquadrare l’economia mondiale tagliando fuori Russia e Cina, e rinchiudendo una serie di altri paesi in due gabbie, TTIP e TPP, in cui solo gli USA avrebbero posseduto le chiavi, con la sostituzione del diritto internazionale con sentenze di commissioni legate alle multinazionali. I trattati avevano lo scopo di vincolare agli USA paesi che, per esigenze di mercato, avevano bisogno di commerciare con la Cina o con la Russia o con tutte e due. Non si tratta quindi della tanto decantata economia di mercato, ma di fare violenza al mercato (cosa abituale nell’età imperialista). La vittoria di Trump non è la causa della sconfitta di questo progetto, ma della presa d’atto della sua irrealizzabilità. Durate la campagna elettorale, persino la Clinton prese le distanze dal TPP.
Il tramonto dell’egemonia economica degli USA, anche se lungi dall’essere conclusa, è la causa remota di tutti i cambiamenti politici che stanno avvenendo in Europa. Il peso dell’enorme apparato di cui gli USA si servono per mantenere l’egemonia è insostenibile. Le basi, oltre 800, e le costosissime portaerei possono essere ancora utili per guerre contro paesi mal armati o piccole potenze, ma da quando la Russia ha dimostrato di poter colpire con precisione ogni punto del Vicino Oriente con missili lanciati da corvette da mille tonnellate naviganti nel Caspio, ogni base, ogni portaerei si è trasformata in un possibile bersaglio.
Nel frattempo la Cina è la nuova officina del mondo, la Russia è tornata a giocare il ruolo di potenza mondiale, l’Europa è sempre di più in Giano bifronte, ex padroni sconfitti in due guerre mondiali e asserviti ed occupati militarmente, ma infidi detentori dell’euro e pronti al “tradimento” appena possibile. La fine del mandato di Obama ha coinciso con un passaggio delicato nell’elaborazione della nuova strategia mondiale: i gruppi di potere presenti negli USA devono scegliere se continuare lo stato di guerra a bassa intensità, magari aprendo nuovi conflitti locali (ad esempio promuovere una guerra di confine tra Pakistan e India), oppure passare con decisione a una guerra mondiale con tutte le incognite del caso soprattutto in ordine all’utilizzo dell’arma nucleare, oppure ancora cercare ancora una strategia che si ponesse nel mezzo alle due opzioni di bassa ed alta bellicosità.
Per affrontare la crisi, negli organismi che raccolgono rappresentanti del grande capitale e i think tank al loro servizio, si discute e si pianificano scenari adeguati ad affrontare questa situazione di crisi semi-permanente per superare gli affanni cronici dell’economia, ma soprattutto per controllare possibili conseguenze sociali, dovute tanto al pieno dispiegarsi di una nuova crisi, quante alle misure previste per ridare fiato alla ripresa economica. Il rapido processo di digitalizzazione, insieme all’applicazioni dell’Intelligenza Artificiale e della robotica, sono destinati a realizzare un sistema sociale assolutamente inedito in cui la schiavizzazione dell’essere umano (proletari, sottoproletari, ampie stratificazioni delle piccola borghesia) raggiungerà livelli del tutto nuovi. Tutto ciò, attraverso gli incredibili aumenti di produttività ottenibili, provocherà e già sta provocando un enorme massa di disoccupati, determinando un’ulteriore frantumazione del mercato del lavoro e la diffusione di condizioni lavorative ancora più precarie, consentendo un’intensificazione nell’uso dell’uso della forza-lavoro senza precedenti.
Non ci troviamo perciò di fronte a uno dei tanti processi di ristrutturazione del capitalismo, ma ad una vera e propria profonda trasformazione volta a creare un controllo centralizzato della ricchezza e del potere politico del tutto inaudito. Nei progetti di alcuni dei più analisti e sostenitori di tale trasformazione ci si spinge fino a mettere in discussione lo stesso concetto di uomo-macchina che viene visto come il fulcro dell’avvento di un’era nuova, in cui l’umanità supererebbe i limiti fisici dettati dalla natura vivente.
A tali necessità i progetti capitalistici hanno subito una rapida accelerazione per il prospettarsi di una ulteriore accelerazione, (dopo quella del 2018) della crisi.
Alle classi dirigenti delle potenze delle potenze imperialiste del pianeta era chiaro che si stava entrando in un’accelerazione della crisi, la recessione che ne sarebbe derivata sarebbe stata peggiore di quella del 2008, e pertanto serviva innanzitutto un colpevole su cui far ricadere la responsabilità della crisi economica: se nel 2008 la colpa della crisi veniva fatta ricadere negli speculatori malvagi, sulle banche ecc., oggi questa crisi potrà diventare, grazie a questa abile manovra internazionale, la “crisi economica causata dal coronavirus”. Da questo punto di vista diventa secondario, anche se non irrilevante, stabilire le origini e le cause del virus. Quello che conta è l’utilizzo che ne è stato fatto, che ha prodotto un salto di qualità nel controllo sociale da parte del potere borghese, da ottenere, appunto, attraverso la gestione autoritaria dell’emergenza, per abituare fin d’ora lavoratori e masse popolari a comportamenti caratterizzati dall’obbedienza, pena l’emarginazione. Il dominio del capitale sulla forza-lavoro, che deve estendersi ad ogni aspetti della vita dei salariati (e non solo).
In nome dell’emergenza pandemica, non solo si affinano i dispositivi per rendere stabili e permanenti il disciplinamento ed il controllo sociale, ma si predispongono anche i mezzi economici e finanziari per implementare accelerando i tempi, la nuova ristrutturazione economica e sociale con l’iniezione di nuovi capitali (attraverso il Recovery Fund europeo in Italia declinato nel PNRR) per aumentare la produttività (Industria 4.0, robotizzazione, telemedicina ecc.) e tagliare ulteriormente i settori non produttivi di profitto (si veda ad esempio la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione). Da tale ristrutturazione saranno ulteriormente e violentemente investiti anche i settori artigianali e del piccolo commercio, attraverso la digitalizzazione spinta destinata a rendere proibitivi i costi per stare sul mercato, favorendo in questo modo una ulteriore centralizzazione del capitale e una massiccia polverizzazione e impoverimento di ampi strati di piccola borghesia.
CRISI E TENDENZA VERSO UN FASCISMO RIMODERNATO
La necessità di far fronte alla crisi e alle crescenti contraddizioni che attraversano il mondo spingono tutti i paesi imperialisti in direzione di un fascismo rimodernato che dal mio punto di vista come dicevo prima si potrebbe definire pure nazismo tecnocratico.
Per capire meglio quest spinta tendenza nei paesi imperialisti bisogna partire dall’evoluzione del Capitalismo Monopolistico di Stato.
Lenin ha evidenziato i tratti fondamentali dell’imperialismo nel testo “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”.
Dobbiamo qui considerare in particolare la questione dello Stato. Lenin evidenzia che nell’imperialismo lo Stato si modifica profondamente rispetto alla precedente fase ottocentesca caratterizzata dall’espansione del capitalismo che vede il liberalismo la sua espressione politica, economica e culturale. Tale modificazione è sintetizzata da Lenin con la categoria del Capitalismo Monopolistico di Stato (CMP). Questa categoria indica appunto come nell’imperialismo il capitalismo e lo Stato, inteso come complesso degli apparati del dominio, si fondono tra di loro.
In questa fase nascono le Forme Antitetiche dell’Unità Sociale. Le FAUS sono istituzioni e procedure con cui come si diceva prima (ed è bene ricordarselo) con cui la borghesia cerca di far fronte al carattere collettivo ormai assunto dalle forze produttive, restando però sul terreno della proprietà e delle iniziative individuali dei capitalisti. Per farvi fronte crea istituzioni e procedure che sono in contraddizione con i rapporti di produzione capitalisti. Sono mediazioni tra il carattere collettivo delle forze produttive e i rapporti di produzione che ancora sopravvivono.
Affrontare la questione dei caratteri di fondo del rapporto tra capitalismo e Stato nei paesi imperialisti vuol dire considerare il Capitale Monopolistico di Stato (CMS) e lo Stato moderno, siano connessi indissolubilmente, ma come nello stesso tempo non risultino coincidenti. Il CMS è il cuore e la testa dello Stato moderno che si potrebbe definire Sistema del Capitalismo Monopolistico di Stato (SCMS). Quest’ultimo è una sorta di involucro amministrativo e burocratico-militare che contiene la “società civile” al cui interno risultano posizionate, sul piano politico e ideologico ma in stretta connessione con la loro natura economico-sociale, le restanti classi e frazioni di classi (quelle appunto non coincidenti con la borghesia monopolista). Dal SCMS sono ovviamente esclusi il proletariato e le masse popolari.[14]
Il capitale finanziario si fonde con i centri della burocrazia, dell’esercito e degli apparati repressivi, diventando così Capitale Monopolistico di Stato (CMS). Questa forma di Capitale rappresenta la borghesia monopolistica di Stato, ossia l’alta borghesia, che comprende l’insieme delle frazioni economicamente, politicamente e militarmente dominanti sul proletariato e sulle masse popolari ed egemoni rispetto alla media e alla piccola borghesia privilegiata (comprendente anche l’aristocrazia operaia e dei servizi).
A seconda delle situazioni più o meno rilevanti del CMS di un determinato Stato-nazione sono strettamente collegati al capitale imperialistico internazionale ed eventualmente ne rappresentano al proprio interno, in forme mediate, gli interessi.
Sulla base economica-burocratico del dominio del CMS si sviluppa il Sistema del Capitalismo Monopolistico di Stato (SCMS). Conseguentemente la media e piccola borghesia privilegiata, ossia i diversi settori imprenditoriali non monopolistici della borghesia, compresi gli strati intermedi della burocrazia statale, l’aristocrazia operaia e dei servizi ecc. si posizionano sul piano politico, ideologico ed egemonico, in stretta connessione con il loro carattere d i loro interessi economici-sociali, all’interni del SCMS, in questo modo, in posizione subordinata al CMS, vanno a occupare questo o quell’insieme di spazi e di posizioni di potere (un ruolo importante è svolto quindi in questo quadro dai processi di impiego, programmazione, ripartizione e ridistribuzione del flusso di denaro pubblico)[15]. Tutta l’attività economica, politica, culturale e sociale è quindi subordinata al CMS.
Lo Stato interviene quindi in base a questi interessi in cui tutti gli aspetti fondamentali della vita pubblica e privata delle masse popolari. Assumono un carattere e un ruolo i cosiddetti servizi sociali pubblici (Stato Sociale), questo soprattutto dopo la prima guerra mondiale imperialiste e soprattutto la crisi del ’29.
Dopo il crack della Borsa del 1929, si potenziò l’intervento dello Stato nell’economia sia negli U.S.A. che in Europa.
Questa tendenza dell’intervento statale nella direzione dell’economia diventa permanente e sempre più massiccio; si afferma così in tutti i paesi la tendenza alla trasformazione in proprietà dello Stato di interi settori dell’industria e al dirigismo statale.
Questa tendenza al capitalismo di stato non cambia i rapporti di produzione, non rappresenta una novità rispetto al capitalismo classico, anzi né è l’estrema conseguenza. E’ un chiaro esempio della decadenza del capitalismo. Le nazionalizzazioni, i monopoli statali ecc. non sorgono, come conseguenze della prosperità economica, ma come risposta alla crisi, come mezzi per salvare dal fallimento e perpetuare i monopoli di questo o quel ramo d’industria, il controllo dello Stato nell’economia nazionale serve a impedire, attraverso la centralizzazione delle decisioni, il tracollo del sistema sotto il peso delle sue contraddizioni.
Questi servizi pubblici sociali (come ad esempio la sanità l’istruzione, le politiche sociali ed assistenziali, il finanziamento e la gestione pubblica del privato-sociale e del Terzo Settore, ecc.) oltre a essere caratterizzati in senso classista e oltre a essere soggetti ai processi ri ristrutturazione richiesti e imposti dal CMS, sono quindi interfacciati con la macchina statale dedita all’esercizio dell’egemonia e alla gestione burocratica-militare delle contradizioni di classe. Diventano un importante articolazione del SCMS che si intreccia con i diversi interessi reazionari e le diverse rappresentano politiche di tali interessi che sussistono contraddittoriamente al suo interno.
Nell’imperialismo lo Stato di “allarga” enormemente e la “società civile”[16] che nell’Ottocento era solo una dimensioni sostanzialmente parallela alla macchina burocratico-repressiva statale, diviene invece una dimensione dello stesso Stato deputata alla gestione dell’egemonia. La “società civile”, che a sua volta è soggetta ad un processo di ampliamento, si ritrova così ad operare strettamente legata alla macchina burocratico-militare, in funzione della conciliazione forzosa della lotta di classe. lo Stato moderno si sviluppa come una gigantesca macchina burocratica, egemonica e militare. Una parte anche rilevante, sotto il profilo quantitativo, della società viene in questo modo foraggiata dal proletariato e delle masse popolari. I redditi di questa parte della società possono essere fatti rientrare nelle “rendite”. Considerato che la società civile è strettamente connessa e intrecciata con svariati strati borghesi e piccolo borghesi privilegiati (compresa l’aristocrazia operaia e dei servizi) che, sotto il profilo politico e ideologico, si “posizionano al suo interno”, ne deriva che tali strati le “rendite” provenienti dalla spesa pubblica si legano inscindibilmente con altre fonti di guadagno derivanti direttamente o indirettamente dallo sfruttamento dei lavoratori.
Nel momento in cui i servizi sociali pubblici o di interesse pubblico diventano un’articolazione del SCMS vengono ad assumere una particolare importanza egemonica e quindi, nel complesso, statale. Questo significa che lo scarto tra il livello di copertura da parte di questi servizi e la richiesta effettiva che sorge sulla base delle necessità sociali, ossia fondamentalmente delle necessità delle masse popolari, rischia di alimentare una crisi egemonica più o meno rilevante. Nella crisi generale del capitalismo e in particolare nella fase che si aprì alla fine degli anni Sessanta, le risorse che le classi dominanti erano disposte a trasferire per la copertura dei servizi sociali pubblici risultano ancora minori a fronte di un bisogno crescente delle masse popolari sempre più colpite dalla crisi. Ne derivò che a partire a tale terreno si aprì la tendenza allo sviluppo sempre più profondo di una crisi egemonica di rilevante portata nel rapporto tra governanti e governati.
Il sistema della rappresentanza democratico-borghese , che nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento aveva potuto svilupparsi relativamente nei principali paesi europei, nell’epoca dell’imperialismo viene sostituito in questi stessi paesi da istituzioni e ordinamenti statali[17] di tipo burocratico-corporativo[18]. Si tratta di istituzioni al servizio del CSM, che operano sia per la gestione delle contraddizioni interborghesi relative ai vari strati privilegiati di piccola e media e borghesia, sia per conciliazione forzosa delle contraddizioni di classe. Queste istituzioni sono di carattere burocratico-reazionario e possono assume una forma fascista o liberale-costituzionale (repubbliche costituzionali successive alla seconda guerra mondiale) o di carattere intermedio o di transizione (sistema maggioritario, governo dei tecnici, presidenzialismo) ecc. Con il sistema burocratico-corporativo si accentua la comprensione egemonico-poliziesca del conflitto di classe.[19] Si apre così una prolungata caratterizzata strutturalmente da quella che si potrebbe definire una “guerra di posizione reazionaria”. In conseguenza di tutto questo lo Stato moderno può essere definito come uno Stato imperialistico burocratico corporativo. Questo processo ha assunto forme ancora più reazionarie e burocratiche nei paesi europei relativamente marginali come l’Italia e la Spagna che non hanno conosciuto una fase propriamente e classicamente liberale. In Italia è avvenuto principalmente attraverso il ruolo che lo Stato piemontese burocratico ha avuto nel processo unitario e nel perdurare del potere del Vaticano.
Il rapporto di rappresentanza tra istituti statali burocratico-corporativi, personale politico di governo, partiti di potere da un lato e strati, settori e frazioni della borghesia dall’altro, muta profondamente con il passaggio dalla fase ottocentesca del liberalismo e della democrazia borghese alla fase del dominio dell’imperialismo del Sistema del Capitalismo Monopolistico di Stato.
Nella fase ottocentesca gli istituti statali (parlamenti, monarchie costituzionali, ecc…) e con essi le classi politiche di governo e di partiti di potere, in quanto rappresentativi degli interessi di questa o quella frazione della classe dominante o di determinato equilibrio tra le diverse frazioni,[20] erano subito anche il cuore e la testa politica e strategica del sistema statale borghese. In tal modo istituti quelli parlamentari e, in modo più complesso, come quelli monarchico-costituzionali con i relativi borghesi, erano dei veri centri di mediazione tra gli interessi dei diversi strati e delle diverse frazioni della classe dominante.
Con l’affermazione dell’imperialismo e del sistema del Capitalismo Monopolistico di Stato tutto questo muta profondamente e gli istituti corporativo-burocratici che sono andati a costituirsi, i partiti di potere, il personale di governo, i governi di volta in volta in carica, ecc. vengono derubricati al ruolo di organismi di intermediazione, insomma vengono ridotti a strutture di servizio delle frazioni dominati della borghesia.
Sono adesso queste ultime che si costituiscono direttamente come cuore e testa del potere economico, politico e militare,[21] centro di potere decisionale e livello strategico esterni e quindi al di sopra dei partiti, dei governi, dei regimi e delle differenti tipologie degli istituti burocratico-corporativi.[22]
La società civile non è solo deputata all’esercizio dell’egemonia sul proletariato e sulle masse popolari in funzione degli interessi di fondo e della strategica del CMS ma, sempre in funzione di tali interessi, è anche tenuta a garantire un certo equilibrio tra i vari settori reazionati della piccola e media borghesia. Se la società civile con i suoi istituti burocratico-corporativi, i partiti di potere e di governo, i sindacati riformisti che teorizzano e praticano la collaborazione di classe, ecc. non riesce ad assolvere adeguatamente entrambi questi due compiti, allora si sviluppa la crisi egemonica e inizia l’ascesa di una nuova classe politica di governo, e un processo, più o meno pronunciato, di transizione verso un differente sistema di rappresentanza.
Si tratta di un processo che non può risultare più o meno complesso e conflittuale.[23] Non è quindi affatto detto che il passaggio di testimone nelle mani di una classe politica di governo più apertamente fascista debba avvenire a causa di una risposta capitalistica a un alto livello di conflittualità politica e di classe. Questo passaggio può avvenire anche semplicemente a causa di un livello di concorrenzialità interna tra gli strati reazionari di piccola e media borghesia che finisce per divenire ingestibile per una determinata classe politica di governo la quale, viene più o meno bruscamente ridimensionata o addirittura licenziata ad opera del CMS.
Quello che distingue l’Italia dai principali paesi europei e dal Giappone è il fatto che l’Italia è un paese imperialista “debole” e di tipo “marginale”. Per capire i motivi di questa diversità e per comprendere le rilevanti conseguenze che ne derivano è necessario partire dalla considerazione della maggiore arretratezza economica dell’Italia.
Nel gruppo dei principali paesi e in Giappone a differenza che in Italia, l’accumulazione del capitale industriale è stato il motore centrale dello sviluppo economico e del relativo superamento di produzione semi-feudale nelle campagne. Il ruolo dello Stato, in tutta una prima decisiva fase di questo processo, è consistito nell’operare per garantire la cornice giuridico-istituzionale più favorevole alla riproduzione dei rapporti capitalistici. Sulla base dell’accumulazione generata dal capitale industriale si sono sviluppati istituti finanziari strettamente collegati all’industria. Per tutta una fase prolungata la libera concorrenza tra le varie imprese industriali, non influenzata da un diretto intervento statale, ha favorito la selezione tra le imprese accelerando i processi concentrazione e centralizzazione, con conseguente eliminazione delle imprese meno produttive. In questo modo si è arrivati alla formazione di una robusta struttura economico-finanziaria fondata sulla grande e sulla media industria e quindi alla costituzione dei classici monopoli industriali e finanziari. Sulla base di questi monopoli durante la prima guerra mondiale si è appunto determinata la nascita del Capitalismo Monopolistico di Stato (CMS) tipico dei paesi imperialisti industriali e, in seguito alla crisi degli anni Trenta della seconda guerra mondiale, del sistema complessivo del Sistema Capitalismo Monopolistico di Stato (SCMS).
L’Italia e probabilmente la Spagna hanno invece seguito un percorso diverso e, pur diventando paesi imperialisti, hanno dovuto fare i conti con alcune modalità tipiche dei paesi a capitalismo dipendente e a capitalismo burocratico. La diversità tra l’Italia e la Spagna consiste essenzialmente nella differenza quantitativa e qualitativa relativa a tali modalità. La Spagna si ritrova inscritti alla propria economia e nel proprio Stato i segno del capitalismo dipendente e del capitalismo burocratico in misura significativamente più accentuata che nella stessa Italia.
L’Italia non si è quindi sottratta compiutamente ai destini dei paesi a capitalismo dipendente. Solo per il rotto della cuffia è riuscita nei primi anni del Novecento a cogliere le ultime possibilità di entrare nell’ambito delle potenze imperialiste poco prima che l’imperialismo si affermasse organicamente su scala mondiale. Dopo tale affermazione, infatti, l’avvenuta affermazione infatti l’avvenuta spartizione del mondo ha determinato ovviamente la costituzione di una insuperabile barriera di ingresso,[24] che ha condannato i paesi non imperialisti alla condizione del capitalismo dipendente e del capitalismo burocratico.
L’Italia è entrata nell’ambito delle potenze imperialiste come ultima ruota del carro, non come un paese subordinato all’imperialismo ma come un paese imperialista marginale, un paese capitalista se non dipendente di certo “semidipendete” sul piano finanziario, fortemente condizionato dalle potenze imperialiste più forti, prima la Francia all’epoca dell’Unità d’Italia, poi la Germania, quindi la Francia e la Germania simultaneamente, quindi ancora la Germania e, dopo la seconda guerra mondiale, gli USA in particolare e di nuovo le altre le altre potenze europee.
L’idea comune secondo cui la rottura dell’Unione Europea libererebbe l’Italia da questa condizione di semi-dipendenza è mistificante perché confonde la questione dei caratteri strutturali assunti dall’imperialismo nei primi anni del Novecento con la questione dell’esistenza e della Comunità Europea.
Anche se tale “comunità” dovesse completamente venir meno non muterebbe affatto i caratteri i caratteri dell’imperialismo italiano. Che lo voglia o no, ma in ultima analisi non può non volerlo, la borghesia italiana è oggettivamente semi-dipendente[25] dalle principali potenze economiche, in primo luogo dagli USA e dalla Germania.
La rottura dell’Unione Europea si tradurrebbe non un una minore dipendenza, ma all’opposto in una forma più diretta e accentuata “semi-dipendenza”[26]. L’idea che l’imperialismo italiano possa operare in direzione del superamento dei propri caratteri strutturali ritornando alla moneta nazionale, sviluppando una politica economica più protezionistica e introducendo elementi di autarchia economica, è semplicemente la copertura degli interessi di chi in nome di tutto questo vuole, da un lato legare ancora più strettamente l’economia italiana all’economia di questa o quella potenza imperialista (come per esempio la Germania[27] e dall’altro, usare il nazionalismo, il protezionismo e le manovre finanziarie (svalutazione e inflazione) per fomentare il fascismo e poter trasferire ampie porzioni di reddito dagli strati popolari ai vari strati borghesi.
Per quanto riguarda l’attuale tendenza al fascismo bisogna ricordarsi che il fascismo fu totalitario. Ma bisogna precisare che il suo totalitarismo non consisteva tanto nell’abolizione della democrazia formale e nella repressione degli oppositori (che pure non lesinava violenza), ma nel sancire ideologicamente e praticamente il nesso inestricabilmente tra popolo e Stato, fissato il quale la democrazia finiva con l’essere pletorica e gli oppositori diventavano sabotatori disfattisti. La fede nello Stato non era rivolta a un ente astratto, ma a uno Stato concreto, quello fascista, ossia allo Stato diretto dal fascismo, movimento/partito attraverso il quale il popolo si affasciava come un sol uomo per perseguire la missione di ricattare la patria e sé stesso promuovendo il progresso della produzione agricola e industriale, dotandosi delle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico e delle istituzioni utili a tal scopo. Il totalitarismo popolo-partito-Stato, era sul piano storico, precondizione per realizzare il totalitarismo del capitale, che all’epoca si poneva ancora come qualcosa di esterno alla quotidianità della comunità umana (sussunzione formale), che si era appropriato, cioè di grande parte della produzione materiale, ma doveva ancora conquistare parti rilevanti e, soprattutto, doveva avviarsi a sottomettere a sé tutta la vita sociale, modellandola e funzionalizzandola completamente alla propria riproduzione. Il fascismo, infatti, si poteva permettere persino di lanciare degli strali contro il capitalismo, opponendogli le virtù del nazional-socialismo, ovvero un programma che si contrapponeva ufficialmente al capitalismo, ma praticamente solo al potere finanziario e militare dei concorrenti capitalisti (e all’egoismo anti-nazionale di capitalisti interni) che volevano bloccare il progresso dell’Italia quale paese capitalista dotato di forza propria, come cercavano la Germania, che potenza capitalista in proprio lo era già divenuta.
Bisogna ricordarsi che il fascismo in Italia e il nazismo in Germania hanno avuto un ruolo fondamentale per sconfiggere la rivoluzione proletaria nel cuore dell’Europa, nell’interesse del capitalismo europeo e mondiale, ma rappresentarono la decisiva spinta in avanti in termini di modernizzazione dei rapporti sociali del capitalismo e di sviluppo accelerato delle forze produttive, che senza di essi Italia e Germania non sarebbero riuscite a conseguire. Su questo secondo piano, svolsero, perciò, una funzione di supplenza di centralizzazione del capitale che per ragioni specifiche di storia recente e di debolezza delle due borghesie, non era in grado di affermarsi spentamente, potenziando e tutelando allo stesso tempo gli interessi del grosso capitale,.
Alla morte ufficiale del fascismo è conseguito un processo di ulteriore sviluppo del capitalismo in tutto il mondo che ha portato a un totalitarismo …. molto più totalitario del fascismo con si era sviluppato prima della seconda guerra mondiale. Attualmente il capitale per dominare le classi e i popoli oppressi non ha avuto più bisogno nella mediazione popolo-stato-Partito, ma si è affermato in proprio, trasformandosi (sussunzione reale) in rapporto sociale di produzione che si estende a tutti gli aspetti della vita sociale e individuale, immedesimandosi con la riproduzione della vita stessa. La vita batte al ritmo del capitale, se al capitale viene la tachicardia, la vita rischia… l’infarto.
Ciò, da un lato, rende il capitale potente come non mai prima, espugnando qualsiasi spinta (reale, non il chiacchiericcio anticapitalista della gran parte dell’attuale sinistra di classe) di massa a disfarsene, ma dall’altro, lo rende sommamente a rischio: per conservare la sua presa totalitaria deve essere un grado di garantire sempre le riproduzione della vita sociale e individuale. Avendo introietto che la propria vita è diretta emanazione del ritmo con cui pulsa il capitale, la massa proletaria (e l’intera società) è disposta a bere tutti gli amari calici per aiutarlo a riprendersi dai suoi momenti di difficoltà che si tratti di crisi economica o di crisi pandemica, oppure, tra poco di crisi climatica o dell’energia o degli approvvigionamenti ecc.
Oggi questo nesso capitale-vita inizia a rivelarsi problematico. Per risollevarsi dalla sua crisi, infatti, il capitale scopre che non può più garantire per quote crescenti delle masse sfruttate e oppresse la facilità dell riproduzione della vita.
Oggi il totalitarismo capitalista (che si potrebbe definire benissimo anche nuovo fascismo o nuovo nazismo) ha superato quello del fascismo storico, poiché recupera e amplia l’aspetto di disciplinamento attorno allo Stato che il fascismo aveva realizzato. Torna in auge lo Stato quale unico ente capace di assicurare almeno la salute del proprio popolo, ossia della vita ridotta a pura sopravvivenza fisica, a condizione che il popolo si identifichi con lo Stato e militi a difesa delle sue scelte.
Si può parlare attualmente di ritorno al fascismo? Sì, poiché l’essenza del fascismo non se è mai andato, anzi è cresciuto come totalitarismo capitalista. Quel che con maggiore evidenza torna oggi del fascismo è il più rigido disciplinamento sociale e politico attorno allo Stato, e la conseguente maggior forza consensuale di questo a ricorrere, contro gli oppositori, a strumenti repressivi.
La gestione autoritaria della pandemia è propedeutica e condizione preliminare per blindare l’intera società, per creare una nuova cornice istituzionale e da unità nazionale, in nome della difesa del bene collettivo della salute. L’obiettivo reale è quello di spostare ulteriormente i rapporti di forza a favore del grande capitale nazionale ed internazionale, per difendere i profitti, criminalizzando ed impedendo qualsiasi reazione di lotte sociali che intendano opporvisi.
Un strategia che ha come scopo di rafforzare brutalmente ed ulteriormente lo strumento sui posti di lavoro, ma anche di funzionalizzare all’accumulazione capitalisti tutti gli aspetti della riproduzione sociale. Sono proprio le esplosive contraddizioni economiche, politiche e sociali del capitalismo a spingere verso il dispotismo in cui non ci sono assolutamente margini per una soluzione welfaristica, come sognano con gli occhi rivolti al passato anche tanti “antagonisti”, “rivoluzionari” e “comunisti”. La gestione della pandemia e servita proprio a creare le condizioni affinché tale gestione autoritaria passare in maniera indolore o addirittura con il consenso delle sue vittime predestinate, ma anche nel silenzio di chi si propone come “alternativo” alle relazioni sociali dominanti.
[1] Giordano Bruno, De magia, de vinculis in genere.
[2] Il 10 novembre 2011 il Sole 24 ore titolava a carattere cubitali Fate presto,
[3] il 5 luglio del 2015 si tenne in Grecia un referendum per chiedere al popolo di approvare o bocciare l’ennesimo piano di “salvataggio” imposto dalla UE impostato sulla austerity.
[4] R. Mukerjee, Storia e cultura dell’India, Milano, 1966.
[5] Questo soprannome gli fu affibbiato dal giornalista L. Gupta, in un articolo comparso su Indian Review, Madras, 1913.
[6] Sul ruolo del governo britannico nella diffusione del Teosofismo in India, cfr. M.V. Dharmamentha, L’occupazione inglese in India, in Idem, Lo Yoga e il neospiritualismo contemporaneo, cit. pp. 159-165.
[7] Dichiarazione pubblicata sulla rivista The Medium and Daybreak, London 1893, p. 23.
[8] A.A. Bailey, Il destino delle nazioni, Roma 1971, p. 135.
[9] R. Guénon, Il Teosofismo, vol. I, cit. pag. 32.
[10] Sarebbe come credere che attraverso le banche sia possibile governare l’economia capitalista.
[11] Per accrescere la produttività del lavoro dei suoi operai, la borghesia ha dovuto rendere le forze produttive sempre più collettive, cioè tali che la quantità e qualità delle ricchezze prodotte dipende sempre meno dalle capacità personali (la durata del lavoro, la sua intelligenza, la sua forza ecc.). Esse dipendono invece sempre di più dall’insieme organizzato dei lavoratori, dal collettivo nell’ambito del quale l’individuo lavora. Dalla combinazione dei vari collettivi di lavoratori, dal patrimonio scientifico e tecnico che la società impiega nella produzione. In conseguenza il lavoratore isolato può produrre solo se è inserito in un collettivo di produzione (azienda, unità produttiva) ma nello stesso tempo crescono le condizioni perché crescano la produttività del lavoro.
[12] Nel 1999 negli USA è stato abolito il Gloss Steagal Act introdotto da Roosevelt nel 1933 proprio perché, oltre che separare le attività delle banche di affari da quelle commerciali, vietava a queste ultime l’emissione dei titoli di debito garantito dai depositi dei risparmiatori limitando così la produzione incontrollata di capitale fittizio.
[13] Oggi in tutti i paesi imperialisti, i beni e i servizi sono prodotti quasi tutti come merci (l’economia di autosufficienza, l’economia solidale ecc. sono fenomeni del tutto marginali) e in larga parte sono prodotti da aziende capitaliste (quantitativamente la produzione di merci fatta da lavoratori autonomi copre una modesta parte benché non trascurabile dell’intera attività produttiva, ma per di più i lavoratori autonomi sono largamente dipendenti autonomi dall’economia capitalista e dalle pubbliche autorità per gli strumenti, le materie prime, la tecnologia, lo smercio e le regolamentazione).
Le aziende capitaliste sono a loro volta legate per loro natura al capitale finanziario: indirettamente tramite le imposte, le tasse, i contributi, le tariffe e le regole dettate dalle pubbliche autorità che devono far fronte alla gestione del Debito Pubblico (il “servizio del Debito”) e delle finanze pubbliche (quindi dipendono del capitale finanziario); direttamente tramite il mercato delle proprie azioni e obbligazioni e il sostegno del loro corso, tramite il credito bancario e i relativi interessi, assicurazioni e garanzie, tramite il reperimento di nuovi capitali in borsa, tramite la partecipazione delle aziende e dei loro proprietari al capitalista finanziario (il settore finanziario delle aziende), tramite il cambio della moneta, tramite le commesse e gli appalti e tramite altre relazioni del genere di quelle indicate. Inoltre l’investimento finanziario fa concorrenza all’investimento produttivo e lo condiziona da mille lati perché entrambi fanno parte alla stessa classe: la borghesia. Quindi una volta che il capitale finanziario ha conquistato il predominio, l’economia reale non è in grado di opporsi efficacemente alle sue pretese.
[14] Qualora si scelga di distinguere, al fine di una maggiore precisione politico-teorica, il proletariato (ossia essenzialmente la classe produttiva del plus-prodotto sociale) dalle masse popolari, queste ultime, ameno in un paese imperialista come l’Italia, sono composte da svariati settori di piccola borghesia impoverita (con condizioni di vita a grandi linee assimilabili a quelle del proletariato) e intermedia.
[15] In questo senso nell’imperialismo per gli strati come l’aristocrazia operaia e dei servizi, si collocano all’interno del SCMS dove, a parte i settori dominanti, lottano per migliorare le proprie posizioni cercando di utilizzare le masse popolari. Restano esclusi da tale sistema il proletariato e le masse popolari, anche se gli strati piccolo/intermedi borghesi spesso aspirano a farne parti.
[16] La “società civile” nell’imperialismo è costituita da tutti quegli organismo e da quelle istituzioni (sistemi di rappresentanza, partiti, sindacati, apparato ecclesiastico, apparati culturali, compreso la scuola e l’università, mass media, organismi sportivi, terzo settore e ONG ecc.) che a diversi livelli, interfacciandosi con vari strati borghesi intermedi, hanno il compito di gestire, direttamente o meno, la società e quindi il proletariato e le masse popolari in funzione della costruzione del consenso necessario al dominio economico, politico e militare del capitale finanziario di Stato. La società civile esercita quindi il dominio egemonico poggiando sui centri economici dominanti e sulla macchina burocratico-militare. Il suo compito principale è quello di garantire il massimo consenso possibile al capitale finanziario e ai suoi apparati repressivi. La società civile, soggetta al logoramento ciclico dei processi di costruzione del consenso, deve provvedere di volta in volta a “rinnovarsi” e quindi a contribuire a rinnovare la classe intellettuale e di governo al fine di ripristinare il consenso su nuove basi. Ciò avviene o almeno viene tentato attraverso rivoluzioni passive . il fascismo, la socialdemocrazia, il liberalismo ecc. emergono di volta in volta come esito dell’affermazione di una determinata rivoluzionaria passiva. Le rivoluzioni passive cercano di chiudere fasi di profonda crisi economica e di acute contraddizioni politiche, sociali, e ideologiche a favore degli interessi e delle finalità strategiche del capitale finanziario. In questo modo imponendo tali rivoluzioni passive il SCMS cerca di sopravvivere, di ristrutturarsi e persino rinnovarsi, pur rimanendo in generale nella fase generale del capitalismo morente e pur preparando direttamente o in prospettiva le condizioni per situazioni critiche ancora profonde.
[17] Queste istituzioni vengono dal CMS mantenute in vita o revisionate e trasformate in rapporto:
- Alla capacità di rappresentanza degli interessi delle necessità e delle direttive delle diverse frazioni e componenti reazionarie dominanti.
- Alla idoneità all’esercizio di egemonia sulle masse proletarie e popolari, al fine dell’ottenimento di un sufficiente consenso.
Non si intende quindi con questo concetto necessariamente fare riferimento ai sistemi “democratici borghesi formali” come quelli parlamentari, ma comprendere eventualmente anche le istituzioni statali si transizione al fascismo, quelle apertamente fasciste ecc.
[18] Con questo termine non si fa riferimento alle grossolane teorizzazioni fatte dai fascisti italiani nei primi anni Trenta, bensì all’uso che Gramsci fece del processo di esaurimento della propensione egemonica borghese e alla sua sostituzione con un sistema di compressione egemonica e poliziesca della conflittualità politica e sociale. Si tratta di un sistema burocratico pienamente affermatosi con la trasformazione e l’esaurimento delle forme classiche della democrazia borghese dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento. Un sistema che paradossalmente ripresenta degli aspetti paragonabili a quelli delle monarchie burocratiche (e delle relative forme di partito, di vita politica nazionale, di classe intellettuale di potere, ecc.) di paesi come l’Italia, che non hanno mai potuto vedere una qualche fase prolungata di tipo liberale classico. Il concetto di corporativizzazione-burocratica nell’uso che ne fa Gramsci pare prestarsi bene a caratterizzare questo tipo di “unificazione” artificiale e “forzosa”, che ha partire dalla prima metà degli anni Venti ha dato vita da un lato ai sistemi dell’ “americanismo” (Gramsci) e dall’altro all’ascesa del fascismo e del nazismo. Dopo la seconda guerra mondiale abbiamo avuto l’egemonia del liberalismo reazionario, per tutta una fase affiancato dal revisionismo moderno con la forma ormai in crisi da decenni delle repubbliche parlamentari costituzionali.
[19] Che appunto si presenta e si modifica tramite le rivoluzioni-passive al fine di tentare di rimandare nel tempo il crollo del Capitalismo Monopolistico di Stato.
[20] Un caso rilevante è quello relativo alla questione del “bonapartismo”. Con questa categoria si fa riferimento , partendo dalla Francia di Napoleone III, a quelle situazioni tipicamente ottocentesche in cui il partito di governo giungeva a cristallizzarsi in una sorta di regime formalmente al di sopra delle parti tra le diverse frazioni e classi sociali in lotta. Veniva a realizzarsi così un assetto che “equilibrava” parzialmente questi diversi interessi in reciproca contraddizione impedendo che il conflitto tra le classi dominanti e quelle proletarie potesse svilupparsi sino a dar vita a una crisi politica e sociale. Nel corso degli anni Venti del XX secolo, la socialdemocrazia di sinistra insieme al trotskismo, riprendendo le analisi storiche di Marx delle lotte di classe in Francia nonostante risultassero largamente superate dalle profonde motivazioni intervenute con lo sviluppo dell’imperialismo, applicò lo schema del bonapartismo all’analisi della crisi della democrazia borghese allora dilagante e alla relativa all’ascesa del fascismo con conseguenze politiche potenzialmente, di volta in volta oscillanti tra il codismo verso la socialdemocrazia e il rosso-brunismo (che lavora per transitare le masse dall’estrema-sinistra al “nazional-socialismo”), disastrose per il proletariato e per le masse popolari.
[21] Si capisce quindi in paesi come in Italia, certe tendenze degli anni Settanta potessero cadere nel riformismo nel momento in cui confondevano gli istituti dello Stato liberale ottocentesco con quelli dello Stato imperialista burocratico corporativo.
[22] Tali organismi, oltra a sottostare ai centri del reale potere economico-politico-militare, devono rispondere a esso della loro capacità digestione egemonica della molteplicità di interessi dei vari strati borghesi intermedi (i cosiddetti ceti medi) in reciproca competizione e della loro capacità di dominio egemonico sul proletariato e le masse popolari. Nel caso in cui si rivelino poco efficienti ed efficaci, vengono sostituiti con una nuova classe politico di governo con metodi più o meno burocratici e polizieschi (come, per esempio, nel caso dell’ascesa della classe politica rappresentata fascismo). È del tutto errata quindi la visione che spiega l’ascesa del fascismo solo sulla base dell’ascesa della lotta di classe. Viceversa, il fascismo può emergere anche solo perché una determinata classe di governo non riesce più a contendere e mediare conflittualità tra i vari settori della piccola e media borghesia. La comune e la perdurante confusione in tanti raggruppamenti della sinistra e dell’estrema sinistra tra il capitalismo ottocentesco e il sistema del Capitalismo Monopolistico di Stato porta quindi all’impossibilità di impostare in modo adeguato, in funzione degli interessi del proletariato e delle masse popolari, gran parte dei principali problemi politici.
[23] La classe politica di governo non sarebbe tale, ossia non potrebbe assolvere ai suoi compiti servili se risultasse eccessivamente mobile e flessibile, al contrario deve giocare di volta in volta le sue carte. Una certa tendenza alla cristallizzazione è così insita nel carattere stesso di un sistema di rappresentanza e di una determinata classe di governo. La conseguenza è che molti strati reazionari di piccola e media borghesia inseriti variamente nell’involucro del SCMS tendono a loro volta a legami, per la rappresentazione e la difesa dei propri interessi particolaristici, a una certa classe politica di governo o delle componenti di esse. Si creano così schieramenti politici e sociali che a volte vengono confusamente identificati con il concetto di blocco dominante.
[24] Che solo come la Russia e la Cina dopo l’avvento dei revisionismo in questi due paesi hanno potuto oltrepassare.
[25] Rientra nella natura di un imperialismo semi-dipendente il fatto di far sempre pagare i costi supplementari di tale dipendenza alle masse popolari del proprio paese.
[26] Da questo punto di vista, paradossalmente, il più sfegatati sovranisti e ‘nazionalisti’ sono anche le forze politiche “antinazionali”. Nell’acuirsi della crisi generale del capitalismo che accentua il carattere semi-dipendenza e dei relativi interessi strategici del Capitalismo Monopolistico di Stato (CMS), tali forze si candidino con sempre maggior probabilità con sempre maggior probabilità di successo a diventare compiutamente una nuova classe politica di governo a danno degli interessi della maggioranza della popolazione italiana.
[27] Basta a tale una semplice considerazione dei rapporti reali per vedere come moltissime imprese del nord e del nordest, peraltro oggi vicin0 alla posizioni politiche della Lega, operino in stretto legame con le imprese tedesche e mirino a rafforzare un tale legame che pure le vede sostanzialmente dipendenti. Rientra in questo caso l’enfasi con cui si sta lavorando all’Euregio (accordo transfrontaliero tra lo Stato federato austriaco del Tirolo e le due province autonome italiane del Trentino e dell’Alto Adige) come progetto ponte con la Germania.
L’Idiosincrasia Idiota Fascista e gli IperFascisti Idioti
Milano, dalle parti di corso Como, ora di colazione, a ridosso del giorno delle elezioni, in un dehors. Due colleghi in pausa pranzo. Appartengono entrambi ad una delle classiche società di consulenza – quelle coll’acronimo che fa tanto stelle & strisce e McDonald – le quali sono tanto “consulenti” da non aver avvertito nessuno dell’appropinquarsi della débâcle Enron o del crac della Lehmann Brothers: discutono dell’approssimarsi delle votazioni ed uno manifesta apertamente una paura nel caso che possa vincere la Destra che viene ovviamente connotata come fascista. Ovviamente ambedue ignorano (ma all’università cosa avranno imparato oltre alle idiozie peculiari alle materie di esame?) che il Fascismo è anti-atlantico per antonomasi altrimenti non è Fascismo. Non per nulla il Fascismo cavalcò il lemma plutocrazia in funzione anti-anglosassocentrismo: se non fosse così non sarebbe stato e non potrebbe esserci nessuna guisa fascista di sorta. Tralasciamo le fasi della genesi del Fascismo quando esso si abbeverò a piene mani nell’ausilio dei Loggionati menghini e di quelli dalle parti del Duca di York nonché Oltreocenao per spiccare il volo: fu un trampolino momentaneo che poco dopo il Fascismo come Movimento abiurò ed abbandonò: nella sua storia centrale il Fascismo era graniticamente opposto al Secolo Americano in tutto e per tutto. Ora la Destra in Italia oggi come ieri è strettamente filo-atlantista dunque non può essere – per partito preso – fascista. Del resto furono proprio gli anglosassoni – Office of Strategic Services e MI6 – che nel primissimo Dopoguerra cooptarono niente di meno che Guido Leto per anni a capo della polizia politica fascista, l’OVRA, Federico Umberto D’Amato anche lui in quell’ambiente per finire a JunoValerio Borghese, caporione della X Mas ultra-fascistissima, per dirne soltanto di alcuni, i casi più clamorosi, ai loro servigi: dove starebbe allora la pregiudiziale tanto sbandierata da una manica di artistucoli, di Arlecchini pronti a servire qualsiasi bandiera, di saltimbanchi, di clown della cosiddetta sezione Cultura & Spettacolo sbandierata contro un potenziale presunto fascista se i primi a servirsi degli avatar fascisti sono stati proprio gli atlantisti, per tacere addirittura sulle Rat Lines, l’Operazione Odessa, sempre ad opera degli anglosassocentrici che fecero esfiltrare dozzine e dozzine di papaveri e teste d’uovo naziste nelle calde braccia del pingue Occidente?
Capiamo ora il perché di un tempo che fu che non riservava sepoltura agli artisti.
Ma non finsice qua: l’intera strategia della tensione, gli atti ministeriali, le commissioni istituite per l’occasione, i documenti parlamentari, le ricerche di svariati storici e giornalisti investigativi hanno provato fuori da ogni ragionevole dubbio che la Destra di allora neo-fascista (ovviamente una Destra che aveva abiurato e delegittimato la propria autentica fede ideologica tanto che si arrivò all’assurdità che milizie fasciste si resero disponibili ad addestrare corpi scelti israeliani) fu maleallevata, pasturata, prezzolata ed ideata proprio in seno alle reti StayBehind, Gladio, Ossi: leggi NATO. Sulla scorta di queste notizie e di questi fatti stranoti mai e poi mai che la canea artistica e quella soggiacente ad essa – la quasi totalità della società – abbia detto qualcosa in proposito: del resto Arlecchino cambia la giubba solertemente pronto sempre a servire un suo nuovo Padrone, altro che Fascismo!