ALCUNI ELEMENTI INERENTI ALLA DISCIPLINA AZIENDALE E L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO DAL SECONDO DOPOGUERRA AGLI ANNI SETTANTA
Le lotte operaie dispiegatasi nel nostro Paese a partire degli anni ’60, culminate nell’autunno caldo del 1969 e proseguite negli anni ’70 hanno consentito ai lavoratori delle rilevanti conquiste.
La base materiale che ha reso possibile queste conquiste sono stati i tre decenni (1945-1975) di sviluppo dell’economia capitalistica. Beninteso, la Borghesia Imperialista, non ha regalato ai lavoratori né i miglioramenti economici, né il diritto di sciopero, il diritto di associazione, le otto ore ecc. Essi li hanno dovuto strappare, cioè conquistare con la lotta, con il sacrificio. Ecco perché è corretto parlare di conquiste. D’altra parte, le masse hanno conquistato nuove e migliori condizioni di vita dovendo far fronte, nel primo dopoguerra alla repressione dovuta dal fascismo e nel secondo dopoguerra alla persecuzione delle avanguardie partigiane, al boicottaggio e all’isolamento del sindacato, ai morti nelle manifestazioni (Portella della Ginestra, Reggio Emilia, Avola). Ciononostante, quello che ha caratterizzato il periodo del secondo dopoguerra è stata la conquista di migliori condizioni di vita. Analogamente il periodo attuale di cri è caratterizzato principalmente dall’attacco della Borghesia Imperialista alle conquiste.
Alcune conquiste sono state realizzate, dai lavoratori prima che leggi le sanzionassero ; altre i lavoratori sono riusciti a farle sanzionare dalle leggi, ma non hanno avuto la forza di farle applicare perché la Borghesia Imperialista o la sua “pubblica” amministrazione avevano nel frattempo ripreso saldamente in mano il coltello dalla parte del manico.
DISCIPLINA AZIENDALE E ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
I problemi relativi alle sanzioni disciplinari non possono non essere esaminati quando si affrontano quelli relativi all’organizzazione del lavoro dell’impresa. La materia è per lo più oggetto di studio da parte dei giuristi; e per le controversie a cui talune sanzioni disciplinari generalmente danno luogo, si è spesso ritenuto che, trattandosi di problemi giuridici, la competenza sia dei tecnici del diritto. Anche se così fosse, si tratterebbe comunque di regole giuridiche e di controversie giuridiche che riguardano direttamente lo svolgimento e l’eventuale cessazione del rapporto di lavoro; si tratterebbe sempre di regole giuridiche che influiscono sulla libertà, la dignità, la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Per tali ragioni, la materia non può essere lasciata agli specialisti del diritto, e tanto meno agli specialisti di un diritto che abbia per scopo di mantenere e adattare strumenti idonei ad assoggettare i lavoratori ad esclusivi interessi padronali. Certo, la diffidenza di molti lavoratori per l’uso che tradizionalmente viene fatto degli strumenti giuridici ha profonde motivazioni economiche, sociali, e politiche (come d’altro canto ci sono lavoratori che hanno nel lato giuridico, dentro un quadro di demoralizzazione e sfiducia in se stessi come forza collettiva, sperano in sostanza che il ricorre alle leggi eviti il ricorso alla lotta in prima persona). Ma i lavoratori organizzati e coscienti, quando operano per apprestare strumenti idonei alla loro emancipazione, non possono trascurare di conoscere e modificare i meccanismi attraverso i quali sono regolati, mantenuti, e adeguati sostanziali rapporti di rapporti di dominazione e di sfruttamento. Se vi sono dunque aspetti dell’organizzazione capitalista del lavoro i quali richiedono un esame critico del diritto che è andato formandosi nel campo delle sanzioni disciplinari, i lavoratori non possono rifuggire da questo compito, giacché, se intendono modificare la sostanza dei rapporti nei luoghi di lavoro, non possono ignorare le relazioni di quei rapporti registrate in leggi e in contratti collettivi.
Il sindacato di fatto opera nel campo del diritto, poiché intervenie nei rapporti economici, sociali e politici, e nella loro regolazione. Tant’è che se ne abbia piena coscienza, bisogna evitare che la diffidenza verso il tradizionale uso del diritto in senso antipopolare non si tramuti in feticismo culto delle norme scritte. Del resto, un approfondimento delle questioni relative alle sanzioni disciplinari sotto il profilo del diritto, per certi aspetti non è stato effettuato. Per cui, quello che potrebbe sembrare una pura esercitazione teorica, mostrerà invece i suoi evidenti riflessi pratici; e si comprenderà che non si tratta già di una materia per studi a tavolino, ma di concreti rapporti sui luoghi di lavoro, e di precisi obiettivi rivendicativi a profonda modifica delle regolamentazioni del passato.
Certo, è, però che quando nell’interesse dei lavoratori si affrontano i problemi giuridici , non ci si muove nell’ambito del diritto tradizionale, e ancora meno in quelle delle esercitazioni interpretative, ma piuttosto nell’ambito dell’affermazione, anche con l’attività pratica, di nuovi rapporti adeguati alla maturazione delle istanze di emancipazione dei lavoratori, e conseguentemente nell’ambito di nuovi strumenti giuridici, di nuove regolazioni, aperte a nuovi incessanti sviluppi.
le sanzioni disciplinari nella legge e nei contratti
Nei luoghi di lavoro vengono inflitti ai lavoratori – in relazione ad alcuni comportamenti – multe e licenziamenti a titolo di punizione, perché sia assicurata l’osservanza della disciplina. Tali misure vengono chiamate comunemente sanzioni disciplinari, o provvedimenti disciplinari, e riguardano comportamenti chiamati comunemente infrazioni disciplinari. Anche la legge e i contratti collettivi di lavoro le prevedono. Le norme di legge in materia sono contenute nel Codice civile e nello Statuto dei diritti dei lavoratori.
LE NORMATIVE DEL CODICE CIVILE DEL 1942
Il Codice civile è stato emanato nel 1942 e le norme relative alle sanzioni disciplinari sono contenute nel libro quinto Del lavoro, che, come si può leggere nella relazione del ministro Guardasigilli dell’epoca, “coronano l’edificio della riforma fascista del codice civile”, sanzionando la incorporazione in esso della Carta del lavoro fascista. In pochi articoli del codice civile sono contenute le norme sulle sanzioni disciplinari.
L’art. 2104, sulla diligenza del prestatore di lavoro, dice che “deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”, e che “deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”.
L’art. 2105, sull’obbligo di fedeltà, dice che “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’ impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
L’art. 2106, sulle sanzioni disciplinari, dice che “l’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione in conformità delle norme corporative”.
Il decreto legislativo luogotenenziale 13 novembre 1944, n. 369, abrogando l’ordinamento corporativo, ha poi mantenuto in vigore i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni corporative, “salvo le successive modifiche”.
LA GERACHIA NELL’IMPRESA
Questi tre articoli – obbligo di diligenza, obbligo di fedeltà, sanzioni disciplinari per l’inosservanza dei due obblighi – sanciscono, secondo le parole usate nella relazione del ministro Guardasigilli in carica nel 1942 “i doveri generali di comportamento, che incombono al lavoratore, come partecipe della organizzazione dell’impresa, e quindi soggetto al suo ordinamento (rapporto gerarchico, poteri direttivi e disciplinati)”.
Perché meglio si capisca in qual senso il lavoratore fosse considerato partecipe dell’organizzazione dell’impresa, va ricordato che l’art. 2086 del codice civile afferma che “l’imprenditore è il capo dell’impreso e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori”, e ciò – come è detto nella citata relazione del ministro Guardasigilli – in conformità alla dichiarazione VI della Carta del lavoro fascista, in quanto “l’ordine dell’impresa non può riposare che sul principio gerarchico, di cui il Fascismo è scuola”.
LO STATUTO DEI LAVORATORI DEL 1970 E LE NORME DEI CONTRATTI COLLETTIVI
Nessuna altra norma di legge, dopo quelle del Codice civile del 1942, è stata emanata in materia di sanzioni disciplinari prima dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300). Lo Statuto nel suo articolo 7, ha prescritto che le norme disciplinari relative alle sanzioni devono essere affisse in luogo in luogo accessibile a tutti e devono applicare quanto in materia è stabilito dai contratti di lavoro. L’art. 7 ha anche previsto una procedura di contestazione del provvedimento disciplinare con l’assistenza del rappresentante sindacale ed un ulteriore procedimento di conciliazione e di arbitrato in sede di Ufficio provinciale del lavoro. Altre norme sono contenute nell’art. 7 sui limiti delle multe e delle sospensioni, sull’intervallo tra il rimprovero e l’applicazione della sanzione, sul rinvio alla legge sul licenziamento, sull’irrilevanza della recidiva dopo due anni.
La legge – cioè il Codice civile e lo Statuto dei diritti dei lavoratori – rinvia ai contratti collettivi per le sanzioni disciplinari. Infatti, tutti questi contengono clausole intitolate Procedimenti disciplinari, o Norme disciplinari, o Disciplina del lavoro, o Disciplina aziendale, o Licenziamenti per cause disciplinari, o Licenziamenti mancanza, o ancora Licenziamento per cause disciplinari, o ancora Licenziamento per punizione. Le punizioni previste vanno dall’ammonimento, alla multa, alla sospensione, al licenziamento. Le infrazioni sanzionabili vanno dall’abbandono del posto di lavoro alla negligenza o lentezza nel lavoro, al danneggiamento del materiale, al furto o all’introduzione di bevande alcoliche, all’ubriachezza, alle collette o sottoscrizioni, comprendono inoltre nell’inizio il ritardo dell’inizio del lavoro, la sospensione o anticipata cessazione, l’esecuzione di lavori di pertinenza dell’azienda per conto terzi fuori dalla stessa, altri comportamenti non precisati che consistano in trasgressioni o mancanze che comunque pregiudichino la disciplina e ancora aggressioni a mancanza che comunque pregiudichino la disciplina la disciplina e ancora l’insubordinazione, il furto, la rissa, il trafugamento di schizzi, la costruzione di oggetti per uso proprio o di terzi dentro lo stabilimento, la recidiva in infrazioni.
Queste sono le sanzioni disciplinari. L’espressione viene usata nei contratti collettivi e gli studiosi del diritto hanno trattato la materia trasmettendosi le loro riflessioni in argomento, di epoca in epoca da un sistema all’altro, senza grandi modifiche nell’impostazione.
disciplina e organizzazione del lavoro
Disciplina, sanzione: che cosa si intende per disciplina? Che cosa si intende sanzione? Sono questi i primi interrogativi a cui converrà rispondere se si vuole tentare di affrontare con una nuova visuale, una materia i cui fondamenti sono stati fin qui dati per scontati, ma che certo non sono piu adeguati alle nuove istanze di emancipazione che stavano emergendo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Prima di tutto per affrontatore correttamente il tema bisogna chiedersi che cosa è la disciplina.
Nei dizionari si leggerà che la disciplina è un insieme di regole che mantengono l’ordine e l’obbedienza. Nei trattati di diritto si leggerà che la disciplina è un fattore ed un aspetto di un certo ordine, di un insieme di norme che regolano il comportamento umano in relazione a particolari fini, norme che regolano il comportamento umano in relazione a particolari fini, un insieme di comodi e di sanzioni che tendono ad assicurare l’ordinato funzionamento di un organismo sociale.
Rimanendo nell’ambito dell’azienda, la disciplina è dunque un aspetto dell’ordine in azienda, un insieme di comandi di comandi e di sanzioni che regolano al suo interno comportamenti in relazione ai fini dell’impresa, insomma è insieme di comandi e sanzioni rivolti ad assicurare il funzionamento dell’azienda secondo un ordine predisposto al raggiungimento dei fini perseguiti dall’impresa stato. La legge – che regola un ordine più in generale, cioè i rapporti economici e sociali della società – stabilisce l’obbligo del lavoratore di usare diligenza nella prestazione, di essere fedele al datore di lavoro e di osservare le disposizioni da lui impartire riconoscendo all’imprenditore il potere di stabilire e far osservare un ordine nell’azienda.
DISCIPLINA AZIENDALE E POTERE GERARCHICO DELL’IMPRENDITORE
Ludovico Barassi[1] che viene considerato un maestro del diritto del lavoro da parte dei docenti in materia, ha scritto nei suoi trattati abbonatissime pagine sulla disciplina nel rapporto di lavoro (per esempio (per es. Il diritto del lavoro, Giuffré, Milano, 1936 e 1957). Molto significativo il fatto che nelle edizioni successive al crollo del fascismo siano state portate soltanto lievissime modifiche. Il che sta a confermare i legami che uniscono una certa disciplina aziendale al sistema capitalistico in generale.[2]
Sulla disciplina aziendale Barassi ha scritto che le obbligazioni del lavoratore debbono da lui essere attentamente osservate “perché gli scopi cui mira l’azienda presuppongono, per il loro raggiungimento, il massimo rendimento del fattore lavoro così come la migliore utilizzabilità degli altri fattori di cui l’imprenditore si serve (capitali, cognizioni, tecniche). E il lavoro occorre a questo fine solo con l’armonica coordinazione di tutti quegli elementi e in particolare dei lavoratori. L’attuazione di questa organizzazione ordinata e feconda del lavoro è quella che si chiama disciplina, la disciplina interna del personale e basta scorrere i contratti anche per capire la grandissima importanza che essa ha nel sistema del lavoro, anche secondo la Carta del lavoro (dich. XIX)”.
Il testo citato, che è del 1936, è stato modificato nell’edizione del 1957 solo nelle ultime parole, in cui in luogo di “sistema fascista del lavoro” ecc., è detto “sistema giuridico del lavoro” (rispettivamente, pag. 103 dell’edizione del 1936 e pag. 375 di quella del 1957). E più avanti: “la vigilanza della disciplina che ai dipendenti di un’azienda è imposta spetta naturalmente al datore, al quale anche l’ordinamento fascista del lavoro (cambiato poi in “ordinamento giuridico del lavoro”), concede logicamente col potere direttivo, i mezzi per farlo rispettare. La facoltà lui concessa come datore, cioè come titolare della potestà direttiva ed organizzativa, di applicare le sanzioni dirette all’osservanza della disciplina cioè il potere disciplinare come è inteso, rientra nel potere gerarchico”. (Rispettivamente, a pag. 103 e a pag. 375 delle due azioni).
Che cosa il potere disciplinare?
Se ne parlò in un convegno di giuristi del lavoro, tenuto nel 1971 a Saint Vincent, in relazione ai limiti che lo Statuto dei diritti dei lavoratori ha introdotto nei poteri del datore di lavoro; è in quell’occasione è stato mantenuto lo schema di Barassi sul potere gerarchico che si esplica nei due momenti del potere direttivo e del potere disciplinare.
Due relatori riferirono infatti riferirono sui limiti al potere disciplinare – relatore Spagnuolo Vigorita – e sui limiti al potere direttivo – relatore Suppiej.[3]
A chi faceva rilevare che tale ripartizione del potere gerarchico fosse di vecchia data e risalire ai maestri del diritto corporativo ai maestri del diritto corporativo fascista, veniva risposto da un docente particolarmente legato al padronato industriale, prof. Ubaldo Prosperetti, con queste parole: “Si è parlato di potere gerarchico: questa è un’altra di quelle espressioni che non bisognerebbe adoperare, tanto più perché certe assonanze impressionano gli ignoranti. Che cos’è il potere gerarchico? Un potere gerarchico non esiste; si tratta di un modo di esercizio del potere direttivo esplicato, per le dimensioni di certe aziende, attraverso i rappresentanti aziendali interni dell’imprenditore. È dunque il potere direttivo che gradatamente si specifica e scende (questa parola è avalutativa, come si dice oggi, non vuole indicare che si va verso il basso) e si dirama presso tutti i lavoratori che devono avere le direttive dell’imprenditore”.[4]
Insomma: il potere rimane gerarchico, ma non bisognerebbe più dirlo. Di fatto è sempre l’imprenditore che dirama le direttive che se ne impone l’osservanza con le sanzioni. È qui la fonte del potere disciplinare. Molti giuristi hanno speso fiumi di parole e d’inchiostro per affermare che se il lavoratore subisce la volontà del datore di lavoro, è in virtù del contratto con il quale “liberamente” accetta un rapporto di signoria e di soggezione; rapporto in cui c’è chi comanda e punisce e c’è chi obbedisce ed è punito. Altri giuristi hanno replicato affermando che all’origine del potere disciplinare dell’imprenditore deve considerarsi l’organizzazione del lavoro stessa, indipendentemente dal contratto.
La questione non era certo priva d’interesse, ma la sua complessità richiederebbe di per sé una trattazione specifica. Peraltro, non sembra che l’adesione all’una o all’altra delle due tesi porti a molto di più che a una scelta fra concetti, delle due senza toccare apprezzabilmente la realtà dei rapporti disciplinari sui luoghi di lavoro. Il contratto, in sostanza, non fa che regolamentare il fatto, cioè la prestazione di lavoro subordinato, lo sfruttamento, e dare una veste giuridica a questa situazione di fatto; cioè altro non è che uno strumento per il mantenimento di questa. Il richiamo al contratto è un diversivo utile per chi non voglia considerare la situazione di fatto che sta a monte e che consiste nello sfruttamento subito dagli operai. Ci si ferma al momento in cui operaio e padrone hanno stipulato il contratto, come due uguali con diritti uguali che stringono un accordo; da quell’accordo si prende le mosse e si entra nel mondo del diritto – inaccessibile ai profani – che ha proprio la funzione di dare una giustificazione, un’organizzazione, una veste sanzionatoria a dei rapporti di fatto che sono segnati da una profonda disuguaglianza.
ORGANIZZAZIONE, SUBORDINAZIONE E CONTRATTO
In sostanza il contratto, nel rapporto di lavoro, è soltanto la forma che assume lo sfruttamento imposto dalla classe dominante e quindi, chiunque si ponga su un piano di critica attiva nei confronti del rapporto di classe caratterizzante la società capitalista, non attribuirà alla disputa maggiore importanza di quanta ne abbia ai fini pratici.
Del resto, alla tesi che pone nel contratto la fonte della disciplina, fu contrapposta un’altra da un vecchio maestro dei giuristi, Santo Romano, che afferma che la disciplina di stabilimento non rientra se non indirettamente nel contratto di lavoro. “Certo, se tale contratto – egli ha detto – il lavoratore non sarebbe ad essa vincolato, ma questo non è che un presupposto. La disciplina dell’impresa non nasce dal patto contrattuale, ma dall’organizzazione interna, di cui si viene a far parte previo tale patto (…). Ciò è tanto vero che anche coloro che adottano le vedute di cui abbiamo fatto cenno, riconoscono che la disciplina è l’affermazione signorile della volontà di uno solo: del capo che ha i rischi e perciò dirige e coordina il lavoro. Ora la volontà di uno solo è evidente qualcosa di diverso dalla volontà che estrinseca nel contratto. Si aggiunga che la disciplina importa un vincolo di coesione non solo con il capo dell’azienda ma altresì degli operai tra loro, tra i quali non si può dire che intervenga un contratto”.[5]
Un altro vecchio maestro degli stessi docenti, Paolo Greco, nel suo trattato Il contratto di lavoro del 1939 affermò molto chiaramente che “l’organizzazione stessa dell’impresa nella quale il lavoratore s’inserisce è la vera fonte della gerarchia, e quindi del potere disciplinare del datore di lavoro quale capo dell’impresa”.
Riassumendo: la disciplina è un aspetto di un certo ordine; la disciplina aziendale è quindi un aspetto di un certo ordine aziendale; l’ordine aziendale nasce dall’organizzazione, che vuole la soggezione del lavoratore. Si evidenzia così il legame stretto che unisce che unisce la disciplina aziendale all’organizzazione del lavoro in azienda.
“Essenziale per l’organizzazione è la disciplina”
Il legame tra la disciplina e l’organizzazione che fa al datore di lavoro, è generalmente affermato dai giuristi di lavoro. Uno dei loro maggiori esponenti, Santoro Passarelli, in un dibattito svoltosi negli anni Sessanta svoltosi all’Università di Trieste[6], ha ribadito chiaramente il concetto: “il titolare dell’organizzazione ha un suo particolare interesse a che l’organizzazione funzioni (…). Vi sono organizzazioni che si staccano dall’organizzazione, ma tale non è l’impresa”; infatti “sia il potere direttivo dell’imprenditore, sia il potere disciplinare sono collegati essenzialmente alla posizione di chi è preposto all’organizzazione, non voglio usare il nome dell’imprenditore per non complicare il problema. Dove c’è una organizzazione e l’organizzazione funziona, non ci può essere ordine, e c’è, purché ci sia chi lo stabilisca e chi lo faccia osservare (…). Come potere direttivo e come potere disciplinare di esigere rispetto commisurando la sanzione quando le regole non sono rispettate, è un potere essenzialmente unilaterale spettante a chi è responsabile dell’organizzazione”.
Per chiarire meglio il senso di queste affermazioni, in una serie di altre citazioni tratte dall’intervento di Santoro Passarelli: “La fonte del potere (…) è in un’esigenza intrinseca dell’organizzazione”. “Essenziale per l’organizzazione è la disciplina”. “Il diritto positivo può regolare il potere disciplinare in vario modo, purché non renda impossibile l’organizzazione o la permanenza dell’organizzazione”. “Il rapporto di lavoro è certamente un rapporto di organizzazione perché inserisce il singolo lavoratore, sia in caso di inosservanza la sanzione”. “Il funzionamento dell’organizzazione per me non può corrispondere all’interesse imprenditoriale”.
il tentativo di adeguamento dei contratti ai valori costituzionali
Agli inizi degli anni Settanta vediamo un tentativo di adeguare i contratti ai nuovi indirizzi che il movimento sindacale stava prendendo in materia di organizzazione del lavoro.
A livello di massa si cominciava a riconoscere che le sanzioni sono strumenti atti a rafforzare un insieme di norme di comportamento sui luoghi di lavoro, ci si cominciava a porsi l’obiettivo che questa attività normativa si richiami a fini diversi dell’esclusivo tornaconto economico dell’imprenditore che il fascismo aveva considerato perno dell’interesse nazionale.
L’ONDA DEL ’68 E L’AUTUNNO CALDO
Come si diceva prima, come coda del periodo di lotte del periodo 1968/69 sul piano legislativo su approvato dal Parlamento il 20 maggio 1970 lo Statuto dei diritti dei lavoratori.
Tale legge fu il prodotto della necessità, per lo Stato, di fornire riconoscimenti alla forza alla forza del movimento operaio e – allo stesso tempo – di contempo – di sistematizzare, regolare e normalizzare le potenzialità di conflitto emerse negli anni precedenti.
E se tale aspetto di “normalizzazione” è assai rilevante, ed altresì rilevanti sono le limitazioni imposte a diritti generali di libertà riconosciuti dalla Costituzione (si pensi ad esempio alle norme in tema di libertà di manifestazione del pensiero, dallo Statuto (art. 1) concessa “nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”, quindi in modo assolutamente riduttivo, ovvero alle norme sulla possibilità padronale di procedere alle perquisizioni personali all’uscita dai luoghi di lavoro (art. 6) in quanto “indispensabili ai fini della tutela del patrimonio”, che evidentemente contrastano con l’art. 13 della Costituzione che ammette la perquisizione solo per atto motivato dell’Autorità Giudiziaria) è anche vero che aumentò in modo rilevante la tutela dei lavoratori di fronte ai licenziamenti illegittimi, in quanto è finalmente previsto – senza alternativa monetaria – l’obbligo, per il datore di lavoro, di reintegrare nel posto di lavoro, cui viene attribuita – in linea di principio – una vera e propria “stabilità reale”.
È poi introdotta una rigorosa procedura per l’applicazione delle sanzioni disciplinari, sono vietati i trasferimenti ingiustificati ed ogni atto della discriminazione basato sulla partecipazione ad attività sindacali.
È altresì previsto il diritto dei lavoratori di controllare, mediante rappresentanze, l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica (la non applicazione di tale norma non è dovuta solo per l’attività dei padroni per i quali dove subordinano alle ragioni del profitto ogni valore, compreso quello della vita. A questa disapplicazione non si può dimenticare la complicità delle organizzazioni sindacali – non solo CGIL-CISL-UIL, ma anche molti sindacati di base – che hanno determinato l’abbandono di questo terreno).
Infine, proseguendo in una sintetica esposizione di punti positivi, viene ribadito il principio dell’avviamento numerico al lavoro tramite gli Uffici di Collocamento, con teorica impossibilità padronale di discriminare nelle assunzioni: è anche espressamente previsto il divieto “di effettuare sulle opinioni politiche, religiose e sindacali del lavoratore, nonché sui fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”, divieto la cui è punita anche con l’arresto fino ad un anno.
D’altro canto, il segno politico dello Statuto è poi da tutte le disposizioni che regolamentano e istituzionalizzano l’attività sindacale, e che fin dall’immediatezza della sua approvazione lo fecero definire come “uno Statuto per padroni e sindacati” in un intervento del Comitato di difesa e lotta contro la Repressione pronunciato al Congresso di Trieste dell’Associazione Nazionale Magistrati svoltosi nel settembre 1970.[7]
Osserva, infatti, il Comitato che i diritti di libertà dei singoli erano negati o scarsamente tutelati, puntando il Legislatore tutto “sulla promozione del sindacato e sulla cristallizzazione della sua egemonia”. Si apre il dialogo col sindacato (bisogna precisare che quando si parlava di sindacato ci si riferisce nella pratica a CGIL-CISL-UIL), si cerca di farselo alleato, aiutandolo a difendersi dai movimenti di base che lo accusano di tradimento, moderazione; gli si conferiscono nuovi poteri e responsabilità anche nella partecipazione delle scelte economiche (una sorta di cogestione subalterna) e nell’elaborazione delle riforme. E, con lungimiranza, considerava che storicamente, quando le organizzazioni del proletariato cercano e accettano il proprio rafforzamento attraverso il riconoscimento, la disciplina e l’istituzionalizzazione all’interno dell’ordinamento giuridico dello Stato borghese, questo non porta a un avanzamento di potere e libertà dei lavoratori, ma segna l’avvio di una politica di conservatrice, di collaborazione di classe, di controllo e soffocamento del movimento operaio.
Quando si affrontano queste tematiche, bisogna sempre ricordarsi che nella produzione legislativa vi è sempre un segno del rapporto di forza, con la decisiva impronta del disegno di chi il potere lo detiene. Nello stesso tempo è tuttavia importante ricordare il clima complessivo del periodo della entrata in vigore dello Statuto, del clima cioè di anni che vedevano – bene o male – anche un embrione di capacità egemonica del punto di vista operaio su altri strati sociali.
E il discorso ci deve portare a una considerazione degli effetti peculiari che ebbe il vento di quegli anni sulla corporazione della magistratura, che divenne essa stessa settore di intervento e di azione che si collocavano, per così dire, all’interno dell’ottica anticapitalista.
È così ad esempio, sulla rivista Quale Giustizia, espressione di Magistratura Democratica, si potevano leggere interventi di giudici che sottolineavano la necessità che “le soluzioni giurisprudenziali prescelte[8]traggano ispirazione e trovino rispondenza e sostegno in interessi e forze sociali che si trovino in posizione antagonista rispetto agli equilibri del potere” e che “il giudice si apra all’esterno, e superando la chiusura corporativa e castale del proprio ruolo rompa l’isolamento fittizio in cui lo vuole la cultura dominante e si collochi all’interno delle dinamiche sociali, mediante un impegno vissuto non già idealisticamente e moralisticamente, come impegno tutto individuale e soggettivo, bensì come partecipazione diretta allo scontro politico in collegamento con il movimento di classe… quanto più il giudice si sentirà sottoposto al costante e penetrante controllo dell’opinione pubblica popolare, tanto più avvertirà intorno alla sua funzione un’attiva e vigilante critica delle forze democratiche, tanto più gli sarà facile liberarsi dalla sua sostanziale dipendenza dai ceti dominanti, resistere alle sollecitazioni del potere, invertire le finalità di cui egli è più o meno inconsapevole strumento”.[9]
In questo quadro, nei primi anni ’70, anche con l’ulteriore innovazione legislativa della riforma del processo relativo alle cause di lavoro (Legge 11 agosto 1973 n. 533), si assiste ad un tentativo di effettivo utilizzo dello strumento giudiziario a sostegno delle lotte operaie.
Ricordiamo alcuni casi di questo intervento giudiziario nell’area milanese:
- Le decisioni dei Pretori che impediscono la chiusura della Fargas e il trasferimento della Crouzet.
- Le sentenze che ordinano la reintegrazione in Alfa Romeo, Pirelli, Magneti Marelli di avanguardie di fabbrica extrasindacali.
- Le sentenze sul cottimo alla Pirelli, anch’esse promosse da iniziative di settori operai in duro contrasto con la linea sindacale.
- Le sentenze che obbligano Motta e Alemagna ad assumere a tempo indeterminato tutta quella fascia di lavoratori utilizzati (con la convivenza delle organizzazioni sindacali) con illegittimi contratti a termine, e quindi privati di reddito e di garanzie di stabilità.
- Le inchieste giudiziarie (e le susseguenti sentenze) sulle violazioni della legge sul collocamento da parte dell’Alfa Romeo, con l’ovvio corollario di schedature effettuate da un’apposita polizia privata.
[1] Ludovico Barassi (1873-1961). Giurista e accademico italiano che ha influito in modo fondamentale sulla formazione ed il consolidamento delle strutture della formazione del diritto del lavoro. Introdusse l’idea che le leggi sul lavoro fossero applicabili al lavoro subordinato e che questo dovesse essere individuato dalla eterodirezione da parte del datore di lavoro, in contrapposizione all’organizzazione del lavoro da parte dello stesso lavoratore caratteristica del lavoro autonomo.
[2] Questa è una delle conseguenze dalla continuità degli apparati statali tra lo Stato fascista e quello postfascista.
De Gasperi inventò la formula della superiore continuità dello Stato per giustificare le scelte di continuità con il regime.
Intanto i crimini di guerra commessi dagli italiani durante la Seconda Guerra mondiale rimasero impuniti. I militari italiani accusati da Jugoslavia, Grecia, Albania, Francia e da altri paesi dove furono presenti le truppe di occupazione italiane non vennero mai processati in Italia o effettivamente puniti.
Questo fatto segnò che la transizione verso una democrazia ispirata ai principi della Costituzione del 1948 fu segnata.
I centri di potere dello Stato furono invasi dai reduci del ventennio. De Gasperi e la DC rimossero tutti i prefetti di nomina politica (ed avevano fatto la Resistenza) e li sostituirono con funzionari di carriera divenuti galoppini della DC, ma che si erano distinti per il loro zelo durante il fascismo. Ancora prima, nell’estate del 1946, oltre 150 spie fasciste furono “riconvertite” (si fa per dire ovviamente) e inserite nei gangli vitali dell’allora nascente Stato repubblicano “nato dalla Resistenza” (quando sarebbe corretto dire “nato dall’affossamento della Resistenza”) .
[3] Vedere I poteri dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo Statuto dei lavoratori, Atti del IV Convegno nazionale di diritto del lavoro di Saint Vincent, 3-6 giugno 1971, Giuffrè, Milano 1972).
[4] C.s. p. pagine 168-169
[5] Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze 1951 e seguenti.
[6] Tavola rotonda sul tema dal “Bollettino di perfezionamento e di specializzazione in diritto del lavoro e della sicurezza sociale dell’Università di Trieste, n. 34, luglio 1965.
[7] Intervento pubblicato su Quaderni Piacentini n. 42, 1970.
[8] Cioè le sentenze.
[9] Quale giustizia n. 17-18, pagine 565-567.