L’OLIO DI SCISTO
La pandemia che sconvolge il mondo da un capo all’altro del pianeta è uno dei risultati dell’unificazione del mondo (la celebrata globalizzazione, la libertà di circolazione dei capitali e di iniziativa dei capitalisti) operata dai vari gruppi imperialisti costretti dalla sovraproduzione assoluta di capitale. Risultato dell’opera dei vari gruppi imperialisti sono anche il disastro ecologico, il dissesto ambientale, la fame di cibo di vaste masse di popolazione (soprattutto in quello che viene definito Terzo Mondo) di fronte al cibo che viene buttato nelle discariche, la distruzione dell’agricoltura nei paesi imperialisti e la distruzione delle foreste vergini per produrvi quello che gli agricoltori non riescono più a vendere, la delocalizzazione delle industrie che genera disoccupazione e precarietà nei paesi imperialisti, l’uso della scienza per imprese di ogni genere e per produrre oggetti di ogni specie, spesso inutili se non dannosi, ma non per liberare gli uomini dal bisogno, dalla fatica, dalle malattie e dalla sofferenza, le aggressioni militari e le guerre commerciali e finanziarie che si moltiplicano nel mondo. La privatizzazione dei sistemi sanitari, della ricerca scientifica, della produzione di medicine e apparecchiature sanitarie, il numero chiuso nelle università, l’abbrutimento del sistema scolastico e dell’istruzione, la privatizzazione della scuola pubblica completano e aggravano l’opera. Ne vediamo i risultati.
Ovviamente la crisi pandemica non poteva non incidere nel settore del petrolio, che è stato un asse fondamentale dello sviluppo economico del secondo dopoguerra e di tutti i relativi problemi che ne conseguono (petrolio + auto = guerra). Teniamo conto che l’industria dell’auto trae il suo principale plusvalore e molte delle sue materie prime che usa dal Tricontinente. La Corea del Sud, il Brasile, l’Argentina, il Sudafrica, l’India e molti paesi del Tricontinente producono e/o assemblano automobili per la FCA (ex FIAT), per la Leyland, la General Motors e la Ford.
Vediamo l’evoluzione del prezzo del petrolio.
Il prezzo del petrolio aveva avuto una storia relativamente tranquilla dalla seconda metà del XIX secolo fino ai primi metà degli anni ’70 del secolo scorso, quando i 6 paesi dell’OPEC fecero raddoppiare il prezzo del petrolio, portandolo a superare i 10 dollari a barile. L’aumento del costo del petrolio significava da un lato, una fetta più grossa per gli “sceicchi” (ovvero la casta semifeudale dominante nei paesi arabi, per lo più legata all’imperialismo USA) e dall’altra costi di produzione maggiore per gli europei e i giapponesi, più dipendenti dalle importazioni petrolifere che non gli USA (le cui merci guadagnarono, di fatto, competitività sul mercato mondiale). Dall’altro lato, la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere attuata da alcuni paesi arabi (quali la Libia e l’Algeria) e l’embargo selettivo sull’export di petrolio attuato verso gli USA e i paesi europei sostenitori di Israele, le borghesia arabe iniziarono a scrollarsi di dosso, il sistema di saccheggio impostogli dall’imperialismo. Si manifestava così, pure a questo livello, la forza del moto rivoluzionario d’Asia, e d’Africa che la rivoluzione iraniana del 1979 ravvivò.[1]
L’aumento del prezzo del petrolio (quintuplicato in due anni, poi raddoppiato nei successivi 8-9 anni) concorse con il ciclo mondiale delle lotte operaie del periodo 1968-72 ad accrescere i costi di produzione dei capitalisti europei e giapponesi proprio nel momento in cui finiva il trentennio di sviluppo e aumentava di più il bisogno del capitale ad abbassare i costi di produzione.
Nei 25 anni successivi al 1973, prese corpo la controffensiva dei paesi imperialisti tesa a ridurre la rendita petrolifera e il potere politico-economico dell’OPEC. Le conseguenze si sono viste: l’OPEC è stata in sostanza ridimensionata. L’Iraq è stato scagliato contro l’Iran. La Libia, il Sudan e la Siria sono stati continuamente sotto tiro. E infine nel 1991 arrivò la micidiale operazione contro l’Iraq.
La prima guerra del Golfo servì all’imperialismo U.S.A. a riprendere sotto controllo il costo del petrolio. Ed è esattamente quel che è successo dopo la distruzione dell’Iraq se è vero che in “termini reali in dollari del 1973, il prezzo medio del greggio OPEC è risultato, nei primi mesi del 1998 a 3,81 dollari a barile, è cioè circa un terzo soltanto di quello che era il suo prezzo storico del 1982 (9,87 dollari a barile).[2] Se si considera che un barile e poco meno di 160 litri, questo vuol dire che il greggio, il primo motore dell’industria, dei trasporti e della vita urbana del mondo intero, viene attualmente a costare ai paesi imperialisti non più di 40/100 lire a litro.
Questa rapina è vitale per gli imperialisti americani (che sono i massimi consumatori mondiali di energia per usi industriali e domestici) perché consente loro, di conservare un livello di consumi interni altrimenti impossibile data la contrazione del potere d’acquisto dei salari. E. anche attraverso i proventi di questa rapina che i paesi imperialisti cercano di evitare la recessione, preservare la pace sociale.[3] e finanziare gli eserciti che devono terrorizzare le masse sfruttate delle “periferie” mondiali.
Un’altra causa della Guerra del Golfo è stata rappresentata dalla necessità dell’imperialismo U.S.A. di controllare manu-militare il Golfo per indirizzare il flusso dei petroldollari verso il mercato finanziario americano. Gli U.S.A. possono così sottrarre ai paesi europei e ai giapponesi una notevole quantità di capitali finanziari, riequilibrando temporaneamente la loro disastrosa situazione debitoria dei partner europei e giapponesi.
Con la crisi dei subprime, il prezzo precipitò (anche a causa della caduta del prezzo della domanda) per assestarsi sui 40 dollari nel biennio successivo. Con la ripresa alimentata dall’inondazione di liquidità di banche centrali (FED in testa), il prezzo tornò intorno ai 90 dollari nel 2011 e con oscillazioni per tutto il triennio successivo. Ma nel 2014 ricominciò a scendere e il trend proseguì nel 2015.
La Pandemia ha determinato il crollo del prezzo del petrolio,[4] che ha sperimentato il secondo down più intenso della storia (-80%) a marzo/aprile 2020. La comprensibile euforia per l’inizio dei programmi di vaccinazione spiega in parte il timido rialzo di novembre, ma passeranno diversi mesi prima di vedere un impatto incisivo sulla domanda di petrolio.[5] Tuttavia, già da un paio d’anni gli equilibri petroliferi mondiali sono profondamente mutati: nella seconda metà del periodo iniziato nel 2010, il boom del petrolio di scisto statunitense non solo ha trasformato gli Stati Uniti in uno dei maggiori esportatori di idrocarburi, ma ha anche portato a un eccesso di offerta di petrolio abbastanza stabile sul mercato globale.
L’olio di scisto[6] è un tipo di petrolio non convenzionale che si trova nelle formazioni di scisto che deve essere fratturato idraulicamente per estrarre l’idrocarburo. Gli usi primari includono olio da riscaldamento, carburante e la produzione di vari prodotti chimici. L’olio di scisto può, infatti, riferirsi a due tipi di petrolio: il petrolio greggio che si trova all’interno delle formazioni di scisto o il petrolio che viene estratto dallo scisto bituminoso. Di giacimenti di shale oil e shale gas se ne possono trovare in tutto il mondo. I Paesi con la maggior quantità di risorse di petrolio di scisto tecnicamente recuperabili sono Russia, Stati Uniti, Cina, Argentina e Libia. Negli Stati Uniti, le più grandi formazioni che forniscono petrolio di scisto si trovano nei bacini di Permian (Texas-New Mexico), Eagle Ford (Texas) e Bakken (Montana e North Dakota).
Questa fonte alternativa ha permesso negli scorsi anni la cosiddetta “shale revolution” che ha consentito agli Stati Uniti di aumentare in modo significativo la propria produzione di petrolio e gas naturale, in particolare da formazioni di tight oil, che ora rappresentano il 36% della produzione totale di greggio degli Stati Uniti. Questa nuova capacità produttiva ha ridotto la dipendenza degli Stati Uniti dalle importazioni di petrolio dall’estero e ha continuato a fornire un importante impulso economico mentre il Paese si riprendeva dalla recessione del 2008. Lo sviluppo delle formazioni di scisto è stato correlato a un aumento dell’occupazione, con l’industria petrolifera e del gas che ha aggiunto 169.000 posti di lavoro tra il 2010 e il 2012.
La shale revolution, successivamente allle primavere arabe ha permesso che le crisi politiche in Medio Oriente iniziassero a preoccupare sempre meno i consumatori di petrolio, mentre Washington ha iniziato a riconsiderare i suoi obblighi nei confronti dei suoi partner del Golfo. Ergo, è da questo momento in poi che è iniziato un certo disimpegno americano nell’area, nella quale gli Stati Uniti si sono astenuti da qualsiasi risposta importante all’attività dell’Iran, ad esempio, adducendo la ragione che un aumento delle truppe americane in loco non costituirebbe comunque una garanzia per le infrastrutture petrolifere locali. A questo clima di minore sicurezza, corrisposto ad un indebolimento della special relationship con Washington, si è poi aggiunto il timore della concorrenza da parte dei produttori di petrolio statunitensi alla ricerca di trarre vantaggio dalla situazione e aumentare la quota di mercato statunitense a spese dei Paesi del Golfo.
La pandemia, poi, ha fatto tutto il resto.
All’inizio di gennaio 2020, un attacco di droni statunitensi ha ucciso Qassem Suleimani, il comandante in capo del Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche iraniane, vicino Baghdad. L’operazione, oltre ad essere stata un messaggio chiaro a Teheran, una sorta di “no trespassing”, conteneva anche un sottotesto rivolto ai locali: gli Stati Uniti sono pronti ad intervenire a proteggere uomini e interessi americani ma non le infrastrutture petrolifere di nessuno dei suoi alleati. Ergo, un rinnovato approccio aggressivo degli Stati Uniti all’Iran non significherebbe necessariamente che gli Stati Uniti saranno pronti a proteggere i paesi del Golfo dalla rappresaglia di Rouhani.
Tutto questo è la dimostrazione che il petrolio è largamente uscito fuori dalle dinamiche tra Stati Uniti e Medio Oriente: i paesi arabi del Golfo si trovano oggi, dunque, in una posizione più vulnerabile. Questo spiega anche perché gli Emirati Arabi Uniti – alle prese con l’avvicinamento con Israele – si sono affrettati a condannare l’omicidio dello scienziato nucleare iraniano Moseh Fakhrizadeh, eliminato forse dal Mossad perché considerato alla guida del programma atomico clandestino dell’Iran.
All’inizio dell’estate, gli Houthi[7] (organizzazione vicina all’Iran) nello Yemen, hanno ripreso i loro attacchi alle infrastrutture in Arabia Saudita, stretto alleato di Abu Dhabi. In giugno e luglio, hanno usato missili e droni per attaccare installazioni militari a Riyadh e vari obiettivi nelle province meridionali di Jizan, Asir e Najran. A novembre sono stati effettuati almeno tre attacchi: agli impianti petroliferi nel porto saudita Read Sea di Jizan, un attacco missilistico contro un impianto di distribuzione di petrolio a Jeddah e due giorni dopo, un’autocisterna che trasportava carburante al porto di Shuqaiq è stata colpita da una mina.
Questi attacchi ai porti del Mar Rosso erano molto probabilmente tesi a dimostrare la capacità degli Houthi di colpire obiettivi lontano dai territori che controllano. La tempistica, inoltre, non è sembrata casuale: gli attacchi si sono intensificati in concomitanza con la rinnovata attività diplomatica tra Riyadh, Tel Aviv e Washington e con il timore di un colpo di scena finale dell’amministrazione Trump a danno di Teheran.
La rivoluzione petrolifera ha cambiato profondamente anche il ruolo geopolitico di alcuni luoghi come lo Stretto di Hormuz, le cui acque separano l’Iran dalla penisola arabica e dove transita gran parte delle forniture mondiali di greggio. Hormuz è stato spesso uno dei nodi caldi a livello regionale, soprattutto quando Teheran ha più volte minacciato di chiudere il passaggio come rappresaglia nei confronti degli Stati Uniti e degli altri partner di Washington nel Golfo, come Israele.
A giugno, il governo iraniano ha avviato la costruzione dell’oleodotto Goureh-Jask, che consentirà di aggirare lo stretto di Hormuz. Le sanzioni statunitensi l’hanno anche tagliato fuori dal mercato petrolifero formale, il che l’ha ulteriormente reso immune alle interruzioni del transito del petrolio nel Golfo. Nel frattempo, però, le accresciute capacità di fuoco degli Houthi rendono gli impianti sauditi soggetti a vere e proprie mine vaganti.
Certo è che la rivoluzione dello scisto ha creato un vero e proprio paradosso. Nel tentativo di affrancarsi dal petrolio mediorientale, puntando sullo scisto, gli Stati Uniti hanno parzialmente abbandonato il Golfo. Questo aspetto, però, ha lasciato il fianco scoperto agli obiettivi dell’Iran nell’area: alcuni, realizzati usando lo Yemen e i ribelli, altri, che passano anche per il fallimento nella creazione di un vero e solido asse arabo contro Teheran; l’Iran, infatti, è ancora perfettamente in grado di esercitare forti pressioni sui petromonarchi e una certa fascinazione anche nel mondo sunnita. Tutto questo, forse, sembra per ora condurre verso il desiderio massimo iraniano: quello di trasformare Teheran in futura regina del Medio Oriente.
[1] In Iran, poi, il proletariato è stato la forza decisiva e la spina dorsale della rivoluzione. Non solo, ma è stata, sebbene sconfitta un passaggio importante per la Rivoluzione Proletaria Internazionale, non bisogna scordare che i lavoratori crearono gli shoraz, strutture consigliari simili assimilabili ai Soviet.
[2] Arabians Trends dicembre 1998.
[3] Si è visto cosa è successo nell’estate del 2000, quando il greggio ha raggiunto i 37 dollari al barile, proteste in tutta Europa dalla Spagna Scandinavia, con blocchi dei porti (Barcellona), scioperi dei camionisti, dei pescatori ecc.
[4] https://it.insideover.com/economia/il-petrolio-e-un-rebus-il-suo-futuro-e-sempre-piu-incerto.html
[5] https://it.insideover.com/politica/marzo-2020-tra-nuove-intese-in-israele-e-guerra-del-petrolio.html
[6] L’olio di scisto o petrolio di scisto è un petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso mediante i processi di pirolisi, idrogenazione o dissoluzione termica. Questi processi convertono la materia organica all’interno della roccia in petrolio e gas sintetico.
[7] Gli Huthi sono un gruppo armato prevalentemente sciita zaydita dello Yemen, nato nell’ultimo decennio del XX secolo ma attivo, in funzione anti-governativa, nel corso del XXI secolo. Hanno dato vita a un’organizzazione armata che si è definita Partigiani di Dio o Gioventù credente