LA CASA POPOLARE: UN NUOVO AFFARE PER LA FINANZA E UN SOGNO IRREALIZZABILE PER LE MASSE POPOLARI
Il Consiglio Regionale lombardo nel luglio 2016 ha approvato una legge regionale (L.R. N. 16/2016 – Disciplina regionale dei servizi abitativi) in tema di case popolari, apportando alcune modifiche nel maggio 2017.
Si tratta di un nuovo affare per la filiera legata al settore immobiliare e per la finanza parassitaria, per vendere ciò che resta del patrimonio pubblico e per contribuire a finanziare le imprese del settore, attraverso i fondi per la ristrutturazione degli alloggi, per garantire la proprietà immobiliare contro la morosità ed impedire la riduzione dei cani nel settore privato ed infine per sottoporre ad un controllo asfissiante le masse popolari, per le quali la casa popolare resta una chimera.
MITO E REALTÀ’ DELL’IDEOLOGIA RESIDENZIALE PUBBLICA
Una leggenda racconta che l’edilizia residenziale pubblica sia stata un’attività diretta all’acquisizione, alla costruzione e al recupero di fabbricati da destinare ad abitazioni per quelli che sono definiti i “ceti meno abbienti”, al fine di realizzare il miglioramento delle condizioni di vita di questi ultimi, applicando il principio solidaristico nel quadro della cosiddetta “giustizia distributiva”.
Riteniamo che bisogna sfatare questo mito della “giustizia distributiva”, poiché mai la borghesia (e quelle italiana non è certamente un eccezione) non ha alcun afflato solidaristico per i “ceti meno ambienti”. Mai si è sognata di costruire case popolari per venire incontro alle esigenze del proletariato.
Nel secolo scorso l’edilizia popolare ha avuto la stessa dinamica di altri ambiti economici. Dinamica contraddistinta dai conflitti interni alla classe dominante, e dagli appetiti delle varie frazioni capitalistiche, nonché dalle forte lotte del proletariato. Sviluppo e contrazione delle costruzioni pubbliche si sono alternate quali conseguenze del processo di industrializzazione e di concentrazione operaia e proletaria nelle città (a partire dalla legge Luzzati del 1903), dall’avvento del fascismo (con la contraddizione politica sull’urbanesimo, l’abrogazione del blocco dei fitti ed il divieto agli allora IACP di produrre direttamente cementi e materiali vari, con la volontà di agevolare le imprese edili), della seconda guerra mondiale (a seguito delle distruzioni di parte del patrimonio pubblico e conseguente ricostruzione[1]), dell’ondata migratoria interna e della congiuntura politica di finanziamento dell’edilizia pubblica da parte dello Stato (che tra il 1952 ed il 1954, ha destinato a tale scopo il 25% della spesa pubblica); e a partire dalla metà degli anni ’70 della fine del cosiddetto miracolo economico e della crisi economia del capitalismo; fino alla complessiva finanziarizzazione dell’economia italiana dagli anni ’90 in avanti.
In questa cornice le masse popolari si sono mosse per contrastare e combattere il finto afflato solidaristico della classe dominante, che si è manifestato, nel corso del tempo, corso del tempo, con l’emigrazione forzata, l’eliminazione del blocco dei fitti, l’affitto di veri e propri tuguri, la costruzione di quartieri dormitorio e di case minime al minor costo possibile e con materiali il più scadente possibile (razionalismo urbanistico), l’aumento dei fitti, gli sfratti e gli sgomberi.
Una serie di lotte sono state organizzate per ottenere abitazioni dignitose, contro il caro canone e per l’occupazione collettiva e per l’occupazione collettiva degli alloggi pubblici irragionevolmente lasciati vuoti. Vale la pena di rammentare, in proposito, la lotta contro la l’aumento dei cannoni, condotta tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, che vide la partecipazione di centinaia di nuclei famigliari impegnati in manifestazioni per l’autoriduzione dei e portò gli alloggi gli allora IACP e le Giunte Comunali a fare marcia indietro e le lotte la sanatoria delle occupazioni cosiddette abusive che portò a regolarizzare le situazioni abitative.
In questo quadro l’edilizia popolare ha sempre avuto quale convitto di pietra – direttamente o indirettamente – il capitale finanziario (banche e assicurazioni), che sin dai primo anni del secolo scorso consentì ai Comuni di ottenere finanziamenti per costruire case popolari, mantenendo sempre, una condizione di supremazia sui Comuni e, poi, sugli IACP, così determinando il processo di sviluppo e/o contrazione dell’edilizia popolare.
A ciò bisogna aggiungere che l’intervento dello Stato è sempre stato caratterizzato da un lato da un finanziamento, estremamente ridotto dell’edilizia pubblica – a parte il suddetto periodo del dopoguerra, finalizzato principalmente ad incrementare l’occupazione lavorativa – e, dall’altro, dal tentativo di subordinare le gestioni locali a strumenti di intervento centralistico (INA CASA, e poi GESCAL), col precipuo scopo di garantire la rendita immobiliare e favorire la greppia industriale legata al cemento e quella finanziaria.
Giusto perché non tutto trapassi impunemente nel dimenticatoio è opportuno rammentare, in proposito, che lo Stato ha sempre – sin dal 1923 – concesso l’esenzione dall’imposta sui fabbricati e fondi vari ed ancora va rammentato l’intervento dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA).
L’INA, attraverso il settore specificamente costituito in proposito nel quadro del Piano Fanfani, Gestione INA-casa, ha gestito per anni la distribuzione dei fondi per la realizzazione delle case popolari, intervenendo persino sulle modalità di definizione delle caratteristiche degli alloggi, con l’obiettivo di costruire il maggior numero con il minor costo, spesso in deroga alle previsioni dei P.R.G., provvedendo all’acquisto dei terreni, spesso collocati in posizione periferica, contribuendo in tal modo, al finanziamento diretto ed indiretto della rendita attraverso la valorizzazione fondiaria dei terreni privati, al finanziamento della filiera legata alle costruzioni immobiliari (imprenditori del cemento ed articolazioni varie), alla cementificazione territoriale ed alla realizzazione di quelli che sono diventati veri e propri quartieri dormitorio destinati al proletariato urbanizzato. Ed allorché il patrimonio INA-Casa venne posto in liquidazione (1963) lo Stato favorì la cessione degli alloggi in proprietà.
In un quindicennio il giro degli investimenti raggiunse quasi 900 miliardi di lire.
Altro che principio solidaristico e giustizia distributiva.
LA SITUAZIONE ATTUALE
La legge regionale approvata dalla Giunta regionale lombarda nel luglio 2016 è solo l’ultimo tassello di una serie di interventi da parte delle istituzioni (come il Piano Casa approntato dal Governo Renzi nel 2014), ma contiene alcuni elementi di novità. In realtà si può affermare che questa legge segna un punto di non ritorno nella dinamica di smantellamento definitivo dell’edilizia residenziale pubblica, decretando persino le fine nominalistica. La nuova legge, infatti, non indica più neppure i termini edilizia residenziale pubblica, che – dopo oltre un quarantennio – letteralmente spariscono e vengono sostituiti da nuovi termini: servizi abitativi pubblici e servizi abitativi sociali. La modifica non è semplicemente semantica, risponde alla realtà ed alle nuove esigenze, in parte ormai affermate ed in parte ancora da imporre. Ma la fine della case popolari è un fatto assodato, come meglio al termine dell’esame di legge, suggellata anche delle disposizioni transitorie e finali.
Il fine della disciplina introdotta sarebbe quello “soddisfare il fabbisogno abitativo primario e di ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonché di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio” (art. 1 c. 1); il nuovo sistema dei servizi abitativi dovrebbe assolvere “a una funzione di interesse generale e di salvaguardia della coesione sociale” (idem, c.2).
Bisogna sottolineare che il passaggio semantico dove si afferma che il fabbisogno abitativo viene soddisfatto attraverso i servizi, significa che i servizi debbono essere pagati.
La legge procede sin da subito ad evidenziare il lato affaristico che la contraddistingue, indicando i soggetti che provvederanno ad erogare e gestire i servizi abitativi al fianco al fianco delle Aler e dei Comuni; i cosiddetti “operatori accreditati, quali soggetti del terzo settore, cooperative ed altri operatori anche a partecipazione pubblica” (artt. 1 e 4). Insomma anche soggetti privati entrano nel business. Ma in fondo, non è che la presa d’atto di quanto già avvenuto: cooperative varie ed MM Casa, società del Comune di Milano ne fanno già parte.
A questo punto, occorre comprendere cosa diavolo siano questi novelli servizi abitativi, tra i quali, peraltro, viene immediatamente in evidenza il tratto di sostegno alla rendita immobiliare.
L’articolo 1 distingue infatti: a – i servizi abitativi pubblici che sono destinati a soddisfare il bisogno abitativo dei nuclei familiari in stato di disagio economico, familiare ed abitativo (traduzione: genericamente i poveri); b – i servizi abitativi sociali che sono destinati a soddisfare il bisogno abitativo dei nuclei familiari aventi una capacità economica che non consente né di sostenere un canone di locazione a un mutuo sul mercato abitativo privato né di accedere ad un servizio abitativo pubblico (traduzione: quelli che possono pagare un canone vicino anche se non eguale a quello di mercato); c – le azioni per sostenere l’accesso ed il mantenimento dell’abitazione che riguardano il mercato abitativo ed i servizi sociali (…) e le azioni volta a favorire la proprietà dell’alloggio (…) (traduzione: garanzia pubblica del versamento del cannone a favore dei proprietari privati e degli operatori accreditati che gestiscono gli alloggi destinati ai poveri, garanzia alle banche ed alle finanziarie erogatrici di mutui per l’acquisto di immobili).
L’art. 3 dopo aver elencato le funzioni dei comuni, tipiche di questo ambito, introduce una novità. Stabilisce infatti che i comuni possono attivare servizi di agenzie per l’orientamento dei cittadini in merito alle opportunità di reperire alloggi in locazione a prezzi inferiori a quelli di libero mercato, lo svolgimento di azioni di sostegno alla locazione e di attività di garanzia nei confronti dei proprietari nei casi di morosità incolpevole.
Queste agenzie per l’abitare – visto lo scopo – non pare che si differenzino dalle normali agenzie immobiliari.[2]
La legge, poi, stabilisce che: “Al fine di incrementare l’offerta di servizi abitativi pubblici e sociali, l’apporto di unità abitative di proprietà da parte degli operatori accreditatori, costituisce titolo preferenziale nelle procedure di evidenza pubblica per l’affidamento della gestione dei servizi abitativi pubblici e sociali” (art. 4). In sostanza, gli operatori accreditati[3] che dispongono di alloggi vuoti e vogliono evitare i problemi delle possibili morosità e o degli sfratti, possono metterli a disposizione dei servizi abitativi. In tal modo non solo godranno di maggiori titoli per entrare nel business (accreditamento) bensì otterranno la garanzia del versamento del canone, occorrendo, disporranno di procedure più snelle e rapide per gli eventuali sfratti.
I SERVIZI ABITATIVI PUBBLICI
I primi servizi presi in considerazione dalla disciplina sono i servizi abitativi pubblici: quelli destinati genericamente ai poveri. Ma è proprio la legge che dispone che non tutti i poveri possono beneficiare di tale provvidenza. La nuova disciplina infatti stabilisce che “i nuclei familiari in condizioni di indigenza accedono ai servizi abitativi pubblici attraverso la presa in carico da parte dei servizi sociali comunali, nell’ambito di programmi volti al recupero dell’autonomia economica e sociale”. Segue la definizione della condizione di indigenza, corrispondente ad una soglia di povertà assoluta e di grave deprivazione materiale, con parametro economico l’assegno sociale erogato dall’INPS.
In sostanza i poveri – per essere tali – sono solo quelli individuati e riconosciuti come tali dagli organismi assistenziali. Come nel medio evo, ma con metodi attualizzati dalla moderna filantropia, mediante il sistema di controllo pervasivo dei servizi sociali e per i pochi beneficiari, non solo si tratta di passare attraverso la cruna di un ago, bensì occorrerà anche sottoporsi ai diktat dei servizi (il cosiddetto programma di recupero dell’autonomia economica e sociale).[4]
E non basta. Siccome come è noto che la povertà aumenta e non si può certo provvedere a tutti i poveri, lo stesso articolo pone dei paletti. Nei servizi abitati pubblici, le assegnazioni riguardanti coloro che sono presi in carico dai servizi sociali comunali, sono disposte nella misura massima del 20% delle unità abitative annualmente disponibili.
Per gli, evidentemente, resta sempre la provvidenza (nelle varie forme che si incarna come la Caritas) o la strada.
Un elemento di interesse appare subito. Il regolamento che dovrà occuparsi di disciplinare le condizioni oggettive e soggettive di disagio, nonché i relativi punteggi per la formazione delle graduatorie, non pare che debba esplicitamente prevedere l’ipotesi dello sfratto da una abitazione privata tra quelle che determinano l’esistenza della conciliazione di disagio ed un maggior punteggio ai fini dell’assegnazione, come sino ad ora è avvenuto.
Ipotesi – lo sfratto – che ha caratterizzato – e caratterizza – i nuclei familiari in condizione di indigenza che dovrebbero essere i principali fruitori di questi servizi.
Per la precisione, l’ipotesi dello sfratto viene autonomizzata e può dar luogo ad una assegnazione di tipo emergenziale, ma limitata nel tempo. La legge stabilisce infatti che “Al fine di contenere il disagio abitativo di particolari categorie sociali, soggette a procedure esecutive di rilascio degli immobili adibiti ad uso di abitazione e per ogni altra esigenza connessa alla gestione di situazione di grave emergenza abitativo, (…). Aler e comuni destinano una quota del proprio patrimonio abitativo, a servizi abitativi transitori, (…), nella misura massima del 10 per cento delle unità abitative disponibili alla data di entrata in vigore della presente legge. Le unità abitative a tali fini individuate sono temporaneamente escluse dalla disciplina dei servizi abitativi pubblici. Tali unità abitative sono assegnate ai nuclei familiari in possesso dei requisiti per l’accesso ai servizi abitativi pubblici per una durata massima di dodici mesi non rinnovabili, (…). I comuni possono incrementare la disponibilità di servizi transitori con unità abitative conferite da soggetti pubblici e privati, compresi gli operatori accreditati, da reperire attraverso procedure ad evidenza pubblica e da disciplinare mediante apposite convenzioni”.[5]
Insomma: gli sfrattati – che come è noto sono in assoluta maggioranza per morosità[6] – non hanno diritto, in quanto tali, ai servizi abitativi pubblici. Le unità abitative a disposizione degli sfrattati saranno limitatissime (il 10% delle disponibili) e per giunta per un periodo ridicolo (dodici mesi). In compenso, i soggetti privati – nessuno escluso – potranno conferire propri alloggi.
Il canone di locazione dei servizi abitativi pubblici è destinato a compensare i costi di gestione, compresi gli oneri fiscali, e a garantire la manutenzione ordinaria per la buona per la buona conservazione del patrimonio immobiliare. Tuttavia, tra le novità occorre segnalare l’estensione del sistema dei controlli sui servizi abitativi pubblici, che prevede in realizzazione di impianti di videosorveglianza – che se ritenuti costi di gestione, partecipano alla formazione del cannone – e la possibile utilizzazione di servizi di guardia giurata. Per i fruitori – pochi – dei servizi abitativi pubblici – i poveri – ci sarà quindi un accurato e pervasivo sistema di controllo (preventivo: quello dei servizi sociali; e permanente: videosorveglianza e guardie giurate). Risultato: soldi anche per le imprese che si occuperanno dei sistemi di videosorveglianza e per quelle di guardiana. Le filiera si estende a nuovi soggetti.
Non poteva mancare l’ennesima previsione di vendita degli alloggi pubblici. Vuoti liberi od assegnati. La legge stabilisce che gli enti proprietari possono procedere alla alienazione e valorizzazione di unità abitative esclusivamente per esigenze di razionalizzazione, economicità e diversificazione della gestione del patrimonio, nella misura massima del 15% delle unità abitative di cui risultano proprietari alla data di entrata in vigore di questa legge.
In particolare, per quelli liberi, è prevista la vendita degli alloggi ubicati in aree o immobili di pregio e di quelli non assegnabili perché in stato di grave degrado.
Tuttavia, è notorio che le ultime procedure di alienazione non sono andate proprio a buon fine. Alla Regione sono noti i dati relativi alla composizione sociale e alle capacità economiche degli assegnatari[7]e gli alloggi vuoti spesso non sono affatto appetibili. Quindi è prevista una alternativa alla vendita definita valorizzazione. Ovverosia:
- La locazione a cannone agevolata, di norma non inferiore al 40 per cento del canone di mercato;
- La locazione nello stato di fatto, a soggetti intermedi, quali enti, associazioni senza scopo di lucro e istituzioni, con finalità statutarie di carattere sociale;
- La locazione a usi non residenziali, al fine di promuovere la diversificazione funzionale all’interno dei quartieri e l’insediamento di attività economiche di nuova formazione.
Insomma, al posto di destinare risorse per la rimessa in pristino degli alloggi e la conseguenza assegnazione ai poveri, gli alloggi locai ad altri soggetti con un canone agevolata ovvero a persone che si potrebbero definire al cosiddetto “ceto medio”.
I SERVIZI ABITATIVI SOCIALI
Lo spezzettamento del complesso patrimonio pubblico regionale in servizi abitativi pubblici e sociali ha una finalità precisa, che ben si comprende leggendo anche le disposizioni riguardanti questi ultimi.
La legge stabilisce che “Ai fini della presente legge il servizio abitativo sociale consiste nell’offerta e nella gestione di alloggi sociali a prezzi contenuti destinati a nuclei familiari con una capacità economica che non consente loro né di sostenere un canone di locazione o un mutuo sul mercato abitativo privato, né di accedere ad un servizio abitativo pubblico”. Ed il servizio abitativo sociale “comprende sia alloggi sociali destinati alla locazione permanente o temporanea, sia alloggi destinati alla vendita dopo un periodo minimo di locazione di otto anni”.
In sostanza questi servizi sono destinati a coloro che, pur non potendo accedere al mercato privato immobiliare (locazioni o proprietà), possiedono comunque una capacità reddituale che consente loro di versare un cannone appetibile per i gestori (Aler o privati). E questi alloggi potranno anche essere ceduti al termine di un periodo di locazione corrispondente al termine del primo rinnovo di una locazione privata.
Rientrano tra questi servizi quelli del cannone agevolato, quelli abitativi temporanei, i residenti universitari e i fondi immobiliari.
Vediamo di cosa si tratta. Innanzitutto, i servizi abitativi a canone agevolata sono quelli cui si applica un canone che copre gli oneri di realizzazione, recupero o acquisizione, nonché i costi di gestione (art. 33). Ed il canone, come abbiamo visto è stabilito attraverso una convenzione che deve indicarne anche i criteri i parametri e i prezzi di cessione per gli alloggi concessi in locazione con patto di futura vendita.
I servizi abitativi temporanei sono invece quelli da destinare al soddisfacimento del fabbisogno temporaneo di particolari categorie sociali, determinata da situazioni meritevoli di tutela, ragioni di lavoro, studio e salute.
Infine, vengono costituiti i Fondi immobiliari per l’acquisizione, la realizzazione e la gestione integrata di immobili per i servizi abitativi sociali nonché per la promozione di strumenti finanziari anche innovativi dedicati a questo tema, con la partecipazione di soggetti pubblici o privati. A tal fine, la Regione si avvale della collaborazione di Finlombarda S.p.A. Tale linea di intervento è rivolta alle persone che non possiedono i requisiti per accedere a servizi abitativi pubblici, disponendo di un reddito che tuttavia non consente di accedere agli affitti a libero mercato.
Lo spezzettamento del complesso patrimoniale pubblico regionale in servizi abitativi pubblici e sociali ha una finalità precisa, che ben si comprende leggendo anche le disposizioni riguardanti questi ultimi.
La legge stabilisce che “Ai fini della presente legge il servizio abitativo sociale consiste nell’offerta e nella gestione di alloggi sociali a prezzi contenuti destinati a nuclei familiari con una capacità economica che non consente loro né di sostenere un canone di locazione o un mutuo sul mercato abitativo privato, né di accedere ad un servizio abitativo pubblico”. Ed il servizio abitativo sociale “comprende sia alloggi sociali destinati alla locazione permanente o temporanea, sia alloggi destinati alla vendita dopo un periodo minimo di locazione di otto anni”.
In sostanza questi servizi destinati a coloro che, pur non potendo accedere al mercato privato immobiliare (locazioni o proprietà), possiedono comunque una capacità reddituale che consente loro di versare un cannone appetibile per i gestori (Aler o privati). E questi alloggi potranno anche essere ceduti al termine di un periodo di locazione corrispondente al termine del primo rinnovo di una locazione privata.
Rientrano tra questi servizi quelli a canone agevolato, quelli abitativi temporanei, i residenziali universitari e i fondi immobiliari.
Innanzitutto, i servizi abitativi a canone agevolato sono quelli cui si applica un canone che copre gli oneri di realizzazione, recupero o acquisizione, nonché i costi di gestione (art. 33). Ed il canone, come abbiamo sopra visto è stabilito attraverso una convenzione che deve indicarne anche i criteri i parametri e i prezzi di cessione per gli alloggi concessi in locazione da destinare al soddisfacimento del fabbisogno temporaneo di particolari categorie sociali, determinata da situazioni meritevoli di tutela, quali ragioni di lavoro, studio, salute.
Infine, vengono costituiti i Fondi immobiliari per l’acquisizione, la realizzazione e la gestione integrata di immobili per i servizi abitativi sociali nonché per la promozione di strumenti finanziari anche innovativi dedicati a questo tema, con la partecipazione di soggetti pubblici o privati. A tal fine, la Regione si avvale della collaborazione di Finlombarda S.p.A. Tale linea di intervento è rivolta alle persone che non possiedono i requisiti per accedere a servizi per accedere a servizi abitativi pubblici, disponendo da un reddito che tuttavia non consente di accedere agli affitti a libero mercato.
Azioni per l’accesso ed il mantenimento dell’abitazione: una garanzia per la rendita immobiliare e finanziaria
Terminiamo l’esame della nuova normativa con le cosiddette azioni per l’accesso ed il mantenimento dell’abitazione.
Si tratta di un complesso di iniziative tutte finalizzate a favorire la proprietà immobiliare e la rendita finanziaria, senza dimenticare le imprese di costruzione ed altri soggetti imprenditoriali o le cooperative edilizie.
Si parte con i cosiddetti aiuti ai nuclei familiari in difficoltà nel pagamento dei mutui. E si stabilisce che la Regione promuove intese con gli istituti familiari per sostenere i cittadini in gravi difficoltà economica, ovvero in situazione di insolvenza temporanea dovuta a morosità incolpevole nel pagamento delle rate del mutuo per l’acquisto della prima casa o per sfratti dovuti a pignoramenti immobiliari. Quale tipo di intese saranno promosse è facile da immaginare. L’aiuto più che alle famiglie in difficoltà, è fornito alle banche, delle quali sono arcinote le esposizioni conseguenti ai mutui non onorati.
Si prosegue con i cosiddetti aiuti ai nuclei familiari per l’acquisto dell’abitazione principale. E si stabilisce che la Regione promuove misure di agevolazione finanziaria per favorire promuove misure di agevolazione finanziaria per favorire l’acquisto della prima casa da destinare ad abitazione principale. Comunque, è evidente che i benefici in ultima istanza saranno ancora banche e finanziarie
Si passa poi alle cosiddette iniziative per il mantenimento dell’abitazione in locazione. La legge prevede:
- Il sostegno economico ai conduttori, con contratto registrato ad uso abitativo, in difficoltà nel pagamento del canone di locazione di cui alla legge 431/1998;
- L’attuazione di iniziative finalizzate al reperimento di alloggi da concedere in locazione a canoni concordati, ovvero attraverso la rinegoziazione delle locazioni esistenti, di cui all’articolo 11 della legge 431/1998;
- Il contrasto del fenomeni della morosità incolpevole intesa come situazione di sopravvenuta impossibilità a provvedere al pagamento del canone locativo a ragione della perdita o consistente riduzione della capacità reddituale del nucleo familiare.
Si tratta, quindi, di misure che mirano a sostenere il mercato delle locazioni private, garantendo il versamento del canone ai proprietari, ovvero facilitando questi ultimi attraverso contratti a canone concordato. L’iniziativa, in questo caso, è destinata alla rendita immobiliare.
Tutto, bisogna porre in essere, per scongiurare un calo dei canoni.
In più, per completare l’opera, viene stabilito che le predette iniziative possono essere intraprese attraverso la costituzione di agenzie per la casa, fondi di garanzia o attività di promozione in convenzione con imprese di costruzione ed altri soggetti imprenditoriali o cooperative edilizie. Un aiutino anche a questi ultimi non guasta, vista la nota crisi del settore. Dall’altro lato si prevede che presa in carico da parte dei servizi sociali. Ovverosia che gli indigenti non possono scampo al controllo preventivo dei servizi sociali.
Ancora, si prevedono aiuti ai nuclei familiari in condizione di morosità incolpevole, ma su questo argomento si demanda il tutto ai regolamenti di Giunta.
Non poteva mancare la costituzione dello specifico Fondo per l’accesso ed il mantenimento dell’abitazione, destinato alle finalità di questa ultima parte della disciplina ed in particolare per la concessione di contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione, a favore dei conduttori con contratto registrato ad uso abitativo in situazione di difficoltà nel pagamento dei suddetti canoni.
Infine, un aiuto anche ai costruttori. Nella più classica delle tradizioni.
Tra le disposizione transitorie e finali la legge dispone che: “Per gli interventi finalizzati alla realizzazione di unità abitative destinate a servizi abitativi pubblici e sociali, il contributo sul costo di costruzione non è dovuto. Per gli interventi di nuova costruzione riguardanti servizi pubblici, se previsti all’interno del pano dei servizi, gli oneri urbanizzazione primaria e secondaria non sono dovuti. Per gli interventi di nuova costruzione riguardanti servizi abitativi sociali, gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria possono essere ridotti da parte dei comuni fino al 100 per cento degli stessi. Per gli interventi di manutenzione straordinaria e di ristrutturazione riguardanti servizi abitativi pubblici e sociali, gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, se dovuti, sono quelli riguardanti gli interventi di nuova costruzione ridotti della metà, salva la facoltà per i comuni di deliberare ulteriori riduzioni”.
Come abbiamo anticipato all’inizio dell’esame della nuova disciplina, di casa popolari, per le masse popolari, non di potrà più parlare.
Abbiamo visto la suddivisione del complessivo patrimonio, che costituiva l’edilizia residenziale pubblica sul territorio, in servizi abitativi pubblici e sociali comporti che le persone in stato di povertà sostanzialmente non resti più nulla.
Ed a suggellare la normativa vi è la disposizione prevista dall’art. 43 c. 10: “Ai fini di quanto disposto dalla presente legge, l’espressione ‘edilizia residenziale pubblica’ presente in altre disposizioni regionali, legislative o regolamentari, deve intendersi equivalente all’espressione ‘servizi abitativi pubblici’, qualora non diversamente specificata, individuando un servizio di interesse economico generale, e in quanto tale, oggetto di specifici obblighi di servizio pubblico”.
CHE FARE?
La questione alloggi è un nodo dei rapporti sociali. Il nodo che intercorre tra i proprietari (privati e pubblici) e non proprietari di casa (in Italia) il 15% circa della popolazione, ma a Milano il 49%) nel quadro dello sfruttamento.
Mentre abbondano case vuote – private e pubbliche – nelle metropoli ed anche nei piccoli centri, aumentano sfratti e sgomberi. Ed il bisogno abitativo, che non può trovare alcuna soddisfazione nel mercato privato, non ha alcuno sbocco nell’edilizia pubblica. Nel 2014 statale Renzi-Lupi aveva posto le premesse per questo ultimo sviluppo cui la Regione Lombardia si è adeguata. Il che prelude ad analoghi interventi anche in altre regioni.
La leggere regionale lombarda del 2016 si inserisce nel solco tracciato del sostegno limiti alla rendita ed alla finanza, dell’abolizione dell’edilizia residenziale pubblica, smantellata e trasformata in un servizio abitativo finalizzato a produrre profitti per le imprese private che verranno accreditate ed otterranno la gestione degli immobili e strumento per ulteriori speculazioni ed affari di imprese varie, attraverso la svendita del residuo patrimonio pubblico esistente, la ristrutturazione la demolizione e ricostruzione. Profitti garantiti – nelle intenzioni – dalla svendita, dall’aumento dei canoni e delle spese e dall’eliminazione – sfratti e sgomberi – degli inquilini – operai, e neppure di versare canoni e spese.
Ma l’esplosività della questione abitativa, raggiunta dopo un decennio di crisi, è il risultato combinato della prolungata – ed ormai datata – politica di abbandono e privatizzare del settore pubblico, del tentativo di sostenere comunque rendita e finanza e della riduzione della perdita del salario, come dimostrano l’aumento esponenziale degli sfratti per morosità nel privato e nel pubblico e l’accumulo del debito nei confronti dei gestori del patrimonio abitativo. Debito che ha raggiunto cifre da capogiro e che viene a sua volta garantito attraverso l’istituzione di fondi e la capillare azione di recupero forzoso della morosità.
Date queste premesse risulta evidente come la questione abitativa sia irresolubile sul mero terreno della difesa della casa, o peggio ancora, in nome di un inesistente diritto alla casa nel quadro del sistema capitalista.
Il punto centrale è – e resta – il rapporto antagonista tra capitale e lavoro.
Orami da più di un trentennio i salari scendono ma da un decennio salari e pensioni, mentre tra la gioventù è dilagata la precarietà struttura e la conseguente gratuificazione del lavoro. E se non ci sono i soldi per sopravvivere è difficile pensare che ve ne possano essere per impiccarsi con un mutuo o per pagare l’affitto.
Ma se è vero che il principale e determinante del livello dei consumi (qui inteso come quantità di mezzi di sussistenza necessari al lavoratore per riprodursi socialmente, il cui “bene casa” costituisce un articolo) è dato dal livello del salario, è altresì vero che il livello dal salario non si determina automaticamente né per effetto delle cosiddette “leggi di mercato”, ma sulla base dei rapporti di forza tra padroni e operai. Rapporti che, per quanto riguarda i lavoratori, sono determinati dalla loro capacità di lotta e organizzazione.
In questi ultimi è rimasto certamente alto il livello di conflitto tra il variegato movimento per la casa e il potere e locale. Roma, Napoli, Milano – solo per citarne alcune – hanno assistito a manifestazioni di varia natura. Tuttavia – nella sostanza – il movimento si è contraddistinto essenzialmente per iniziative per iniziative contro gli sgomberi nel pubblico ed parte contro gli sfratti nel privato. Picchetti anti sfratto sono effettuati in diverse città per contrastare sfratti e sgomberi e decine di manifestazioni sono state effettuate per evidenziare la drammatica situazione del servizio casa.
Tuttavia, persino il livello insostenibile dei canoni nel privato, specialmente nelle città, è rimasto im secondo piano nelle azioni del movimento per il diritto alla casa. E riscuotere i canoni non versati dai cosiddetti morosi, per debiti che ormai complessivamente raggiungono cifre assolutamente impagabili.
Ma se la specializzazione di un movimento sulla questione abitativa, senza alcun rapporto con quel che accade nel lavoro è di per sé negativa, l’estrema specializzazione sul solo fronte degli sgomberi e degli sfratti, pur se nell’immediato ed in qualche caso si è in qualche caso si è rivelata, non intacca minimamente la prospettive del potere e l’attuazione del potere e l’attuazione dei suoi piani.
I proletari e via affrontato nel quadro complessivo, con adeguate indicazioni di lotta.
In primo luoghi, i comitati per il diritto alla casa che compongono il variegato movimento per la casa non possono continuare ad agire come membra separate dell’organismo proletario ed agitare la questione abitativa come “vertenza sociale” slegata dai più urgenti e centrali problemi di vita e di sopravvivenza delle masse proletarie come quello della mancanza perdita e stracciamento del salario. La lotta sul terreno casa deve porre a base dell’azione specifica la rivendicazione generale, di un salario minimo garantito a favore di disoccupati, cassintegrati, lavoratori dipendenti sottopagati e pensionati con la minima. Su questa base incardinare la richiesta la richiesta di azzerare la morosità nei confronti di tutti gli inquilini e occupanti colpiti da disoccupazione, riduzione del salario e pensionati con la minima.
In secondo luogo, i lavoratori non debbono né sottostare né alle decisioni statali devono sempre porre i loro bisogni e interessi a base di ogni loro richiesta. La rivendicazione corretta sarebbe quella che i canoni, in generale per le case private e pubbliche e salvo situazioni di bisogno e/o di indigenza, in cui va applicato, non superino il 10% del salario o della pensione del maggiore percettore.
In terzo luogo, va svolto nei caseggiati popolari un lavoro capillare e metodico di propaganda e di organizzazione allo scopo di convogliare nelle azioni di difesa e lotta inquilini e occupanti, eliminando attriti e divisioni tra assegnatari e occupanti, tra occupanti storici e occupanti recenti, ed emarginando le condotte prevaricatrici individuali o di gruppo. Gli inquilini e gli occupanti debbono costituire la prima linea di difesa e lotta nel blocco degli sfratti e degli sgomberi e un baluardo nella difesa degli occupanti. Una parte di questo lavorio va svolta inoltre tra i richiedenti alloggio in lista di attesa per accelerare l’assegnazione delle case sfitte ed esercitare una pressione crescente per la requisizione e assegnazione di case vuote.
In quarto luogo comitati per la casa debbono stringere forti legami tra loro, creare un fronte comune, attrezzarsi adeguatamente per potere affrontare la militarizzazione urbana. Gli sgomberi sono da tempo autentiche azioni militari in questa guerra non dichiarata contro le masse popolari messa in atto da parte della Borghesia Imperialista, e lo “stop agli sgomberi” richiede adeguati livelli di organizzazione. Fondamentale e decisa nell’impedire è la resistenza degli inquilini, la solidarietà del caseggiato. Trascinare nell’azione i caseggiati, coinvolgere il quartiere, sbarrare il passo alle “forze dell’ordine costituito”, contrastando le false “campagne di legalità” che mistificano la realtà perché la pretesa “legalità” è solo il paramento delle ruberie pubbliche e lo strumento di repressione ed esproprio della gente impoverita. Scacciare dai quartiere i fascisti che, per acquisire simpatie, chiedono case “solo per gli italiani”, nascondendo ipocritamente il fatto che di case vuote ce ne sono decine di migliaia che restano da decenni sfitte per proprio per mantenere alte gli affitti e che ora vengono poste in vendita.
In quinto e ultimo luogo bisogna collegare e ancora la lotta per la casa alla più generale battaglia di classe per l’esproprio degli alloggi di proprietà delle immobiliari, palazzinari, grossi e medi proprietari e la socializzazione dei mezzi di produzione.
Occorre, quindi, un’organizzazione stabile capace di superare ogni settorialismo e ricondurre tutte le iniziative che già si avvolgono sul terreno della casa nel più ampio fronte di lotta politica allo Stato ed al dominio di classe.
Solo così è possibile resistere effettivamente agli attacchi di Stato, finanza, immobiliari e padroni e soddisfare le esigenze di operai, disoccupati, pensionati proletari.
[1] E relativi interventi legislativi come la Legge Tupini e la quasi contestuale Piano Fanfani nel 1949.
[2] Per inciso vale la pena di rilevare come queste agenzie per l’abitare somiglino molto alle agenzie per il lavoro di cui al Decreto legislativo 275/2003 (Art. 4 Agenzie per il lavoro 1. Presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali è istituto un apposito alba delle agenzie per il lavoro ai fini dello svolgimento delle attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, supporto alla ricollocazione professionale. Il predetto albo è articolo 20, b) agenzie di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato abilitate a svolgere esclusivamente una delle attività specifiche di cui all’articolo 20, comma 3, lettere da a) a h); c) agenzie di intermediazione; d) agenzie di ricerca e selezione del personale; e) agenzie di supporto alla ricollocazione professionale e ad uno dei decreti del Jobs Act (quello concernente gli ex disoccupati oggi semplicemente lavoratori a disposizione – “ La rete dei servizi per le politiche del lavoro è costituita dai seguenti soggetti, pubblici o privati: (…): e) le Agenzie per il lavoro, di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e gli altri soggetti autorizzati all’attività fi intermediazione ai sensi dell’articolo 12 del presente decreto”. Queste ultime si dovrebbero preoccupare di reperire lavoro per i disoccupati. Viene da pensare che le amministrazioni comunali e gli uffici provinciali del lavoro non abbiano personale sufficiente per fronteggiare queste incombenze. Ma, come è noto, a pensar male si fa sempre bene. In realtà alle diverse, ma affaristicamente simili, filiere, si aggiungono nuovi soggetti che partecipano alle rispettive greppie.
[3] Occorrerebbe aprire il capitolo del cosiddetto accreditamento, ma l’esperienza, in Regione Lombardia, del sistema di accreditamento della sanità è un esempio (in negativo) sotto gli occhi di tutti.
[4] Nella versione della legge antecedente alle modifiche intervenute nel maggio 2017 la misura del 10% delle unità destinate a tali soggetti aveva un riferimento mobile, ovverosia dovevano essere le unità disponibili annualmente. Ora sono a termine: solo quelle disponibili all’atto dell’entrata in vigore della legge.
[5] Si tratta dello stesso sistema utilizzato sempre per i disoccupati dal predetto decreto del Jobs Act al fine di ottenere qualche agevolazione (Art. 19 – Stato di disoccupazione – 1. Sono considerati disoccupati i lavoratori privi di impiego che dichiarano, in forma telematica, al portale nazionale delle politiche del lavoro di cui all’articolo 13, la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa ed alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il centro con il centro per l’impiego).
[6] Provvedimenti di sfratto emessi a Milano – Ministero dell’interno – Ufficio Centrale di Statistica – Gli sfratti in Italia – anno 2015
Necessità locatore | Finita locazione | Morosità/Altra Causa | Totale | |
2005 | 2 | 1.210 | 1.270 | 2.481 |
2006 a | 35 | 852 | 1.236 | 2.123 |
2007 | 32 | 728 | 1.302 | 2.062 |
2008 | 74 | 772 | 1.434 | 2.280 |
2009 | 76 | 246 | 2.252 | 2.574 |
2010 | 87 | 695 | 5.686 | 6.466 |
2011 a | 20 | 718 | 4.359 | 5.097 |
2012 | 167 | 821 | 3.936 | 4.924 |
2013 | 0 | 243 | 3.886 | 4.129 |
2014 | 0 | 197 | 4.330 | 4,527 |
2015 a | 0 | 169 | 4.076 | 4.245 |
- Dati incompleti
Dunque tra il 2005 3 il 2015 (pur con dati effettuati sono stati emessi a Milano 40.908 sfratti.
[7] Nel patrimonio residenziale gestito dalle aziende Casa abitano poco meno di 2 milioni di persone. Le situazioni di estrema fragilità sociale sono vastissime. In particolare tra questi vi sono: 150 mila disabili; 500 mila ultra sessantacinquenni; 124 mila immigrati extracomunitari. Ed un terzo delle famiglie dichiara redditi al di sotto di 10 mila euro l’anno.