L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO CAPITALISTA: DAL TAYLORISMO E IL MALESSERE DEI LAVORATORI

   Ritengo che le teorie sull’organizzazione del lavoro non siano state principalmente frutto di intuizioni più o meno geniali; esse, al contrario, sono state, e sono il frutto di concrete esigenze storiche del capitalismo, “interpretate” da teorici e studiosi vicini al capitale. Così, ad esempio, l’organizzazione scientifica  del lavoro – diffusasi massicciamente negli Stati Unisti d’America all’inizio del ‘900 – fu un ottimo strumento per la immissione (e per lo sfruttamento) nella incipiente produzione di massa voluta dalle grandi concentrazioni economiche dell’epoca, di una manodopera poco qualificata e presente in abbondanza sul mercato del lavoro. Più tardi le relazioni umane costituiva un correttivo sovrastrutturale e necessario di una organizzazione che le reazioni operaie mostrarono essere eccessivamente autoritaria e atomizzante. Infine, il modello delle risorse umane metterà l’accento sulla necessità del capitale più avanzato di evitare il sottoutilizzo delle accresciute della manodopera, in una situazione che richiede forti capacità innovative.

FORDIMO E TOJOTISMO

   Durante la fase originaria dell’accumulazione del capitale, la gran parte dei vantaggi dei capitalisti era derivata dall’abbondanza di risorse naturali e di forza lavoro a costi bassissimi. Dalla fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo, la avvenuta spartizione delle risorse globali tra le potenze imperialiste, ha posto la parola fine all’accesso a costo zero, o quasi, delle materie prime necessarie alla produzione. Le imprese si sono viste costrette di conseguenza, a compensare questo relativo incremento di costo delle risorse naturali, ora poste sotto controllo da altre imprese intenzionate a trarne adeguati profitti, con un’incrementata spremitura della forza lavoro, in altre parole con un aumento della quantità di lavoro erogato da ogni lavoratore e la riduzione della sua quantità retribuita.

   La modalità con la quale vi è stata nel secolo scorso un elemento di continuità che ha favorito la riduzione della quantità di lavoro retribuita al lavoratore è stata l’incremento ininterrotto dell’intensità di lavoro in modo ossessivo, tanto a seguito delle innovazioni tecniche che di quelle organizzative, con il definitivo superamento di una vecchia pratica ottocentesca: il lavoro “non misurato” e non “cronometrato”.

    Dalla fine del XIX secolo, infatti, sono stati introdotti nelle aziende sempre nuovi modelli di organizzazione del lavoro finalizzati a parcellizzare ogni operazione produttiva, a misurarne in modo preciso i tempi di esecuzione. I più efficaci di questi nuovi modelli di organizzazione del lavoro sono stati (e lo sono tuttora) il taylorismo, il fordismo e il toyotismo.

L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DEL LAVORO

  A cavallo fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, il Modo di Produzione Capitalistico entra nella fase imperialista contrassegnato da cinque caratteri distintivi:

1) La concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;

2) La fusione del capitale bancario con il capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo del capitale finanziario;

3) La grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;

4) Il sorgere di associazioni monopoliste internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo;

5) La compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.

   Negli Stati Uniti in questo periodo le potenti concentrazioni monopolistiche attraversano un periodo di intenso sviluppo; un mercato del lavoro e del prodotto costituivano favorevoli elementi motori di questo sviluppo. E’ in questa fase che nasce l’organizzazione scientifica del lavoro (chiamata brevemente dai tecnici OSL[1]). Nei primi anni di vita essa incontrerà forti ostacoli e avrà uno sviluppo relativamente ridotto.  I sindacati americani, colpiti dal taylorismo, ebbero delle reazioni dure.  La rivoluzione di ottobre e l’avanzata della rivoluzione proletaria in Europa, spinse le classi dominanti USA a una feroce repressione contro il movimento operaio.    

   Gli stessi sindacati dopo la prima guerra mondiale imperialista furono duramente colpiti dalla repressione che comportò, alla fine, il prevalere al loro interno di una sostanziale accettazione della nuova organizzazione scientifica.

   Volendo individuare un momento nel tempo che segni questa svolta, dobbiamo far riferimento l’inizio degli anni ’20 del secolo scorso.

   E’ del 1921 la pubblicazione negli USA della relazione di un’indagine svolta dalla FAES (Federated American Engineering Societies – Società americana d’indagine federale) con il titolo di Sprechi nell’industria; in essa si riconosce che la standardizzazione del processo produttivo lasciava ancora troppo spazio all’autonomia degli operai nello svolgimento del loro lavoro. E’ un implicito riconoscimento che l’OSL non aveva ancora avuto quella massiccia diffusione che poi invece avrà proprio dall’inizio degli anni ’20. Ma quali erano i punti nodali del taylorismo che si andava affermando?

   Sinteticamente si possono riassumere:

1) Scientificità dei metodi di lavoro: sostituzione al precedente empirismo di un approccio sistematico che servisse a determinare i metodi di lavoro e permettesse la selezione e l’addestramento scientifico dei lavoratori.

2) Scientificità dei tempi: un attento studio dei tempi di esecuzione doveva servire a determinare per ogni lavoratore dei tempi standard.

3) Parcellizzazione: lo studio dei metodi e dei tempi non era condotto in conformità a una considerazione globale del lavoro da svolgere, ma frazionando ciascun lavoro in una serie di compiti, e questi di una serie di operazioni elementari delle quali poi si determinano metodi e tempi.

4) Separazione tra attività di programmazione e attività di esecuzione: la programmazione, basata sulla standardizzazione dei tempi, dei metodi e degli strumenti di produzione, doveva essere compito esclusivo della direzione, ai lavoratori doveva essere riservata soltanto l’attività di esecuzione.

5) Retribuzione a cottimo: la retribuzione doveva essere proporzionale al rendimento. A differenza però dal sistema del cottimo puro, questa proporzionalità andava applicata col sistema standard; attraverso lo studio dei tempi era individuato un tempo standard per un determinato lavoro e quindi delle tariffe basate su questi tempi.

6) Controllo direzionale: addestramento dei capi oltre che degli operai perché possano applicare nel controllo i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro.

   Questi punti che Taylor elabora teoricamente e sperimenta in produzioni “Tradizionali” (arsenali, siderurgia, ecc), Henry Ford nelle sue officine li applica, integrandoli, alla produzione di massa della vettura modello T.
 

I PRINCIPI FONDAMENTALI

   Il Taylorismo ha spogliato il lavoratore, a quel tempo dotato ancora di considerevoli conoscenze tecniche (inizi del XX secolo), e grazie a queste aveva la possibilità di controllare il proprio lavoro, attribuendo così alla direzione il ruolo di pianificazione e ottimizzazione del processo produttivo.   

   Nell’organizzazione scientifica del lavoro determinata dal taylorismo, l’operaio è diventato un mero braccio esecutivo, mentre la direzione è la mente dell’intero processo produttivo. Alla direzione spetta il ruolo di preconcepire il processo di produzione, di attribuire a ogni lavoratore la mansione da svolgere e di decidere i modi e i tempi in cui svolgerla, mentre ai lavoratori spetta solamente l’obbligo di rispettare gli ordini ricevuti. Nell’organizzazione scientifica del lavoro, pertanto, tutto è in mano alla direzione: che scompone sistematicamente tutte le fasi del ciclo produttivo in micro – operazioni parcellizzate, ne implementano i tempi, colloca ogni operaio nella sua postazione, e stabilisce i movimenti e i limiti temporali ai quali deve attenersi in ogni sua azione. Il principio che guida tale processo di scomposizione e riorganizzazione dei precedenti procedimenti lavorativi è l’one best way. Secondo Taylor esistono molte strade per eseguire un’operazione, ma solo una permette di realizzarla nel miglior modo e cioè nel minor tempo possibile. L’one best way individua quei modi di produzione di ciascun’operazione che consente di erogare la massima quantità di lavoro possibile nel minimo tempo umanamente sostenibile. Al fine di sostenere l’one best way, i tempi di esecuzione di ciascun’operazione devono essere cronometrati in modi infinitesimali e implementati in modo tale da prevedere solo i momenti indispensabili a raggiungere la massima velocità produttiva. Quando il processo produttivo è riorganizzato secondo l’one best way, gli sprechi sono minimizzati. Per conseguenza, quando una fabbrica è riorganizzata in modo “scientifico”, la quantità di lavoro erogata da ogni operaio è aumentata drasticamente. L’organizzazione scientifica del lavoro, infatti, intensifica l’erogazione di lavoro erogato non retribuito estratto da ogni lavoratore. Consentendo l’estrazione di un maggiore plusvalore.

   Tutto questo nasce dal fatto, che per quanto il capitalista cerca sempre di prolungare la giornata lavorativa allo scopo di drenare più plusvalore, non può in definitiva prolungarla illimitatamente. Oltre alla resistenza operaia esiste un limite oggettivo. E poiché la resistenza operaia,[2] riesce a ridurre la giornata lavorativa, il capitalista per estrarre maggiore plusvalore muta la proporzione tra le due parti costitutive della giornata lavorativa: riducendo il tempo di lavoro necessario e parallelamente prolunga quello del plusvalore. Ora mentre per la produzione di plusvalore assoluto si tratta soltanto della durata della giornata lavorativa: la produzione di plusvalore relativo rivoluziona completamente da cima a fondo i processi tecnici del lavoro. Significa aumento della produttività e introduzione di nuovo macchinario. Ma l’introduzione di nuovo macchinario sotto il capitalismo non può che avere effetti dannosi per i lavoratori (aumento dei ritmi, disoccupazione ecc.).

   Nella fabbrica organizzata secondo l’organizzazione scientifica, ai lavoratori, sarà richiesta soprattutto l’obbedienza agli ordini impartiti dalla direzione.

   Al fine di assicurarsi l’obbedienza dei lavoratori, la fabbrica taylorista è intervenuta in due modi:

1)   Aumentando l’apparato repressivo della fabbrica, in altre parole incrementando il numero dei lavoratori incaricati di controllare altri lavoratori.

2) Affinando le procedure di selezione del personale in modo di assumere solo i lavoratori che promettevano di essere più “diligenti”.

   Taylor ha portato il numero dei lavoratori incaricato di sorvegliare i colleghi da 1/8 a 1/3 del totale dei dipendenti della fabbrica, e ha elaborato direttive per assumere come operai solo gli individui meno “aperti di mente”, più “obbedienti” e “tonti”. Nella fabbrica tayloristica i lavoratori più apprezzati non sono quelli che hanno maggiore esperienza o più elevate competenze, ma i lavoratori la cui forma mentis somiglia più a quella “bovina”.
 

FINALITA’ POLITICHE E DI CLASSE

   Senza dubbio il taylorismo e le sue applicazioni determinarono uno sviluppo del sistema capitalistico che a suo modo e con tutti i suoi costi, si risolse in un “progresso” dello stesso capitalismo (come del resto fu un “progresso”, con tutti i suoi enormi costi, la prima rivoluzione industriale). Ma il punto è che la diffusione teorica e pratica del taylorismo fu il risultato storico, spesso molto violento, tra le esigenze del capitalismo (che riusciva a esprimere una propria capacità di essere classe dirigente) e una classe operaia che non riusciva a esprimere un’opposizione.[3]

   Alcuni documenti dell’epoca dimostrano chiaramente la correttezza di questa interpretazione. Nel 1915 negli Stati Uniti, per incarico dell’U.S. Commission on Industrial Relations (Commissione degli Stati Uniti per le relazioni industriali), fu condotta un’indagine in 35 fabbriche organizzate secondo i criteri dello scientific management (direzione scientifica). Quest’indagine arrivò alle conclusioni che l’organizzazione scientifica del lavoro tendeva a svuotare e a parcellizzare l’abilità professionale del lavoratore, a scoraggiare la solidarietà verso il gruppo, e a minare le basi dell’unionismo sindacale, rendendo così più debole il lavoratore e più potente il padrone; rilevando tra l’altro che i lavoratori, sia quelli sindacalmente organizzati sia quelli non organizzati, non trovano nell’organizzazione scientifica alcuna protezione adeguata per i loro livelli di vita, nessuno strumento per la loro formazione.

   E se ne potrebbero citare tanti altri esempi sulla non neutralità dell’organizzazione scientifica del lavoro.
 

FORDISMO

   Il fordismo è ricordato per aver ridotto ancor più i tempi necessari allo svolgimento delle mansioni operaie e il potere del sindacato. La principale innovazione del fordismo è stata l’introduzione della catena di montaggio. Ford descrive la catena di montaggio come un “fiume” di cui le diverse parti assemblate confluiscono gli “affluenti” che fanno uscire “alla foce” vetture Ford “modello T”. Secondo Ford, il pregio della catena di montaggio è la sua capacità di ridurre l’operaio ad appendice della macchina: alla catena di montaggio, infatti, il lavoratore dipende in ogni istante dai ritmi della macchina, ed è costretto, giorno dopo giorno, nella stessa postazione, a svolgere azioni banali, ripetitive, parcellizzate e veloci. La catena di montaggio, pertanto è il nuovo strumento con il quale la direzione controlla ogni operaio e la quantità di lavoro da quella erogata. Ma se la catena di montaggio consente di aumentare la quantità di lavoro erogato non retribuito, non garantisce però che i lavoratori accettino di utilizzarla. Nel 1913, infatti, le fabbriche fordiste avevano un grosso problema: che i lavoratori abbandonavano il proprio posto di lavoro nel momento in cui si rendevano conto che la mole di lavoro era superiore rispetto a quella delle altre fabbriche. Le fabbriche fordiste avevano attrezzature e tecnologie avanzatissime, ma un tasso di avvicendamento della forza lavoro pari al 380% e quindi un numero di lavoratori insufficiente a farle funzionare in modo efficiente. Per assicurarsi una forza di lavoro stabile, nel 1913 Ford decise di introdurre il five dollars day. Questo termine si riferisce alla decisione di Ford di alzare i salari giornalieri a 5 dollari in un momento storico nel quale i salari settimanali, si aggiravano attorno agli 11 dollari, così per assicurarsi un turnover nelle fabbriche e dare al processo lavorativo una maggiore regolarità. Questa decisione di alzare i salari a 5 dollari al giorno, è stato un provvedimento che consentì a ridurre il costo del lavoro. Infatti, avendo una forza lavoro stabile (che non aveva convenienza ad andarsene o a ribellarsi) si poteva mettere a pieno a frutto l’innovazione tecnica della catena di montaggio, aumentandone la velocità a suo piacimento. Nello stesso tempo si riducevano i costi di lavoro, poiché aiutava a creare un’organizzazione del lavoro talmente efficiente, sul piano della produttività, da produrre in solo giorno, dodici anni dopo la sua introduzione, la stessa quantità di automobili che nel 1913 si produceva nel corso di un anno intero.[4] A fronte di un tale spettacolare aumento della produttività, Ford aveva “solo” temporaneamente raddoppiato i salari, facendoli poi rientrare progressivamente nella media nazionale non appena l’aumento della produttività si era assestato come definitivo, tagliando in questo modo stabilmente i costi di produzione.

    Un altro motivo dell’incentivazione economica, è stava nel fatto che con un monte salari crescente, si creava una domanda aggiuntiva necessaria per contribuire ad assorbire l’incipiente produzione di massa. Diceva a proposito Ford: “Io penso che è meglio vendere un gran numero di articoli con piccolo guadagno, che venderne pochi con grande guadagno. Ciò agevola l’acquisto ad un gran numero di persone”.

     Se, infatti, per Taylor i salari più alti sono essenzialmente un’incentivazione (cottimo) a eseguire il lavoro secondo gli standard scientificamente determinati, per Ford, nella sua più ampia visione di capitalista, l’accrescimento del monte salari è considerato un mezzo per ampliare con la domanda il mercato dei prodotti industriali. Ma non è solo questo il salto teorico e pratico compiuto da Ford nei confronti dell’impostazione di Taylor. Per Ford “le norme standard per il massimo rendimento non bisognava insegnarle al singolo operaio, come raccomandava Taylor, bensì imporle collettivamente alla maestranza”.[5]
 

TOYOTISMO

   La fabbrica fordista entrò in crisi sostanzialmente a causa dell’estrema rigidità, sia rispetto alle fluttuazioni del mercato del lavoro sia alle lotte operaie (in particolare degli scioperi definiti “selvaggi” che sfuggivano al controllo sindacale). Nasceva da parte dei capitalisti l’esigenza di modificare l’organizzazione taylorista e del modo di lavorare in generale, per rendere inefficaci gli “scioperi fuori linea”, per spezzare quell’embrionale controllo operaio sui ritmi e sul lavoro che caratterizzava i rapporti di classe nelle fabbriche negli anni ’70 del XX secolo.

   Lo stesso Marx, faceva notare come: “In Inghilterra gli scioperi hanno regolarmente dato luogo all’applicazione di qualche macchina. Le macchine erano, si può dirlo, l’arma che i capitalisti impiegavano per abbattere la ribellione del lavoro qualificato. La ‘Self acting mule’, la più grande invenzione dell’industria moderna mise fuori combattimento i filatori rivoltosi. Anche se le coalizioni e gli scioperi non avessero altro effetto che di far reagire contro di essi gli sforzi del genio meccanico, eserciterebbero sempre un’immensa influenza sullo sviluppo dell’industria”.[6]

   L’automazione agisce sempre di più come potenza del capitale per subordinare l’operaio, come mezzo per eludere ogni forma di autonomia operaia. Essa contribuisce ad aumentare il tasso di sfruttamento degli operai impiegati, diminuendo la massa complessiva di plusvalore che nelle condizioni tecniche rinnovate è possibile produrre. Nell’uso capitalistico del macchinario esiste quindi una contraddizione immanente, poiché sulla base di esso è possibile spremere maggior plusvalore da ciascun operaio solo diminuendo il numero complessivo degli operai e quindi la massa complessiva del plusvalore. Il Capitale riesce a superare questa contraddizione e cioè a far produrre al minor numero di operai la stessa o una maggiore massa di plusvalore creata in precedenza da un maggior numero di operai, da una parte intensificando il lavoro e i ritmi di sfruttamento degli operai rimanenti e dall’altra prolungando la giornata lavorativa e dall’altra ancora estendendo la scala della produzione, cosicché il numero degli operai impiegati dallo stesso capitale tende a crescere in assoluto sebbene diminuisca relativamente all’entità che essi muovono.

   Queste sono le premesse dell’introduzione del toyotismo. L’intensificazione dei ritmi lavorativi introdotta da Taylor e Ford è stata elaborata in Giappone dal toyotismo. Il principio saliente del toyotismo è l’azzeramento delle scorte. In senso stretto il termine “scorte” si riferisce alle sole scorte del magazzino, che sono eliminate dalla trasformando la produzione di massa di stile fordista, in una produzione “snella”, regolata sulla base della domanda invece che dell’offerta. Ma il toyotismo non si limita ad annullare le scorte di magazzino, spostando il principio regolatore della produzione da “monte” a “valle”, dalla fabbrica al cliente, e da produrre solo ciò che mercato richiede. Si propone anche di ridurre gli sprechi di tempo e l’eccedenza di manodopera, così da intensificare al massimo la prestazione lavorativa e da ridurre al massimo il lavoro retribuito. Riducendo le scorte di magazzino e tutti gli altri “sprechi di tempo”, il toyotismo è riuscito a dimezzare i tempi di produzione, giungendo a impiegare metà spazio, metà scorte, metà investimenti nelle attrezzature, e metà lavoratori rispetto alla fabbrica fordista. Introducendo, poi, il “sindacato d’impresa”[7] e il principio e la pratica dell’“auto-attivazione”, il toyotismo è riuscito parimenti a “dimezzare” anche la capacità di opposizione dei lavoratori.

   L’auto-attivazione nasce come un apparente mezzo di concessione di autonomia e responsabilità all’operaio, ma si riduce, nei fatti, al raffinamento delle vecchie metodiche di controllo introdotte da Taylor. Queste, consistevano nella triplicazione dell’apparato di controllo aziendale, portando il numero degli impiegati incaricati di controllare i lavoratori da 1/8 a 1/3 del totale della manodopera. Ford aveva usato la stessa catena di montaggio come strumento costrittivo e disciplinante, poiché il fatto che l’operaio fosse vincolato alla macchina implicava che fosse disciplinato a seguirne i ritmi, Taiichi Ohno[8]  da parte sua ha affiancato al controllo disciplinare tecnico e meccanico taylorista-fordista l’auto-attivazione.  Nel sistema Toyotista il salario pro capite non è fisso: solo 1/3 della busta paga è assicurata mensilmente secondo contratto. Il resto dipende dalla produttività, dai tassi di assenteismo e dalla “lealtà” dei lavoratori agli interessi e obiettivi aziendali. Il salario, in questo modo, è legato molto strettamente alla quantità di lavoro giornalmente erogata operaio e dalla sua unità produttiva. In conseguenza di ciò, proprio perché la busta paga è individuale e insieme “di squadra”, ed è proporzionale al lavoro, alla “fedeltà aziendale” e ai tassi di assenteismo di ogni lavoratore e dalla sua unità produttiva, per avere una busta paga intera, i lavoratori sono costretti ad attivarsi al massimo grado, perché ogni trasgressione, rallentamento della produzione, o assenza dovuta a malattia di ognuno di essi va a compromettere la busta paga dell’intera unità. Nella fabbrica toyotista, pertanto la collaborazione fra operai lascia il posto a un rapporto di controllo e coercizione reciproca tra gli operai stessi. L’auto-attivazione diventa il non il simbolo di una maggiore autonomia dei lavoratori, ma uno strumento d’imposizione di produttività economica e obbedienza politica che basa la propria efficacia sullo stimolo alla coercizione e al controllo reciproco dei lavoratori su se stessi.

   Tale ambiente di lavoro oppressivo e coercitivo è molto vantaggioso per la direzione toyotista. L’organizzazione del lavoro toyotista, infatti, ha consentito alle grandi imprese nipponiche (e non soltanto a loro) di aumentare la produttività del lavoro, abbattere l’assenteismo, stimolare la “fedeltà” dei lavoratori agli interessi aziendali, e così comprimere drasticamente i costi di produzione. In una fase storica come quella attuale, dove il taglio dei costi è vitale per la riproduzione del capitale, l’organizzazione aziendale toyotista si rappresenta come uno strumento ottimale per innalzare la competitività delle imprese sul mercato. Ecco perché negli ultimi cinquant’anni l’organizzazione toyotista si è diffusa rapidamente anche fuori del Giappone in un numero sempre maggiore di stabilimenti statunitensi e giapponesi.
 

LE RISTRUTTURAZIONI INDUSTRIALI

   Il modello toyotista si è affermato grazie a profonde ristrutturazioni industriali nelle aziende. Queste sono una necessità per il capitalismo perché attraverso esse cerca di uscire dalla crisi. Ma cosa intende il capitalista per ristrutturazione? Che obiettivi intende prefiggersi? Il capitalista che ristruttura, riesce a produrre a costi minori; la stessa quantità di oggetti o addirittura una quantità maggiore con meno lavoratori. E quanto fece la FIAT negli anni ’80 che con meno lavoratori occupati, con decine di migliaia di lavoratori in Cassa integrazione, senza attuare il turn-over, licenziando il più possibile, ha prodotto più auto. E quindi ha potuto fare, provvisoriamente, le scarpe ai suoi concorrenti. Agnelli risorse così provvisoriamente la crisi. Perché provvisoriamente?

   Siccome il numero delle auto nel mondo non è aumentato ma diminuito, gli altri capitalisti produttori di auto hanno prodotto e venduto di meno anche proprio a causa dell’espansione di Agnelli.

   Queste sono le premesse per uscire dalla crisi? Queste sono le premesse perché i concorrenti di Agnelli ristrutturino anch’essi, espellendo anch’essi lavoratori dalle fabbriche, si mettono così in condizione di rendere la pariglia; quindi, sono le premesse per un nuovo aggravamento della crisi e per una più accanita concorrenza fra i capitalisti produttori di auto.

   La crisi attuale è una crisi di sovrapproduzione di capitale, che significa che la massa di ricchezza accumulata nelle mani dei capitalisti nel mondo è tanta che non può essere investita con profitto come capitale. Ogni ristrutturazione effettuata da un singolo capitalista comporta che questi investa più capitale con meno operai; quindi, la quantità di ore di lavorative che egli mette in moto diminuisce. Diminuisce anche la quantità di ore lavorative che vanno a compensare il salario che egli paga ai lavoratori, ma la differenza tra le ore lavorative messe in moto e, quelle che compensano il salario (il pluslavoro, la quantità di ore lavorative che il capitalismo obbliga gli operai a prestare gratuitamente) diminuisce anch’essa.

   Esempio: Se prima un capitalista impiegava 100 operai per otto ore al giorno, quindi 800 ore lavorative; il salario corrispondeva a 400 ore lavorative e le altre 400 ore erano il pluslavoro di cui egli si appropriava. Ora impiega 60 operai per otto ore al giorno, quindi mette in moto 480 ore lavorative; stante la maggiore produttività dell’operaio nelle condizioni ristrutturate, il suo salario corrisponde pure a solo 2 ore di lavoro, quindi il salario di tutti gli operai a 120 ore di lavoro; il pluslavoro estorto si è pure ridotto a 60 x 6 = 360 ore. E’ diminuito.

   Ma allora il capitalista è scemo? Agisce contro i propri interessi? No, a differenza di quanto credono molti esponenti della sinistra borghese e di quella cosiddetta “antagonista”, “radicale” e “rivoluzionaria”, la maggior parte dei capitalisti non è scema (e se lo è assume un direttore). Ora, il capitalista ristruttura egualmente perché fino a che gli altri capitalisti del settore non ristrutturano, egli vende le sue auto non al nuovo valore ma su quello vecchio.

   Esempio: Se prima un capitalista faceva produrre 10 auto al giorno e il suo plusvalore complessivo di 400 ore lavorative lo realizzava in ragione di 40 ore su ogni auto. Se ora ne produce 15 di auto al giorno e siccome lo vende al vecchio prezzo, egli incassa non le 360 ore di pluslavoro dei suoi operai, ma il 15 x 40 = 600 ore lavorative di pluslavoro: per lui la situazione è migliorata! Anche se per vincere i suoi concorrenti avesse dovuto ridurre i prezzi e incassare non 49 ma solo 30 ore di pluslavoro per auto venduta, incasserebbe 15 x 30 = 450 ore di pluslavoro, sempre più di prima.

   Il capitalista nell’agire così non aveva molte scelte: o muoversi come lui si è mosso o trovarsi lui nella situazione in cui si trovano oggi i suoi concorrenti.

   Ora, anche gli altri capitalisti produttori di auto ristrutturano, succede che la massa di pluslavoro che essi estorcono agli altri operai diminuisce ad ogni ristrutturazione, diminuisce tanto più velocemente quanto più velocemente e profondamente ristrutturano, anche se ancora più rapidamente diminuisce la massa dei salari.

    Esempio: Tutti i capitalisti ristrutturano. Prima facevano lavorare 1000 operai per 8 ore al giorno, quindi 8000 ore lavorative: 4000 andava ai salari e 4000 era pluslavoro. Ora fanno lavorare 600 operai per 8 ore al giorno, quindi 4800 ore lavorative: 1200 va ai salari e 3600 in pluslavoro. La torta che si spartisce tra i capitalisti si è ridotta da 4000 ore a 3600 ore lavorative, è diminuita.

   Questo è il vero motivo perché i capitalisti non investono. Non il costo del lavoro troppo alto, ma perché se l’investimento di un capitale maggiore porta all’estorsione di un plusvalore minore, il flusso degli investimenti diventa difficile, gli affari non girano più bene. Tutti gli interventi attuati nelle metropoli imperialiste (riduzione del salario e della spesa pubblica per servizi sociali, trasporto, scuola, case popolari, pensioni) non incidono minimamente, perché non c’entrano con le cause reali della crisi, che è crisi di sovrapproduzione di capitale.

    Man mano che la torta diminuisce, cresce la rissa fra i capitalisti per avere nella spartizione una fetta più grande. E questa rissa tra capitalisti, la guerra economica e commerciale che i capitalisti si fanno tra loro per avere anche una parte del pluslavoro che l’altro ha estorto, si trasforma prima o poi in guerra fra stati, in una politica aggressiva fra stati borghesi.

   Gli stati mantengono la possibilità di imporre coercitivamente tariffe doganali, contenere le importazioni, facilitazioni fiscali e rimborsi alle esportazioni, imposte e tasse alle merci che circolano nei confini di loro dominio, di diminuire o aumentare con provvedimenti legislativi i costi di produzione dei capitalisti che operano nei loro confini (pensiamo solamente all’uso che è stato fatto in Italia della fiscalizzazione degli oneri sociali), di rendere più oneroso o meno oneroso il credito a ogni singolo capitalista (il credito agevolato, gli stanziamenti statali per la ristrutturazione industriale), di passare commesse più o meno grandi e più o meno di favore ai singoli capitalisti, di ottenere tramite accordi commerciali o compensazioni di altro genere (ad esempio sostegno politico e militare) da altri stati trattamenti di favore ai loro confini e nel loro territorio per i propri capitalisti, di imporre ai lavoratori nel territorio da essi dominato condizioni salariali più o meno pesanti, di imporre all’interno dei propri confini ai lavoratori e alle masse popolari una disciplina più o meno rigida.

   Tutte questi poteri che ha lo Stato interferiscono pesantemente, in certi casi in modo decisivo, sulle dimensioni della fetta di pluslavoro che va a ogni singolo capitalista. Più la lotta tra capitalisti attorno alla spartizione diventa accanita, più ogni capitalista vuole che il suo Stato sostenga lui a danno degli altri capitalisti suoi concorrenti. Quindi più aggressivi e antagonisti diventano il rapporto che s’instaura fra i vari stati borghesi.

   E man mano che la guerra commerciale diventa, con l’acuirsi della crisi, per i singoli capitalisti, una questione di vita e di morte, la guerra (pur con tutti i rischi che comporta) diventa un “rischio che vale la pena di correre”. E in quest’ambito tutti i vecchi contrasti (contese tra stati per il dominio su territori, contrasti razziali, religiosi politici, culturali, e ideologici) sono esaltati e usati per rendere “popolare” guerre che hanno la loro fonte reale nell’acuirsi della concorrenza tra capitalisti nel contesto della crisi. La guerra tra briganti capitalisti per la spartizione del plusvalore estorto è ricoperta dal velo mistificatore di guerra per la democrazia, guerra per i diritti umani, guerra umanitaria ecc.

IL SISTEMA WAL-MART

   Il sistema Wal-Mart rappresenta il prodotto della più perfetta combinazione di taylorismo, fordismo e toyotismo e perciò della più “razionale” spremitura del lavoro vivo finora realizzata.

   Dal taylorismo Wall-Mart ha preso la parcellizzazione estrema dei compiti di lavoro e l’ossessione per la misurazione dei tempi delle singole operazioni lavorative. Dal toyotismo ha preso e implementato il principio dello just in time, che utilizza per tagliare gli sprechi di tempo, di scorte di magazzino e di personale. Dal toyotismo e dal fordismo ha preso l’assoluta ostilità per il sindacato, bandito in ognuno dei suoi stabilimenti.[9] Negli ipermercati Wal-Mart i salari medi sono di 11.700 dollari l’anno, di 2.000 dollari inferiori alla soglia di povertà e del 25% inferiori ai salari medi degli altri ipermercati; non pochi tra i lavoratori della Wal-Mart sono costretti a ricorrere ai buoni pasto per mangiare e agli ostelli per i poveri per dormire, il 72% dei lavoratori non ha assistenza sanitaria, e i lavoratori che l’hanno devono pagare 75 dollari al mese per un’assicurazione che non rimborsa le spese per i medicinali, in una situazione dove è sì obbligati a scegliere “se mangiare o curare i figli”. Per non dire che più del 50% dei lavoratori è impiegato part-time e il turnover è al 40%, così da tagliare i costi della pensione e la sanità per la gran parte dei lavoratori; in 31 stati degli USA Wal-Mart è stato denunciato per non aver pagato gli straordinari ai propri dipendenti: gli addetti alle pulizie degli stabilimenti Wal-Mart sono spesso lavoratori immigrati senza permesso di soggiorno, chiusi a chiave nello stabilimento durante il turno di notte e impossibilitati a uscire anche se malati; i manager sono istruiti a contrastare l’organizzazione sindacale al punto che quando un piccolo reparto del Texas è riuscito a organizzarsi sindacalmente, Wal-Mart ha chiuso l’intero supermercato: o che sono circa 30.000 gli agenti incaricati di sorvegliare e pedinare i lavoratori dei grandi magazzini per assicurarsi che nessuno abbia contatti con il sindacato. Turni folli, straordinari non pagati repressione sistematica è questa la filosofia che ispira il sistema Wal-Mart.

   Ma Wal-Mart non applica i principi tayloristi, fordisti e toyotisti solo nei suoi ipermercati. Wal-Mart impone indirettamente gli stessi principi anche nelle fabbriche dei suoi fornitori. Wal-Mart impone ai propri fornitori di ridurre di continuo i prezzi di vendita della loro merce. Attraverso la politica dei prezzi bassi Wal-Mart diffonde così i principi tayloristi, fordisti e toyotisti nelle fabbriche di tutto il mondo, ove il capitale industriale, in modo particolare quello delle piccole e piccolissime imprese è costretto a tagliare il costo del lavoro al fine di rimanere sulla non piccola sezione di mercato controllata dal Wal-Mart. E’ questo il “sistema Wal-Mart”, che spinge il capitale industriale ad abbassare i propri prezzi e a ridurre i propri profitti al fine di salvaguardare il rapporto di fornitura con il più grande rivenditore al mondo. Non si tratta della rivincita (in tempi largamente scaduti) del capitale commerciale su quello industriale, bensì della vittoria del capitale più concentrato e centralizzato. In questo modo Wal-Mart offre ai propri fornitori l’opportunità di vendere in una fase di saturazione del mercato. E’ così che la Ching Hai Electric Eprksa ha dovuto dimezzare il personale, aumentare gli orari di lavoro a 14 ore al giorno, e raddoppiare i ritmi di lavoro, al fine di ridurre il costo dei propri lavoratori da 7 a 14 dollari come richiesto da Wal-Mart.


IL MALESSERE DEI LAVORATORI

IPER-LAVORO

   C’è un paradosso nel modo di produzione capitalistico, che (tranne che per gli intellettuali organici della borghesia) nei momenti di crisi (come quella attuale) più diminuiscono i salari e aumenta la disoccupazione, più cresce l’iper-lavoro. Negli Stati Uniti, non solo i salari vanno lentamente allineandosi a quelli del cosiddetto Terzo Mondo, ma si “vive” al lavoro. I lavoratori americani “vivono” al lavoro, mangiano sulla scrivania e dormono sulla scrivania. Il lavoratore medio americano oggi lavora il 20% in più di quanto lavorava negli anni ’70. [10] E le ore di lavoro non sono più lunghe ma anche più intense. Uno studio del Familes and Work Institute[11] evidenzia che il 46% dei lavoratori è regolarmente contattato per telefono o per via e-mail al di fuori dall’orario lavorativo. Quando il lavoro entra nella vita “non lavorativa”, significa in realtà un aumento effettivo dell’orario lavorativo. L’eccesso di lavoro non è più un fatto marginale. Essere dipendenti dal lavoro significa lavorare così tanto da annullare tutte le altre sfere della propria vita: la salute, la famiglia, o la vita relazionale.

   Il problema dell’iper-lavoro non esiste, ovviamente, solo negli USA: nel 2003, la percentuale dei lavoratori inglesi che lavora più di 48 ore alla settimana era del 25%. In Olanda quasi il 3% della popolazione olandese deve trascorrere i giorni di ferie a letto a causa dell’eccesso di stanchezza e di stress.[12] Questo nelle metropoli imperialiste, nei paesi del Sud del mondo, dipendenti da esse, i casi di turni di lavoro che superano le 24 ore o anche le 48 ore di lavoro di fila sono tragicamente in crescita, dal Sud America all’India alla Cina all’Est europeo. Tale scempio della vita umana è ricorrente nelle fabbriche Samsung, alla Ralph Lauren, nelle fabbriche GAP in Indonesia, in paesi come il Bangladesh, El Salvador, Messico, Colombia e Lesotho, specie nel settore del tessile, dell’abbigliamento e dei giocattoli (tutti settori a forza-lavoro quasi totalmente femminile).
 

UNA PRODUZIONE CHE CONSUMA I LAVORATORI

  L’iper-lavoro non solo consuma quotidianamente i lavoratori, ma li costringe anche a ripetere le stesse mansioni lavorative giorno dopo giorno, prolungando in modo interminabile la loro esposizione a condizioni ambientali potenzialmente insane, la loro permanenza in posizioni scorrette, il contatto con sostanze industriali potenzialmente patogene, o l’utilizzo di macchinari e utensili industriali potenzialmente pericolosi. Nel frattempo, il fatto di passare tanto tempo al lavoro, limita il tempo a loro disposizione per riposare, rigenerarsi o curarsi, mentre la limitatezza delle risorse materiali in grado di badare a questi bisogni sigilla un’esistenza lavorativa ed extra lavorativa costellata da difficoltà e disagi.

   Per meglio descrivere la complessità delle implicazioni che il lavoro “scientificamente” organizzato nei modi, che sono stati descritti prima, ha sulla vita dei lavoratori, dobbiamo chiederci quali sono i fattori patogeni all’interno dei luoghi di lavoro e le conseguenze che essi hanno sulla salute fisica dei lavoratori e quali sono le possibilità reali di benessere (nel vero senso della parola) accessibili ai salariati nel mondo contemporaneo. Per rispondere a queste domande bisogna fare due operazioni: fornire una lista dei fattori patogeni all’interno dei luoghi di lavoro ed esaminare in che modo tali condizioni, oggettive immiseriscono la vita soggettiva dei lavoratori dal punto di vista fisico, emotivo e relazionale.

   Cominciando dai fattori patogeni, la fabbrica moderna, luogo dove i lavoratori passano gran parte della loro vita, vi è un’infinità di situazioni potenzialmente patogene. La permanenza sul luogo di lavoro per troppe ore di fila in condizioni ambientali insoddisfacenti è spesso fonte di malattia, a causa dell’eccessiva o scarsa luminosità, dell’eccessiva o scarsa ventilazione, del troppo rumore o calore; dell’utilizzo di metalli pesanti, di minerali o agenti chimici senza le necessarie precauzioni, o, di una combinazione di questi fattori. In un contesto come quello attuale, caratterizzato da una forsennata corsa all’abbattimento dei costi del lavoro, l’esposizione prolungata dall’iper lavoro, inoltre, è resa pericolosa anche dalla limitatezza degli strumenti precauzionali disponibili. Poiché l’elenco dei fattori patogeni sarebbe lungo, mi limito a dire quelli più diffusi.

   Nell’ambiente fisico di fabbrica, la temperatura, l’umidità, la luce, il rumore e la ventilazione sono altrettante fonti potenziali di malattia. Condizioni non ideali di ventilazione causano un’aria stagnante, impediscono il normale scambio tra calore del corpo al lavoro e l’ambiente, e comportano l’aumento della temperatura corporea, la dilatazione dei vasi sanguigni e il raffreddamento dell’organismo a causa dell’aria. Una luce troppo forte, che abbaglia, mostra ombre riflesse, o presenta variazioni sensibili, causa stanchezza visiva e alla lunga comporta danni alla vista. Nelle sale macchine con un’intensità di suoni oltre i 65 decibel, subentrano riflessi di tipo vegetativo e avviene una trasformazione di tutto l’innervazione vegetativa dell’organismo: dallo spostamento del sistema endocrino nella funzione ghiandolare, alla diminuzione della secrezione di succhi gastrici, a modificazioni nella corteccia dei reni succinturiati.

   L’utilizzo di utensili o macchinari vibranti o l’esposizione a solventi, vernici o sostanze chimiche è anch’esso un fattore potenziale di malattia. Nell’edilizia, nell’industria estrattiva, metallurgica, metalmeccanica, del legno, nei cantieri navali, nell’agricoltura, sono utilizzate macchine utensili, portatili, macchinari fissi, o mezzi di trasporto vibranti o semoventi che trasmettono vibrazioni alla mano o al braccio. I lavoratori che usano macchinari o strumenti vibranti possono sviluppare problemi muscolari alle mani, problemi neurologici che diminuiscono la sensibilità delle dita, lesioni muscolari – scheletriche ai polsi e ai gomiti, e disturbi al rachide lombare come ernie e sciatalgie, alla cervicale, all’apparato digerente o anche all’apparato circolatorio.[13] Sempre più spesso, inoltre, le sostanze usate in queste fabbriche sono di origine chimica. L’esposizione prolungata a metalli pesanti o agenti inquinanti come il piombo, il mercurio, il cromo, l’arsenico, il cadmio e il nichel, i solventi clorurati, i pesticidi, o il monossido di carbonio, inoltre, può portare problemi d’intossicazione, problemi cardiaci o respiratori, sino a causare il decesso. Data la potenziale nocività di condizioni non ottimali di ventilazione, temperatura, luce e rumore, si dovrebbero rispettare, a riguardo dei precisi criteri standard. Il rumore dovrebbe essere contenuto entro i 65 decibel nelle ore diurne; l’aria dovrebbe essere rigenerata da adeguati impianti di ventilazione, e la luce dovrebbe essere mantenuta a livelli intermedi in modo tale da non essere troppo tenue né troppo forte.

    Nonostante tali precauzioni siano semplici se non addirittura banali, siamo ancora lontani avere debellato questi fattori di rischio. Secondo la seconda inchiesta sulle condizioni di lavoro in Europa: “la denuncia di fattori ambientali quali il rumore, le vibrazioni, le temperature estreme, la presenza di sostanze o di prodotti pericolosi, era alta nel 1991 e rimane alta nel 1996. Circa un quarto della forza lavoro di tutti i settori è esposta, in qualche fase del suo lavoro, ad un livello di rumore (28%), alle vibrazioni dovute a strumenti di lavoro o a macchine (24%), a caldo intenso (20%), o a freddo intenso (24%), al maneggio di sostanze o prodotti pericolosi (15%). Ancora ampia è la quota di occupati costretta a lavorare in posizione fisicamente dolorose o penose (il 45%), o che deve trasportate o spostare carichi pesanti”.

   Nel 2008 la situazione in Europa non è cambiata di molto, anzi è peggiorata. Nel 2000, il 29% dei lavoratori lamentava un rumore troppo altro; il 24% dei lavoratori soffriva a causa delle vibrazioni dei propri strumenti di lavoro; il 22% dei lavoratori era esposto all’inalazione di fumi, vapori, polveri o sostanze chimiche, il caldo era troppo intenso per il 23% degli operai; il freddo era troppo intenso per il 21% degli operai; il maneggio di sostanze o prodotti pericolosi era denunciato dal 16% dei lavoratori; mentre la percentuale degli occupati costretti a lavorare in posizione fisicamente dolorose o penose era cresciuta al 47% e quella dei salariati obbligati a trasportare carichi troppo pesanti era cresciuta al 37%.  E più il tempo passa, più i dati sembrano a peggiorare. Al 2003, infatti, erano il 36 % dei lavoratori a lamentare un rumore eccessivo, il 34% a lamentare delle vibrazioni intense dei propri macchinari, il 26% a essere esposto a inalazioni di vapori, fumi, polveri o sostanze chimiche, mentre il 24% soffriva un caldo troppo intenso, o un freddo troppo intenso, oppure soffriva a causa del maneggio di sostanze o prodotti pericolosi (14%), di posizioni fisicamente penose (42%), di carichi troppo pesanti (42).

   Dunque, una larga parte dei lavoratori è costretta a convivere con una molteplicità di fattori patogeni.

   Una delle conseguenze più diffuse della convivenza con fattori di tipo patogeno è lo stress.

   Lo stress non è un fenomeno nuovo, ma un prodotto caratteristico della moderna organizzazione del lavoro.

   Oggi, la diffusione dello stress è in preoccupante crescita. In un contesto caratterizzato dall’eccessivo carico di lavoro, dall’eccessiva brevità dei tempi di riposo e dalla nocività dell’ambiente di lavoro, la vita lavorativa diventa un fattore di stress.[14] Alla base dello stress vi è un semplice meccanismo di conflitto: da una parte i lavoratori vorrebbero interrompere o rallentare il lavoro, prendere precauzioni per la loro salute, e rivendicare condizioni di lavoro migliori, dall’altra sono costretti a lavorare e ad avere paura di ribellarsi. Essi vivono quotidianamente una contraddizione che da una parte li spinge a sopportare e lavorare con la bocca chiusa e il capo chino, dall’alta li chiamerebbe a interrompere il lavoro per difendere innanzitutto la propria salute e la propria dignità.[15] Questo conflitto non è altro che un riflesso sociale e psicologico dell’antagonismo strutturale della società capitalista, basata sull’oppressione della classe proletaria da parte della classe proprietaria dei mezzi di produzione. Tutti i lavoratori, a prescindere dai loro livelli di coscienza, vivono questo conflitto, e di tale conflitto la loro coscienza è in qualche modo infusa, così come i loro corpi ne manifestano i sintomi.

   Per rispondere a tale malessere i lavoratori hanno due possibilità:

1)   Fare esplodere il loro conflitto interiore in un conflitto sociale e politico con chi li opprime.

2)   Oppure implodere in una sofferenza interiore senza sbocchi, che diventa presto fonte di frustrazione e di una logorante tensione nervosa.

   Reprimere le sensazioni di malessere e sfinimento, sedarne continuamente i sintomi, richiede il dispendio di enormi quantità di energia nervosa. Perciò quello che è definito “conflitto mentale” cessa di essere un problema “marginale” per diffondersi rapidamente nei centri nervosi di tutto il corpo. E nel reprimere i sintomi di sfinimento, i lavoratori finiscono per logorare il proprio corpo.

   Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte nei paesi occidentali, con circa il 50% del totale dei decessi correlabile a una patologia del cuore, contro il 27% dovuto ai tumori. Quasi il 30% di questi decessi è dovuto all’infarto miocardico con un tasso di 187 morti ogni centomila abitanti. Secondo l’Oil, le patologie correlate allo stress affliggono più del 50% della forza lavoro con depressione, ansia ed esaurimento nervoso. In Germania, il 7% dei casi di pensionamento anticipato è causato dalla depressione. In Gran Bretagna, circa tre lavoratori su dieci hanno problemi mentali causati dallo stress lavorativo. In Polonia, dagli anni ’90, con l’introduzione del “libero mercato” (eufemismo per dire capitalismo selvaggio), ci fu l’aumento delle malattie depressive e degli individui in cura. Negli Stati Uniti, la depressione è il disagio più diffuso, e colpisce un lavoratore su dieci. Secondo l’Oms la depressione, entro il 2020, la depressione sarà la seconda causa d’invalidità del mondo.

   La depressione è fonte di malattia. I lavoratori che vivono un alto livello di stress, di frustrazione e di lotta interiore, devono trovare un canale di sfogo almeno temporaneo. Per questo molti ricorrono ad alcol e droga per combattere lo stress psicologico, spinti dalla necessità allentare la tensione nervosa e il conflitto mentale.

   Quando il rapporto conflittuale tra il lavoratore e le sue condizioni di lavoro non trova un canale di sfogo concreto, l’unica “soluzione” a sua portata di mano è dissolvere almeno la percezione del conflitto in atto. Più il lavoratore è cosciente della sua situazione, del resto, più con essa sarà in antagonismo. Per questo, come diceva A. Smith, per i capitalisti necessita una forza lavoro: “tanto stupida e ignorante quanto può esserlo una creatura umana”[16] può sopportare un lavoro tanto limitato e ripetitivo. Ma per quanto l’attuale divisione e organizzazione, il taylorismo, il fordismo, il toyotismo ce l’abbiamo messa e ce la mettano tutta nello sforzo di selezionare e produrre una forza-lavoro con la forma mentis suina tanto cara a Taylor, un simile, orribile miracolo (per i capitalisti ovviamente) non è mai riuscito in pieno. E per una ragione molto semplice: la resistenza dei lavoratori, che sia spontanea o organizzata, individuale o collettiva, significa il rifiuto a farsi ridurre a mera forza-lavoro stupida, ignorante, asservita e trottante. Questa resistenza periodicamente esplode in conflitti più o meno generalizzati: se non si vuole fare del vuoto ideologismo (borghese, anche se si volesse dargli una cornice “progressista”, “antagonista”), bisogna ricordarsi che gli ultimi due secoli sono stati caratterizzati da un conflitto senza pari nella storia (definito spesso e volentieri conflitto sociale tanto per dargli una terminologia “neutra” e “non ideologica”), che ha visto come protagonista principale gli operai e i lavoratori salariati. Si può tranquillamente affermare che lo stesso perfezionamento dei macchinari e dell’organizzazione del lavoro in direzione dell’incremento della produttività ha avuto come sua molla fondamentale la conflittualità operaia.[17]      Ma nella quotidianità del lavoro, quando la possibilità di un conflitto collettivo aperto e realmente lontana o appare lontana, l’operaio/a, il salariato/a, presi negli ingranaggi della dura disciplina richiesta ai lavoratori, non potrà che opporre a essa e ai suoi imperativi, forme di resistenza individuali, esterne o spesso interiori. E per loro sarà inevitabile vivere dei conflitti mentali. Benché sia stanco o svuotato, il lavoratore singolo sarà costretto, si sentirà costretto a darsi egualmente da fare, a non ridurre l’attenzione a quello che sta facendo, a non ridurre l’attenzione a quello che sta facendo, né la velocità nell’eseguire le sue mansioni. E’ per rispondere a un simile conflitto permanente, difficile da tollerare, che un numero crescente lavoratore e lavoratrici ricorre al consumo di sostanze psicotrope. Queste servono ad alleviare la coscienza della stanchezza e, insieme, il senso di contrasto con il proprio lavoro, di separazione da esso, che il lavoratore percepisce, e così lo aiuta a produrre intensamente, facendolo entrare in uno stato di semiveglia tale da permettere l’automazione dei suoi movimenti e l’assopirsi della sua mente. In quel modo, tutte le energie del lavoratore saranno incanalate nel processo lavorativo e bruciate all’interno dei limiti prescritti dalla disciplina di fabbrica. Una simile accresciuta concentrazione di lavoro, inevitabilmente, alla fine, farà aumentare la fatica mentale e a sua volta l’accresciuta fatica mentale farà aumentare il peso del lavoro svolto. Il lavoratore, infatti, alla fine, sfogherà le sue frustrazioni nel processo lavorativo aumentando la quantità di lavoro erogato. La “de-cerebrazione” della forza lavoro diventa così uno strumento disciplinare sia a livello economico sia a livello politico, poiché ridurre la resistenza e la consapevolezza, dei lavoratori li trasforma in macchine economicamente produttive e politicamente obbedienti, disposte a coordinare le loro più basilari funzioni biologiche con quelle della produzione, così da lavorare di notte e dormire di giorno a secondo gli ordini. In questo senso, la diffusione di sostanze psicotrope tra i lavoratori, per le imprese (fino a un certo punto) c’è il vantaggio di poter avere una manodopera produttiva e obbediente, ma non risolve per niente i problemi dei lavoratori. Al contrario queste sostanze non fanno che dissipare temporaneamente la percezione della fatica, inducendo i lavoratori a convivere con le stesse frustrazioni e a ritrovarsele, alla fine, ingigantite.
 

MOBBING

   Partiamo dalla considerazione per cui il processo capitalistico sviluppa la contraddizione tra valore d’uso e valore di scambio. Sul piano del processo di lavoro questo vuole dire che il carattere sociale del lavoro si realizza all’interno di un processo capitalistico che ponendo al centro lo sfruttamento e l’estrazione del pluslavoro si contrappone a questo carattere sociale.[18] Dentro il rapporto di sfruttamento il lavoratore è alienato anche perché, mentre la sua funzione lavorativa in accordo con le potenzialità  della scienza e della tecnica mira a una visione sociale e collettiva della funzione della funzione del lavoro, il rapporto capitalistico gli preclude la possibilità di operare e identificarsi con questa funzione sociale.

   In questo senso lo sfruttamento capitalistico, oltre che un rapporto di oppressione sul piano del lavoro e delle condizioni di vita, è anche un rapporto che mira a negare e frammentare l’identità che il lavoratore tenderebbe a costruirsi nel rapporto stesso con il lavoro.

   Questo processo di alienazione, generalmente s’individua nei settori più legati ai servizi pubblici e sociali, dalla scuola alla sanità, alla cura degli anziani ecc. in realtà è nelle fabbriche che prima di tutto si dispiega questa contraddizione. E’ dalle fabbriche che essa si estende agli altri settori lavorativi. Da questo punto di vista i rapporti capitalistici presuppongono una classe operaia e dei lavoratori che, di per sé, al di fuori di un processo complessivo di trasformazione rivoluzionaria della società è difficile (se non impossibile) che possano sviluppare una concezione unitaria di se stessi e della propria funzione sociale.

   L’alienazione, quindi, va considerata come un esito tra gli altri del rapporto capitalistico che incide pesantemente sulla coscienza e sulla soggettività del lavoratore.

   Come lo sfruttamento capitalistico pesa sul piano materiale, assorbendo e svuotando le energie vitali del lavoratore all’interno del rapporto di lavoro, così  questo si ripropone anche al di fuori del lavoro,  nelle condizioni di vita in cui versa il lavoratore con la sua famiglia, allo stesso modo, la devalorizzazione che il lavoratore subisce all’interno del rapporto di lavoro rispetto alla problematicità di un’adeguata identificazione con gli interessi della collettività, si ripercuote al di fuori dell’ambito di lavoro in una conseguente situazione di disagio e alienazione esistenziale.

   Come abbiamo visto, il capitale mette in atto e realizza meccanismi e processi miranti a determinare precisi esiti ed effetti psicofisici al fine di poter gestire la forza lavoro individuale e collettiva in funzione delle sue necessità connesse alla produzione di plusvalore e quindi alla massificazione del profitto.

   Perciò il problema del mobbing deve essere concepito non solo come mirato a singolo lavoratore ma anche come un insieme di strategie e di pratiche volte a governare la forza lavoro. E questo un uso del termine mobbing che dilata il concetto corrente, in altre parole quel sistema consistente in una successione di episodi traumatici correlati l’uno con l’altro e aventi come scopo l’indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione della volontà del soggetto mobbizzato. La questione deve essere ancorata all’attuale fase di crisi generale del capitalismo e della cosiddetta globalizzazione.

   Secondo McCarthy docente presso la Griffith University di Brisbane  (Australia), che ha fatto delle ricerche su questo fenomeno le cause dell’estensione di esso sarebbero:

1) negli ultimi anni l’economia mondiale ha conosciuto enormi trasformazioni tecnologiche, commerciali e finanziarie;

2) le aziende moderne devono sopravvivere nei mercati globali, dove la concorrenza è spietata;

3) per vincere la sfida della globalizzazione, le aziende devono cercare di essere sempre più flessibili e leggere: soprattutto devono diminuire il costo del lavoro;

4) per alleggerirsi le aziende licenziano molti dipendenti e si trasformano in reti di imprese;

5) i lavoratori che non sono licenziati diventano sempre più precari, perdono le garanzie salariali di un tempo e si abituano a vivere sotto la costante minaccia di perdere il proprio posto, tanto più che un nutrito esercito di disoccupati (magari giovani e qualificati) preme per entrare nella forza-lavoro;

6) impiegati e operai devono inoltre affrontare ambienti lavorativi in continua evoluzione con sempre nuove cose da imparare (formazione continua) e dove nessuno vale più per le proprie capacità individuali, ma per la propria abilità di integrarsi con gli altri (lavoro di squadra);

7) nasce il “capitalismo del caos” un “nuovo” scenario economico mondiale caratterizzato da “grande incertezza”;[19]

8) per contrastare il panico provocato da questa incertezza nelle aziende, si diffonde il mobbing: tutte le tensioni e gli stress accumulati sono scaricati sulle vittime.

    Quindi il mobbing è un fenomeno provocato dal contesto economico, più ancora che da quello culturale. Secondo McCarty è la struttura organizzativa delle aziende moderne, la causa del mobbing.

   Nel corso degli anni ’90 le aziende per far fronte alla concorrenza determinata dall’accentuazione della crisi, si sono riorganizzate profondamente. I capitalisti hanno imposto la ricetta della flessibilità del lavoro. Soprattutto hanno introdotto la retorica della “ristrutturazione” dove come moderni Menenio Agrippa pontificano ai loro lavoratori (magari chiamandoli “collaboratori”) che tutti debbono collaborare al risultato comune della eccellenza aziendale. Basta con i lavori inutili e con i lavoratori “scansafatiche” (che tra l’altro sono quelli che rivendicano i loro diritti e per questo scioperano): sono questi i rami secchi che vanno tagliati a suon di licenziamenti.   

   Sono fatti passare come effetti positivi delle ristrutturazioni l’eliminazione delle burocrazie, il “coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni”,[20] la produttività[21] e l’aumento della “comunicazione”.[22] La realtà e ben altra. Non il paradiso (per gli allocchi) com’è venduto dai moderni illusionisti, ma è fatta di: aumento delle ore lavorative, dei carichi di lavoro e degli straordinari non pagati. Dove le risorse vanno “ottimizzate” (eufemismo per dire razionalizzate) e quindi scarseggiano costantemente. Ciascun impiegato deve saper svolgere molte mansioni e addossarsi ogni giorno nuove responsabilità e nuovi compiti (quello che è spacciato per aumento della “professionalità” del lavoratore è così da diversificare gli aumenti contrattuali). La struttura gerarchica deve essere “piatta”, quindi non ci sono capi e tutti hanno la stessa qualifica: che significa che tutti i dipendenti sono chiamati ad assumere ruoli dirigenziali e fare anche il lavoro dei manager, senza però percepire i loro stipendi.[23]
 

MOBBING E TERZO SETTORE

    Il Terzo Settore, quello che è definito impropriamente Non-profit che è costituito da quelle organizzazioni che non sono enti pubblici, ma non sono aziende private.[24]  Queste organizzazioni sono: associazioni di volontariato, organismi senza fini di lucro (le famose ONG), fondazioni, cooperative e “imprese sociali”[25] che di solito si occupano di assistere e curare soggetti deboli.

   Da un capo all’altro del mondo (dall’Europa del Nord all’Australia) si moltiplicano le notizie di imprese Non-profit citate in giudizio per abusi psicologici sui collaboratori. Bisogna sospettare che questi sia una punta di un iceberg. Nel Terzo Settore, infatti, è normale ricorrere alle prestazioni di persone (soci-lavoratori, soggetti svantaggiati che devono essere reinseriti, volontari ecc.). I volontari o soci-lavoratori di cooperative non sono tutelati dalle legislazioni del lavoro e quindi non potrebbero avanzare pretese come fossero dipendenti regolari.

    Coloro che, a vario titolo, lavorano nel Non-profit sono esposti allo sfruttamento, ancora di più dei lavoratori normali. Anche il fatto che queste persone siano spesso molto motivate può essere un fattore di rischio. Quello spirito di missione che anima molti di quelli che lavorano nelle organizzazioni senza fini di lucro giustifica i salari, ridotti, l’intensificazione dei carichi di lavoro e le richieste di “sacrificarsi per gli altri”.

   In questo contesto risulta chiaro che ogni abuso psicologico sarebbe permesso. Tanto più che, agli occhi di tutti, le imprese non profit rappresenta “l’economia buona”. I soci e i volontari si sentono membri di una comunità che condivide valori uguali per tutti: questo spinge a isolare e mobbizzare singole persone che sono viste come elementi estranei.

   Perché succede questo? Ci s’immagina che i professionisti della solidarietà siano tutti seri e onesti. Ma nel non profit (come in tutte le organizzazioni d’altronde) si possono incontrare persone tutt’altro che gradevoli.

    Ma uno dei motivi che negli ultimi anni il mobbing si è diffuso a macchia d’olio nelle imprese del Terzo Settore è stato che queste organizzazioni si sono legate sempre di più alle imprese che sono definite For-profit (aziende che lavorano per fare soldi, eufemismo per definire un’azienda capitalistica). Per questo motivo la vocazione assistenziale delle imprese sociali sta lasciando il posto alle logiche dell’efficienza, della redditività, della produttività. Anche la competitività trova spazio in questo mondo di cooperazione e reciproco aiuto: la parola d’ordine degli ultimi anni è, infatti “competizione”. Le aziende del Non-profit accettano donazioni e sponsorizzazioni, oppure forniscono a loro servizi di ogni tipo (trasporti, pulizie ecc.). Inoltre, sono tantissime le realtà del Terzo Settore che reinseriscono soggetti svantaggiati facendoli lavorare in imprese edili, software houses o industrie manifatturiere allestite all’interno delle cooperative stesse. Il Non-profit “professionale” imita le logiche del business vero e proprio. Ed è per questo che, andando alla ricerca dell’efficienza e del massimo rendimento dei lavoratori, accadono episodi di mobbing.

   Quando le aziende del Terzo Settore assumono modelli di comportamento delle aziende capitaliste, gli svantaggi della produzione ricadono sui soci-lavoratori, sui volontari, sui portatori di handicap o sugli ex tossicodipendenti che loro aiutano nel reinserimento lavorativo. Ormai gli operatori del Non profit sono regolati da obblighi di prestazione del tutto simile (se non più rigidi) a quelli dei lavoratori dipendenti.

   Vediamo la testimonianza di una lavoratrice di una cooperativa: “Dopo che sono arrivata ho fatto assistenza a una signora anziana a Reggio. Poi la signora è morta e suo figlio mi ha detto che dovevo lasciare la sua casa. Mi ha trovato lavoro a S.…, in una cooperativa che fa cinture di pelle. Mi davano un alloggio dentro la fabbrica, ma io non dovevo lavorare dentro la fabbrica, io non dovevo lavorare con gli operai. Quelli erano tutti più giovani, amici dei proprietari. (…) Io dovevo assistere un ragazzo spastico, Daniele. Arrivava la mattina e stava lì due ore. Io lo portavo con sedia a rotelle a fargli dei giri. (…) Allora io ho chiesto: “Perché ogni giorno viene questo ragazzo viene questo ragazzo che non può aiutare nessuno e qui nessuno può aiutare lui?”. E loro mi hanno risposto: “Perché così risulta che noi facciamo assistenza ai ragazzi handicappati e prendiamo i contributi dallo Stato” (…) Io l’ho raccontato al figlio della signora che mi ha trovato quel posto e ho detto che questo mi faceva schifo. Lui ha fatto la spia e loro hanno iniziato a insultarmi e a perseguitarmi tutti i giorni. Mi dicevano: “Vecchia, tornatene a casa da dove sei venuta, non ti vogliamo”. Non mi facevano più portare Daniele. Poi hanno chiuso il tubo dell’acqua nella mia camera, così non mi potevo nemmeno lavare. E alla fine mi hanno detto che non potevano sprecare la corrente e quando se ne andavano la sera staccavano l’interruttore e io dovevo restare chiusa dentro al buio. (…) Ma io non sapevo dove andare e sono rimasta lì chiusa al buio. (…) Ma io non sapevo dove andare e sono rimasta lì e sono rimasta per altri cinque mesi”. Asunciòn, 56 anni, Reggio Emilia.[26]
 

IL MOBBING COME PRODOTTO TIPICO DELLA MODERNA AZIENDA CAPITALISTA

     Per cercare di capire quali sono le origini dell’attuale lavoro “ossessivo”, bisogna andare indietro nel tempo, agli albori del moderno capitalismo industriale. I padroni delle prime grandi industrie avevano il problema di imporre agli operai di venire a lavorare tutti i giorni, anche quando pioveva, anche quando non ne aveva voglia. Costringerli con la violenza non era una buona soluzione perché per lavorare, servivano uomini, donne e bambini. Invece che alla forza si ricorreva allora all’intimidazione, alle minacce, ai richiami e ai ricatti morali. Ossia a tutto l’armamentario solito del mobbing. La violenza psicologica, rispetto a quella fisica, ha l’enorme vantaggio che con una sola azione si possono colpire più persone. Un esempio di questa violenza psicologica su grande scala erano le sirene che nei borghi minerari suonavano alle quattro di notte per chiamare al lavoro il primo turno di cavatori.

   Gli ambienti di lavoro odierni discendono dalle fabbriche, dalle miniere e dalle workhouses (stabilimenti, dove i poveri erano messi ai lavori forzati). Luoghi che assomigliavano più a prigioni che a spazi liberi. Per questo si potrebbe dire che le aziende moderne derivano da ambienti traumatizzanti è per questo motivo che sono esse stesse degli ambienti traumatizzanti.

   Con questo non si vuole dire che non ci siano state delle trasformazioni, ma che sotto il modo di produzione capitalistico e soprattutto nell’attuale fase di crisi generale del Modo di Produzione Capitalistico, il trauma del lavoro si sta ingrandendo e intensificando. Perciò lavorare per un padrone, significa esporsi a un trauma. Perciò se per creare i profitti è necessario che alcune persone lavorino in maniera traumatica, si può dire che uno degli scopi delle aziende è di produrre quel tanto di violenza psicologica necessaria a far andare avanti questo meccanismo economico. La violenza psicologica diventa così una benzina per fare andare avanti l’economia mondiale e le aziende diventano così le raffinerie che producono questa benzina. Perciò il mobbing è il prodotto tipico delle aziende capitalistiche moderne.

DEL BUON USO PER I CAPITALISTI DEL MANAGEMENT: DALLA MNIPOLAIONE AL SUICIDIO

   Nell’ottobre 2006, un tecnico informatico si getta dal quinto piano finendo nella hall del Centro tecnico Renault, a Cuyancourt (Ile-de-France9. La notizia sconvolge l’opinione pubblica: il suicidio avviene in pieno giorno, davanti a decine di testimoni. Questo suicidio, non è stato l’unico gesto di disperazione avvenuto in questa sede nel 2007 ci sono stati altri casi di suicidio. In risposta alle dichiarazioni di un membro della CGT, secondo cui “il clima di tensione regna in azienda” aveva la sua parte nel suicidio, la direzione della Renault dichiara indignata: “Non c’è nessuna relazione tra i suicidi e la nostra politica di gestione delle risorse umane: un suicidio c’è sempre un fattore personale e, per quanta attenzione possiamo dimostrare, non possiamo evitare che accadano simili tragedie”.[27]  Dopo alcune settimane il Comitato di igiene, sicurezza e condizioni di lavoro richiede un rapporto all’ufficio tecnico, i cui risultati definitivi furono resi pubblici il 21 gennaio 2008.[28] Il ha ricevuto il 60% di risposte e descrive un quadro drammatico, “Il tasso di popolazione a rischio al Centro tecnico, supera il 30% . laddove la media nazionale si aggira intorno al 10%” hanno dichiarato il 24 gennaio all’Agence France-Presse Nicolas, del sindacato dei lavoratori, e Bernard Masson del Comitato di Igiene che ha promosso l’indagine. Secondo loro, “il rapporto rivela la condizione di disaggio degli impiegati e dei quadri Renault, vittime di un sistema di management che fa leva al senso di colpa delle persone”.

  Bisogna precisare che Renault non è l’unica azienda a dover affrontare il problema del suicidio dei dipendenti sul luogo di lavoro (e il luogo non è elemento secondario). Il 2007 ha raggiunto un triste primato, specialmente per quanto è accaduto nel settore automobilistico.[29] Il 16 luglio, un dipendente del gruppo PSA Peugeot Citroën viene trovato morto nella fabbrica in cui lavorava, a Mulhouse. L’uomo si sarebbe impiccato nelle officine di montaggio del settore logistico, portando così a sei, dall’inizio dell’anno, il numero dei dipendenti che si sono suicidati. Ancora una volta, la direzione ritiene che non sussiste alcun legame tra la serie di suicidi e l’azienda.

   Il suicidio sul posto di lavoro rimane uno dei tabù della società occidentale. È più facile affrontare temi quali le derivazione mafiose di alcuni settori della classe dirigente, che parlare del suicidio di un lavoratore. I rari casi nei quali, in passato, fu possibile affrontare una questione così drammatica riguardavano alcune professioni particolarmente “esposte” o “a rischio”, come le guardie carcerarie, i poliziotti, gli addetti al pronto soccorso o i vigili del fuoco, anche se, ogni volta, lo si faceva con un certo disagio. Ma quando si tratta di suicidi in altre settori, come per esempio in quello automobilistico, il disagio si trasforma si trasforma in mutismo. L’imbarazzo prende anche i media e gli altri attori sociali. Si preferisce non farne parola, come se fossero inesplicabili e remoti. Ma è davvero così? Le autorità sono in difficoltà a dare delle risposte. A differenza di ogni altri argomento, per i suicidi sul posto di lavoro non esistono statistiche ufficiali.[30] Un’indagine parziale, l’unica condotta nel 2003 dall’ispettorato della Bassa-Normandia,[31] rileva che il fenomeno non è trascurabile in Francia, i lavoratori che si suicidano sul posto di lavoro sarebbero fra i trecento e quattrocento l’anno. Ma perché qualcuno che decide di togliersi la vita in un ambiente di lavoro che a un osservatore esterno potrebbe sembrare tutt’altro che duro? E per quale motivo sempre più persone scelgono il posto di lavoro per togliersi la vita?

   Un tempo, fino agli anni Novanta, il suicidio sul posto di lavoro quasi non esisteva.

   Bisogna dire quasi, poiché non bisogna scordarsi dei suicidi dei cassi integrati nella Torino degli anni Ottanta. In quegli anni la realtà sociale torinese e piemontese fu sconvolta dal fenomeno della cassa integrazione a zero ore di massa, il numero dei cassintegrati in provincia di Torino arrivò nel 1983 a 55.000.  Per buona parte degli anni ’80 presentarsi come “uno dei 23.000”[32] non era un buon biglietto da visita nelle relazioni sociali, si rischiava nel migliore dei casi di essere trattati con sospetto. Agostino Pirella, nel 1984 responsabile dei servizi psichiatrici della Regione Piemonte rilevava in un convegno: “La nostra esperienza di questi anni comincia anche a cambiare. Ha una patologia diversa. Questa figura del cassintegrato, che è una persona che progressivamente rimane emarginata e contro la quale poi si scatena questa sorta incredibile di persecuzione per cui c’è oggi la tendenza a valorizzare chi è produttivo, chi produce ricchezza, e a colpevolizzare, ad accusare duramente chi è in una condizione di assistito[33] Pirella nello stesso intervento denunciò che in quei primi anni ’80 i casi seguiti dai servizi psichiatrici erano aumentati del 200% e che il 60-70% del totale erano soggetti non occupati. L’avvocato torinese Francesco Caterina tra l’ottobre 1980 e l’aprile 1984 aveva censito e documentato 149 casi di suicidio tra cassintegrati della Fiat e delle aziende dell’indotto. Loris Campetti dalle pagine de Il Manifesto denunciò le responsabilità della Fiat: “Quando il lavoro è identità, perderlo equivale a togliere senso alla vita.[..] Chi ringraziare se non la Fiat? Ma siccome non è possibile dimostrare un nesso di causa effetto tra una condizione operaia “speciale” come quella della cassa integrazione – un salario, sia pur ridotto, pagato mensilmente per restare inoperosi fuori della fabbrica – e un suicidio, la Fiat probabilmente non rischierà nulla. Almeno sul piano giudiziario, su quello morale, invece, il discorso è diverso”.[34]

   La rivista Psichiatria/Informazione, animata da Delia Frigessi Castelnuovo ed altri psichiatri democratici, dedicò un numero monografico alla relazione tra disagio psichico e cassa integrazione, che raccoglieva sull’argomento, interviste, studi e ricerche. Roberto Cardaci autore di una delle ricerche scriveva: “ il cassintegrato non è un occupato (percepisce il salario, ma non produce, non è in fabbrica), non è disoccupato, continua a dipendere dalla Fiat. Questa dipendenza è confermata dalle continue convocazioni […] si tratta di offerte di denaro per incentivare le dimissioni del cassintegrato. […] Il ritornello è sempre lo stesso: si offrono milioni (inizialmente circa sette ora a distanza di 4 anni, 12 o 15) ma anche molto meno purché il lavoratore vada via dalla fabbrica. Cambia la forma del dialogo: ogni cassintegrato, conosciuto perfettamente dall’azienda nel suo comportamento, riceve un trattamento diverso nel colloquio. Gli addetti alle pubbliche relazioni usano il registro della dolcezza o della durezza a seconda del temperamento dei cassintegrati. Ci sono stati alcuni casi di svenimenti da parte di cassintegrati ipersensibili o sofferenti di cuore, che non hanno potuto reggere ai toni provocatori usati”.[35]

   In quel periodo (tra il 1980 e il 1983) a Torino secondo le statistiche dell’epoca, ci furono circa 300 suicidi tra i cassaintegrati. La Fiat aveva messo in piedi uffici gestiti da gente senza scrupoli, istituiti appositamente per mortificare i lavoratori che venivano convocati con i telegrammi nelle ore più impensabili, persino di notte. Questi uffici erano situati in un’ex fabbrica di Orbassano in via Frejus, dove avveniva anche il pagamento della CIGS. L’interno sembrava un carcere con tanto di secondini e sbarre dappertutto. Sempre per rimanere in tema, la Fiat mise in piedi 5 “boite” denominate UPA fatte apposta per i cassaintegrati di un certo tipo: invalidi, delegati e operai sindacalizzati. Queste “belle fabbrichette” erano in posti fuori dai centri urbani di: Robassomero, Bruino, Orbassano, Airasca e dulcis in fundo un Capannone in via Biscaretti, all’interno di Mirafiori, dove la FIAT aveva collocato il maggior numero di operai con grossissimi handicap. Lo stillicidio continuò e molti altri operai si licenziarono.[36]

   E non è finita, poiché di cassintegrazione ci si può ammalare. E come si diceva prima esiste una correlazione tra cassintegrazione e servizi di “salute mentale”. Dall’ottobre 2002 al 2005 il 60% degli 11mila dipendenti dello stabilimento di Mirafiori è finito in cassa integrazione: 6.500-7.000 addetti lasciati a casa, almeno una volta. Per una settimana o molti mesi consecutivi, anche 10 o 11. Gli esuberi ufficiali sono 2.500, i licenziati sono stati 551. Si  ha  così che operai, impiegati sono relegati, loro malgrado, tra le mura domestiche. Se va bene, a dedicano figli e hobby trascurati per anni; se va male, a scacciare vergogna e frustrazione per reinventarsi certezze e status che prima la fabbrica garantiva. Né lavoratori né pensionati. Solo “ex”.

Una situazione durissima, e non solo per questioni economiche, capace di spegnere la voglia di vivere e incrinare ogni progetto. Le cronache non di rado raccontano di suicidi o tentati suicidi: gesti estremi, che urlano un malessere immenso. Un tormento che non racconti. «Faccio il casalingo»: vorrebbe riderne, o almeno sorriderne. Non ci riesce. Era convinto che all’alba dei 60 avrebbe raccolto i frutti di una dedizione trentennale alla “sua” Fiat, e invece per lui sembra profilarsi solo un’ingloriosa (ancora una volta suo malgrado) uscita di scena.

   Si può supporre che precarietà, incertezza del futuro, mancanza di occupazione e di alternative sociali creino disagio, tanto più in zone come la cintura torinese dove il lavoro è sempre stato un forte caposaldo – analizza il prof. Pier Maria Furlan, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl 5 e ordinario di Psichiatria all’Università di Torino -, ma mancano indagini epidemiologiche che lo confermino”, trasformando in scienza ipotesi di buon senso. “Ma ci stiamo muovendo in questa direzione anche per sapere come indirizzare le risorse a disposizione”.

   Fin da ora, una sola certezza: «Siamo sommersi di richieste, con liste d’attesa “vertiginose”. Aumentano le patologie di tipo reattivo, che spesso nascono da forti disagi sociali e dalla difficoltà a mantenere la propria immagine».

   Da Pinerolo, il direttore del Dipartimento di psichiatria Angelo Grillo, riflette: ”Nelle patologie psichiatriche classiche si sono aggiunte quelle di tipo disadattativo e di relazione, dovute all’andamento della società nel suo complesso e in particolare all’acquisizione o al mantenimento del proprio ruolo sociale”.

   Crescono ansia, insicurezza, inquietudine, depressione, aggressività ed autoaggressività, ed anche ai medici è richiesto di “cambiare”. Siro Barboni, per anni al S. Luigi ed oggi nell’équipe di Grillo, e la collega Giuliana Porzio, aggiungono: “Il mandato fondamentale dello psichiatra, all’origine curare gli psicotici, si trasforma in un mandato deontologicamente diverso: sostenere i vuoti sociali”.[37]

   In precedenza, il fenomeno dei suicidi sul posto di lavoro, riguardava il mondo agricolo, colpito dall’indebitamento, dall’isolamento e dall’esodo rurale. Contadini disperati si impiccavano nei granai o si gettavano sotto una delle loro macchine agricole.

   Per mettere fine ai propri giorni, la scelta del luogo di lavoro è assai significativa: il posto assume un valore simbolico, come se l’ultimo messaggio di chi decide di farla finita fosse rivolto direttamente a datori di lavoro e colleghi. Spiega Christophe Dejours “Questi suicidi sono legati al venir meno nel mondo del lavoro della solidarietà e dell’aiuto reciproco.[38] Per questo esperto del mondo di patologie del lavoro, a essere chiamati direttamente in causa sono i mutamenti del mondo aziendale. Il tessuto sociale delle organizzazioni “tende a partire a opera di un management sempre più aggressivo”. La sofferenza, le angherie, esistono da sempre. La novità è la solitudine in cui si trovano i lavoratori nel momento in cui devono affrontare l’arbitrio e l’avvilimento che ne deriva. L’assenza di dialogo, le continue ristrutturazioni delle società, lo  stress, la concorrenza fra lavoratori, l’emarginazione, il licenziamento e il mobbing sono fattori che almeno in parte spiegano questo passaggio all’atto disperato. Quando l’organizzazione del lavoro è ridotta a una divisione di compiti, e si è convinti che i compiti svolti possono in ogni istante essere sottoposti a valutazione, obiettiva e razionale, si dimentica che la realtà è molto più complessa e che, nello spazio del reale, le cose non vanno quasi previsto. La competizione scompagina qualsiasi di solidarietà e relega l’individuo in una dimensione di diffidente solitudine.

A SCUOLA DI MANIPOLAZIONE

   Che si tratti dei manuali di management o della letteratura dedicata all’autostima, alla realizzazione personale, ecc., l’attitudine maggiormente valorizzata nell’ambiente dei manager sembra essere la capacità di imporsi sugli altri. Tutto ciò grazie a una ridicola  forma di sicurezza che rasenta l’arroganza.  La certezza di aver ragione è ciò che li contraddistingue. Tuttavia, è il messaggio principale delle nostre gioiose bibbie manageriali, che le ricette per aiutare gli individui a rafforzare il loro ascendente sugli altri. Benché formulate in maniera complessa,  le regole per sopravvivere e affermarsi nel mondo contemporaneo sono semplici: fiducia in se stessi, autostima, autostima, controllo delle emozioni, padronanza del linguaggio. Per riuscire a essere convincenti, è necessario “selezionare” un pensiero in grado di “agganciare” e “coinvolgere” gli altri; bisogna usare un linguaggio in grado di stupire, adeguarsi, accelerare o rallentare il ritmo a secondo delle reazioni suscitate, senza tuttavia perdere di vista il filo conduttore del discorso, o gli altri obiettivi in gioco. Per essere capaci di negoziare è opportuno individuare il più fretta possibile gli elementi in causa e creare le condizioni più appropriate per giungere a un risultato.

   Il principio che governa questa visione dell’essere umano non è certamente nuovo. Basti pensare ai puritani[39] ai giansenisti[40] del XVI e del XVII secolo. Per i puritani, ogni individuo cerca di soddisfare i propri desideri attraverso astuzie e lusinghe. Contrariamente al credo dei cattolici, secondo i puritani non esistono autentici atti virtuosi. Sono convinti che, per dominare gli altri, non vi sia mezzo migliore che assoggettarne l’amor proprio, fingendo di onorarlo.

   Per i giansenisti ogni persona è interamente responsabile di quello che gli accade e che ognuno possiede in sé le risorse per cambiare lo stato delle cose. E guarda caso uno dei nuovi slogan del management è “Sta voi riconoscere che siete gli unici responsabili della vita che avete scelto e sta a voi riconoscere che siete gli unici responsabili della vita che avete scelto”. Anche se non tutti i precetti degli altri guru del management risultano così perentori, l’idea di fondo è la stessa: non bisogna cambiare il mondo, dovete cambiare voi! Come se fossimo in grado di controllare ogni caso, non solo le nostre reazioni ed emozioni, ma anche le reazioni emotive degli altri, per non parlare dell’ambiente (familiare, professionale, politico) entro  il quale ognuno di noi si trova a evolvere.

   Con posizioni così, la negazione del principio di realtà giunge al limite estremo, con tutto ciò che ne consegue: senso di colpa e disagio per alcuni; delirio di onnipotenza e tendenze manipolatrici per altri. Gli individui si troveranno di fronte a una doppia ingiunzione, da un lato, sono esortati ad avere fiducia, in loro stessi, e a non lascarsi influenzare dagli altri, dall’altro, si ritrovano sistematicamente sottoposti al giudizio di una società che non sopporta la fragilità, che costantemente li valuta sulla base del successo ottenuto, e che promuove il successo ottenuto e che costantemente li valuta sulla base del successo ottenuto, e che promuove il successo come unico criterio di valore. Questa sorta di accozzaglia intellettuale propone come modello umano un individuo ideale, sottratto a ogni forma di dipendenza: non ha più bisogno degli altri, non li cerca più. Per questo motivo, è necessario non dare mai la sensazione di essere dipendente da qualcuno o da qualcosa: la dipendenza è il segno dell’incapacità di essere padroni di sé. Viceversa, mostrarsi, mostrandosi padroni di stessi, l’individuo giunge a credere che tutto sia possibile. Non è del tutto privo di sogni. Ma i suoi sogni non riguardano più i sentimenti, l’amicizia, l’amore. L’individuo è convinto che tutte le sue emozioni interpersonali siano relazioni fittizie, artificiali. I suoi sogni, sono concentrati solo su sé. È convinto che se gli altri non hanno una buona opinione di lui, significa che c’è qualcosa nella sua testa che non va, che deve “diventare un altro”, diventare, insomma, una persona che sia capace di imporre il suo stile e il suo volere.

   Da qui lo strepitoso successo degli “esperti di immagine “che esortano a “cambiare look” per “cambiare vita”. E così accade che lo “stile” e le “idee” che crediamo di imporre agli altri siano in realtà ogni volta la conseguenza delle suggestioni imposte dagli esperti d’immagine. Pensiamo per esempio al proliferare di trasmissioni che invitano a cambiare look. Il concept (che sta per descrizione sintetica di un nuovo prodotto, progetto di comunicazione, campagna pubblicitaria) è molto semplice: “Grazie all’aiuto di esperti di moda e di bellezza, alcune persone hanno accettato di cambiare il loro look, per iniziare una nuova vita”.  Gli spettatori, vengono invitati a partecipare al programma attraverso una sorta di “appello a testimoniare”.

   La gestione della comunicazione diventa un elemento essenzialmente cruciale. La regola aurea del successo consento consiste nel comprendere che una coma comunicazione controllata è la condizione indispensabile per gestire le tensioni che ci circondano. Donde il crescente successo di quella che viene oggi definita la “programmazione neurolinguistica” (PNL). Questa tecnica di controllo della comunicazione propone alle perso tutta una serie di consigli che consentono di cambiare atteggiamento e di creare nuove forme di “spontaneità” adatte alle differenti circostante delle vita. Originaria degli Stati Uniti, la PNL viene presentata come una tecnica in grado di indurre rapidamente i cambiamenti che consentiranno a ciascuno di raggiungere la felicità. I suoi “inventori”, Richard Bandler[41]  e John Grinder[42] sono convinti che tutti coloro che hanno successo nella vita condividano i medesimi atteggiamenti e la medesima gestualità. Da qui l’idea per che per avere successo sia sufficiente riuscire a riprodurre queste attitudini. Per questo motivo la PNL tende a “riprogrammare” il cervello, allo scopo di aggiungere nuovo potenziale. Come suggerisce il nome la programmazione neuro-linguistica può riuscirci grazie alla sua azione sulle capacità comunicative. Nello specifico il suo scopo è quello di identificare i comportamenti e i riflessi inopportuni e quindi sostituirli con atteggiamenti e reazioni più positive. Il principio, dunque, è semplice la PNL propone innanzitutto individuare il sistema relazionare di un individuo in particolare in occasione delle sue esperienze di fallimento, in una seconda fase, prevede di migliorare nel soggetto la prescrizione delle situazioni, e infine intervenire nella programmazione di attitudini differenti.

   Nonostante la reazione del mondo scientifico, che definisce la PNL, come una “pseudo-scienza” questo dispositivo per il successo sembra perfettamente collaudato. Bandler e Grinder avevano già diffuso il loro metodo con le unghie e con i denti. Essi hanno sempre affermato di non essere né degli psicologi, né dei teologi, né tantomeno dei teorici, ma che lo scopo che si proponevano era quello di dare una risorsa pratica. Ciò che realmente conta, per loro, è riuscire a mettere in moto un mutamento nei comportamenti.

   Certo la manipolazione esiste da sempre. Uno dei primi scritti che si riferisce all’uso dell’occultismo può essere trovato nel Libro dei Morti egiziano. Si tratta di una raccolta di rituali, molto studiato nelle società segrete dove si descrive i metodi di tortura e di intimidazione (per creare un trauma), l’uso di porzioni (farmaci)  e il “lancio” di incantesimi (ipnotismo) che si traduceva nel totale asservimento dell’iniziato.

   Diceva Platone, esistono due generi di discorso: i discorsi che cercano di procedere lungo il cammino della conoscenza e quelli che mirano a ottenere benefici che esulano nell’ordine del discorso e che sono competenza della sofistica, una tecnica linguista intrisa di menzogna e manipolazione. Ma i classici sapevano distinguere tra il discorso e quello di un sofista. Usare argomenti fallaci per rendere le proprie posizioni indiscutibili era considerata pratica deplorevole. Aristotele, ancor più di Platone, analizzerà e sottoporrà a severa critica, nelle Confutazioni sofistiche, la falsa argomentazione implicita nel metodo sofistico, proporrà ed esaminerà i paralogismi più diversi, consegnerà ai lettori i mezzi per confutare gli argomenti.

   Ora, partendo dal fatto che la scienza non è neutra. Che scienze, tecnologie e metodiche empiriche[43] a cavallo della ultima guerra mondiale e sino ad oggi

   La ricerca di impresa e la ricerca militare, a scopi di profitto e per l’uso di dominio sono stati i due preponderanti motivi, e storicamente determinati.

   Qui in Italia non ci è accorti a sufficienza del ruolo moderno e l’uso ai fini del controllo sociale, di dominio e repressione della psichiatria, l’uso sistemico delle conoscenze piscologiche che sono usate come una forma capillare, e diffusa di infiltrazione, pressione e controllo nelle vite individuali più “attenzionate”, a fini distruttivi anziché di salute psichiche e sostegno.

QUALI PROSPETTIVE ?

   Questo malessere dei lavoratori come abbiamo visto nasce dall’organizzazione capitalista del lavoro che rende inevitabili gli infortuni sul lavoro (spesso mortali) e le malattie.

   Non si tratta della cattiva volontà del singolo capitalista nell’applicare le misure di sicurezza o che sia affetto da qualche forma di sadismo, oppure della negligenza di qualche lavoratore, al quale si attribuiscono particolari problemi “psichici”. Quest’ultima potrebbe apparire una battuta ma non lo è. In un momento in cui la crisi economica del capitalismo causa (e continuerà a causare) un continuo e costante peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato e delle masse popolari, dove i motivi per lottare certamente non mancano, la psichiatria ci viene a dire che prendendo certe pastiglie vedremo “meglio” il mondo che ci circonda e smetteremo di soffrire. Magari certi psichiatri si possono inventare una nuova malattia, molto diffusa tra i lavoratori come la “stanchitudine”. Molti lavoratori risultano stanchi, qual è la causa: troppo lavoro? Assolutamente no, per carità. E per questa nuova malattia, la stanchitudine gli psichiatri hanno trovato la cura, che è ovviamente un farmaco: la stancocaina (un derivato della cocaina) è così il lavoratore comincia a sentirsi “meglio”. 

   Perciò anche questo malessere dei lavoratori che porta a uso di psicofarmaci da parte dei lavoratori, gli stress determinati dal mobbing (che alla fine costringe il lavoratore a licenziarsi),[44] sono dovuti alla fine alla legge immanente della produzione capitalistica, dato che tutto quello che si è descritto prima è in rapporto alla redditività dell’impresa, vale a dire all’aumento del saggio di profitto il quale costituisce la vera molla della produzione capitalistica. Da questa legge nessun capitalista, sia esso Montezemolo o il piccolo negriero schiacciato dalla feroce concorrenza imposta dal mercato capitalistico, può svincolarsi. Questo va detto non tanto per assolvere questi criminali che sono alla fine gli stessi che fanno morire i proletari come mosche nei cantieri, nelle fabbriche o sulle strade, ma per condannare in blocco la produzione capitalistica che li genera in continuazione, costituendo essa stessa “una distruttrice non solo di carne e di sangue, ma anche di nervi e di cervelli”. [45]

   L’esperienza dimostra che la difesa delle condizioni di salute (compresa quella psicologica) dei lavoratori non scaturisce semplicemente dai progressi della scienza, dall’entrata in vigore di nuove leggi (che oggi suonano come vera e propria beffa per gli operai) o dall’azione che possono fare le A.S.L. per fare rispettare le normative, ma soprattutto dai rapporti di forza tra le classi. Dunque, dalla lotta degli operai e degli altri lavoratori salariati che hanno interessi diversi e contrapposti a quelli capitalisti.

   Se analizziamo l’andamento degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali si può riscontrare come negli anni in cui il movimento operaio era all’offensiva sono diminuiti anche gli infortuni e le malattie professionali. Nel periodo che comincia tra la fine degli anni ’60 nelle grandi fabbriche, sull’onda delle lotte politiche e sindacali si manifesta come fenomeno di massa, una nuova consapevolezza del rapporto lavoro-profitto-malattia e si forma tra i lavoratori una visione autonoma delle relazioni fra scienza, produzione e ambiente. Si stamparono soprattutto nelle grandi fabbriche migliaia di volantini, centinaia di libretti, opuscoli che furono letti e discusse in assemblee generali. Non solo ma i lavoratori raccolgono i dati, dell’ecatombe di “omicidi bianchi”, fanno inchieste di vere e proprie stragi che succedono all’interno degli ambienti di lavoro. Tra il ’68 e il ‘69, le lotte operaie, che avvengono spesso al di fuori delle strutture e della linea ufficiale dei sindacati, puntano direttamente all’organizzazione del lavoro, alle condizioni in fabbrica per estendersi a lotte generali che investono la condizione operaia al di fuori dell’ambito lavorativo. In questo periodo di lavoratori mettono in discussione quello che era la prassi fin d’ora: quella della mitizzazione della salute e la delega ai tecnici e lottano in prima persona per il controllo delle condizioni di lavoro e delle norme di sicurezza. La salute, è come rivendicata (come il salario) una variabile indipendente, ossia sganciata dalla produttività aziendale.

   Dalla metà degli anni ’70 con l’avvio della crisi generale del capitalismo, con la linea dell’EUR di accettazione da parte del sindacato delle compatibilità con conseguente svendita dei diritti e delle conquiste dei lavoratori, le ristrutturazioni e le conseguenti esternalizzazioni, i ritmi di lavoro accelerati, hanno determinato un inevitabile calo di tensione sui problemi legati alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Con conseguente e consistente incremento degli infortuni e della malattie professionali.

   Per certi versi sembra essere tornati al vecchio periodo quello dell’accumulazione primaria.

   Questo periodo che va dall’inizio della rivoluzione industriale al secondo dopoguerra, era caratterizzato dal fatto dell’accettazione da parte della classe operaia delle condizioni di lavoro in cui la salute non veniva salvaguardata.

   Infatti, i pescecani capitalisti, che hanno sempre cercato di eludere la legislazione in materia (contando sull’appoggio della magistratura), cercano di contrapporre e barattare il posto di lavoro con condizioni di salute e sicurezza. Per avere le mani sempre più libere vorrebbero eliminare del tutto la contrattazione e i diritti dei lavoratori.

   I lavoratori ricattati e svenduti da organizzazioni sindacali che sono subalterne alle logiche padronali, sono costretti a subire di tutto mantenere il posto di lavoro con un misero salario.

   E non si deve dimenticare che in una situazione dove, nel Servizio Sanitario Nazionale, prevalgono i criteri aziendalistici di pareggio del bilancio sul diritto alla salute, la prevenzione, compresa quella sui luoghi di lavoro. La controriforma sanitaria voluta da tutti i governi borghesi in quest’ultimo periodo (al di là della coloritura politica di destra o di sinistra) ha infatti aperto la strada alla privatizzazione della sanità, subordinandola al mercato, facendo diventare la salute una merce e la malattia un affare.

   Dunque, i lavoratori non soltanto sfruttati, mutilati, ed uccisi dai singoli padroni, ma da tutta la classe borghese e dal suo Stato che hanno il medesimo interesse ad elevare il grado di sfruttamento dei proletari.

   Quindi senza l’azione diretta degli operai, senza una forte mobilitazione del movimento dei lavoratori, non solo l’insieme delle normative in materia di sicurezza sul lavoro e di prevenzione della salute (compresa quella psicologica) dei lavoratori rimarrà lettera morta, oppure servirà solo ad abbellire la facciata dell’impresa capitalistica.


[1] OSL sta per Organizzazione Scientifica del Lavoro.

[2] La reazione dura da parte dei sindacati americani nasceva dal fatto che essi erano strutturati sulla base del mestiere.

[3] Il caso Sacco e Vanzetti va inquadrato in questa situazione di forte repressione del movimento operaio.

 3 La storiografia operaistica degli anni ’60-‘70 ne ha trascurato il ruolo rivoluzionario, d’avanguardia che ebbe per tutta una fase (quella della sussunzione formale del lavoro nel capitale) rispetto agli altri operai (basti ricordare il ruolo degli operai professionali in tutto il movimento dei Consigli in Europa e in Russia nel periodo 1917-1921), per vedere il lato conservatore (diventato predominante solo nella fase successiva della sussunzione reale del lavoro nel capitale con conseguente affermazione di quello che fu definito operaio-massa). Molti di questi storici evidentemente non hanno mai sentito parlare di aristocrazia operaia. Marx, analizzando le caratteristiche del lavoro in fabbrica, metteva in luce le differenze tra gli operai che provenivano dalla divisione tecnica del lavoro: “Sostanzialmente la distinzione è quella tra gli operai che lavorano effettivamente alle macchine utensili (e ai quali si uniscono alcuni operai adibiti alla sorveglianza, chi all’alimentazione della macchina motrice) e i semplici manovali tutti i “feeders” (il cui compito è solo quello di dare il materiale alle macchine). Accanto a queste classi principali vi è un personale, trascurabile per numero, che è adibito alla sorveglianza generale delle macchine e alla loro continua riparazione, quali per esempio gli ingegneri, i meccanici, i falegnami, ecc. Essi formano una classe operaia superiore, in parte dotata d’istruzione scientifica, in parte inquadrata in uno schema artigiano, al di fuori della cerchia degli operai di fabbrica, cui sono aggregati” (Il Capitale, Libro I). Tutti assieme producono plusvalore, ma non tutti sono sottoposti alla massiccia estorsione di plusvalore relativo; quando si tratta di fare i sacrifici qualcuno, proprio per le mansioni che si trova a svolgere, potrebbe aumentare considerevolmente la propria posizione di privilegio. Lenin rivela come il tradimento della II Internazionale abbia come base economica nell’imperialismo che trasforma questo strato di operai in aristocrazia operaia “in veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio”.

[5] I motivi sono diversi, senza dubbio l’egemonia riformista nel movimento operaio è una causa, un’altra è che la resistenza si espresse in una difesa del mestiere che per quanto giusta e comprensibile su un piano sindacale tradizionale, fu in definitiva perdente su di un piano politico più generale.

[6]  H. Habermann, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, 1978, p. 145

[7] Eufemismo per dire sindacato giallo.

[8] Taiichi Ohno (1912-1990). Ingegnere giapponese specializzato in meccanica, è considerato il padre del toyotismo.

[9] Tranne che in Cina, quando nel 2006 è stata costretta a riconoscere una rappresentanza ufficiale. Cfr. A. Chan, Organizing Wal-Mart: The Chinese Trade Union at a Crossroad, Japan Focus, September 2006.

[10] Ritholtz, US Workers feel burn of long hours less leisure.

[11]  Galinsky, Kim, Bond, Feeling overwoked: when work hecomes too much..

[12] S. Kirchheimer, Workhaoline the respectable addicton, Web Md, August 2004.

[13] M. Bovenza, Sindrome da vibrazioni mano-braccio: proposta di classificazione dei disturbi neurologici e vascolari periferici, Medicina e Lavoro, 78 1987.

[14] Per non parlare del rischio licenziamento o della precarietà diffusa, che in un momento di accentuazione della crisi come quello attuale, diventa un fenomeno che investe la quotidianità della maggioranza dei lavoratori.

[15] . Una delle principali rivendicazioni degli operai di Origgio, fu la rimozione di alcuni capireparto che li offendevano con frasi razziste, in sostanza prima ancora delle rivendicazioni economiche c’era una rivendicazione di dignità.

[16] . A. Smith, La ricchezza delle nazioni.

[17] Voglio precisare che questo non ha niente a che fare con certe tesi che erano di moda negli anni ’70, che vedevano lo sviluppo capitale determinato dalle lotte operaie. Tesi che ritengo unilaterali, perché dal mio punto di vista, questa resistenza della classe operaia, a livello fenomenico e soggettivo, è la manifestazione di una contraddizione intrinseca e oggettiva, quella tra rapporti di produzione e forze produttive. Non bisogna dimenticare che “di tutte le forze produttive, la forza produttiva fondamentale è la classe rivoluzionaria stessa” come scriveva Marx in Miseria della filosofia, non solo perché è l’unica forza produttiva che aggiunge valore al capitale, crea plusvalore, ma anche perché essa si distingue dalle altre forze produttive in quanto alla distruzione che la minaccia (crisi, guerre) reagisce con la ribellione. Le tesi che tendono a presentare la tecnica e il capitale fisso come l’elemento fondamentale delle forze produttive sono solo una caricatura della concezione materialistica della storia. Una visione dialettica della contraddizione forze produttive/rapporti di produzione evita di assolutizzare un aspetto (per esempio lo sviluppo della fabbrica automatica dove la macchina si contrappone all’operaio come capitale, come lavoro morto che domina e succhia lavoro vivo) nei confronti dell’altro aspetto (la fabbrica automatica come sviluppo delle forze produttive e quindi approfondimento della contraddizione).

[18] In sostanza questa contraddizione è parte della contraddizione più generale, in altre parole, della contraddizione tra il carattere sociale delle forze produttive cresciute nell’ambito della società borghese e la proprietà individuale di esse (l’appropriazione individuale). Nel corso dell’enorme sviluppo delle forze produttive realizzato nell’ambito del mondo di produzione capitalista, esse hanno assunto sempre un carattere sociale. Questo è diventato prioritario e determinante, mentre il loro carattere individuale è stato reso di gran lunga secondario (in molti casi addirittura trascurabile). Il carattere sociale delle forze produttive nel processo lavorativo diretto è determinato dal fatto che le capacità dei singoli individui sono state: unite nella cooperazione, combinate tra loro nella divisione del lavoro, potenziate dall’impiego sistematico delle forze naturali e della scienza nella produzione, in quasi tutti i campi sono state potenziate o sostituite dall’impiego massiccio di apparecchiature, strutture e macchinario, trasformate nel loro contenute facendole diventare specifici ingredienti del sistema produttivo sociale e rendendole inadeguate alla produzione diretta e indipendente dei mezzi di sussistenza e d’uso del lavoratore diretto. Questo vuol dire che oramai i beni d’uso individuale non possono essere il prodotto del lavoro individuale. La vita dell’uomo moderno poggia su beni dei quali nessuno può essere prodotto individualmente. Ma l’aspetto più importante del carattere sociale assunto dalle forze produttive è che il capitalismo diventa storicamente superato, superfluo. Il rapporto di capitale cessa di essere l’ambito più favorevole dello sviluppo delle forze produttive.

[19] Metto tra virgolette “nuovo scenario” e “grande incertezza” perché non ritengo che il capitalismo abbia mai potuto dare delle certezze e garanzie ai lavoratori. Quelle che McCarthy definisce certezze e garanzie, sono in realtà un frutto delle dure lotte del movimento operaio.

[20] Manco fosse un embrione di controllo operaio. Bisogna partire dalla natura non solo illusionista ma riformista di chi va proporre forme di controllo operaio o forme di autogestione di aziende nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti. Credere di realizzare “forme si società alternativa” finché perdura il potere borghese, significa lanciare delle illusioni ai lavoratori che li condurrà alla fine (se avessero un peso queste teorie) a delle sconfitte. Tutta la teorizzazione negli anni ’70 sulla “conflittualità permanente” o sui “contropoteri diffusi” cosa ha prodotto alla fine se non l’illusione in settori di avanguardie di lotta che certe situazioni di rapporti di forza a livello aziendale/territoriale avrebbero potuto durare se non all’infinito almeno a lungo, trascurando i rapporti di forza che ci sono nella società?

[21] Ovviamente diviene un fatto positivo se si rimuove la domanda, quest’aumento della produttività a che cosa sarà finalizzato; diminuire il lavoro (con la relativa fatica) o aumentare lo sfruttamento (con relativi licenziamenti).

[22] Le aziende spendono cifre per la comunicazione, per creare una propria immagine che sia allettante. In questo contesto vogliono vedere i propri dipendenti gentili, possibilmente belli e disponibili.

[23] Una struttura con le “gerarchie piatte”, dove i dipendenti hanno tutti la stessa qualifica, semplifica i passaggi burocratici, elimina i dirigenti intermedi in eccesso. In passato l’esistenza di gerarchie precise faceva convergere lo scontento dei lavoratori contro i dirigenti, che per resistere alle pressioni provenienti dall’alto, creavano delle reti di solidarietà fra i subordinati. Ora invece con la gerarchia piatta questa solidarietà s’indebolisce e aumenta invece i conflitti, la competizione e appunto il mobbing fra i colleghi.

[24] Come dire c’è una terza via in economia tra statalismo e capitalismo privatistico.

[25] Metto tra virgolette, è non senso come lo “Stato sociale”. Pretendere che imprese che lavorano dentro un mercato capitalistico abbia finalità sociali, è l’equivalente di pretendere che lo Stato borghese che ha come compito primario il difendere e creare le condizioni favorevoli del riprodursi dei rapporti di produzione capitalisti, possa avere finalità sociali.

[26] Testimonianza tratta dal libro di A. Casili, Stop mobbing resistere alla violenza psicologica sul luogo di lavoro, Derive Approdi.

[27] La Tribune, 21 febbraio 2007.

[28] La stampa ha adottato un atteggiamento molto discreto a volte persino silenzioso.

[29] Sempre nel 2007. Tre addetti della Centrale nucleare Di Chinon si sono tolti la vita . il 15 gennaio 2008 si suicida il responsabile per la sicurezza di La Poste di Charent-Marittime, lasciando una lettera in cui scrive “Il mio suicidio è interamente dovuto a La Poste”.

[30] Il 12 marzo 2008, in occasione della consegna di un rapporto sulla determinazione, la misura e le conseguenze dei rischi psico-sociali (Philippe Nasse e Patrick L’égeron, Rapport sur la détermination, la mesure et le suivi des risques psychosociaux au travail, il ministro del Lavoro francese, Xavier Bertrand, ha annunciato un censimento sui suicidi sul lavoro.       

[31] M. Gourmay, F. Lanièce e J. Krvverenac, étude de suicides liés du travail en Basse-Normandie. Rintracciabile nel sito www.federatonsantetravail.org/pubblications/m28SuicideTravail.html  

[32]  Era il numero degli operai messi in cassaintegrazione dalla FIAT.

[33]  In Lavoro e non lavoro a cura della Fim-Cisl, atti del convegno del 25 ottobre 1984, p.35

[34] Il Manifesto, 19 aprile 1984

[35] Psichiatria/informazione, N° 3 1984, p. 59

[36] https://illavorodebilita.wordpress.com/2013/02/16/cassaintegrati-da-morire/

[37] http://www.alpcub.com/fiat_tnt.htm

[38] Christophe Dejours, Le suicide est l’aboutissement d’un processus de délitement du tissu social, in Le Monde, 21 luglio 2007.

[39] Si tratta dei seguaci del Movimento religioso sorto nel sec. XVI in seno al protestantesimo, che predicava la stretta osservanza delle Sacre Scritture e una condotta di vita austera e castigata.

[40] Movimento teologico, religioso e politico. Il g. prende nome da Giansenio (forma italianizzata del nome di Cornelius Otto Jansen, 1585-1638), teologo olandese, il cui trattato Augustinus, uscito postumo, fu condannato con un decreto dell’Inquisizione nel 1641, quindi da Urbano VIII (1642) e da Innocenzo X, la cui bolla Cum occasione (1653) condannava come ereticali le sue posizioni sulla grazia e sul libero arbitrio, sul peccato universale e sulla redenzione.

   Giansenio estremizzava l’idea di Agostino secondo cui l’uomo, dopo il peccato originale, non è più in grado di volere o compiere il bene con le sole sue forze. La venuta di Cristo avrebbe dato all’uomo la possibilità di salvarsi, ma solo in quanto, dopo di essa, Dio concede la grazia, senza la quale l’uomo non sarebbe in grado di avere neppure il movimento iniziale verso il bene. All’uomo peccatore Dio non è tenuto, in giustizia, a concedere la grazia: questa è data soltanto a coloro che Dio, nella sua volontà imperscrutabile, ha predestinato, indipendentemente e prima di ogni previsione dei meriti. Tale predestinazione non è concessa neppure a tutti i battezzati, ma soltanto a coloro che Dio ha scelto particolarmente. Senza la grazia, l’uomo non può volere e fare altro che male; con essa, invece, non può volere e fare altro che bene. Questo forte accento sulla predestinazione ha fatto accostare il g. al calvinismo. Altri aspetti importanti del g. sono il rigorismo morale, l’episcopalismo e l’importanza fondamentale attribuita alla Bibbia e agli scritti dei Padri della Chiesa

[41] Richard Wayne Bandler (1950-…) è uno psicologo, saggista, linguista, counselor e life coach statunitense. È stato il cofondatore negli anni Settanta – insieme a John Grinder – della Programmazione neuro linguistica

[42] John Grinder (1940-…)  è un linguista, filosofo, life coaching (o affiancamento e guida) statunitense.

[43] I metodi empirici (come suggerisce lo stesso termine) si basano sull’esperienza, ovvero sull’osservazione diretta del fenomeno, o meglio, del comportamento.

[44] Senza dimenticare i guasti a livello psicologico, affettivo e nella vita familiare. Questi guasti il lavoratore se li trascinerà anche dopo che si è licenziato dall’azienda.

[45] K. Marx, Il Capitale.

~ di marcos61 su gennaio 21, 2021.

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