BILDERBERG: COMPLOTTISMO O ANALISI DI CLASSE
Senza dubbio tra i motivi che tendono a suscitare la curiosità del pubblico sul Bilderberg e contribuisce all’alone di mistero che lo circonda, è dovuto alla segretezza sui contenuti dei dibattiti, nonché la presenza a questi dibattiti del Ghota economico e politico di USA e Europa Occidentale. La ragione principale è però riconducibile alla sempre più diffusa percezione di impotenza dal parte del cosiddetto “cittadino comune” nei confronti di un economia e di una politica che sfuggono alla sua comprensione. Una crisi economica cominciata alla metà degli anni ’70 e sembra non finire mai (anzi si accentua), il potere astrato e sfuggente dei mercati finanziari, la stessa vicenda dei debiti pubblici e dell’euro, con le conseguenze devastanti sulle condizioni di vita e di lavoro di centinaia di milioni di lavoratori, favoriscono la sensazione dell’esistenza di forze oscure e incontrollabili. Una testimonianza evidente di questo stato psicologico di massa può essere individuato nella fortuna di romanzi alla Dan Brown e di innumerevoli saggi su massoneria, sette segrete, tra cui gli Illuminati (che vengono collegati al Bilderberg), e chi ne ha più ha ne metta. In un clima come questa, diventa facile, ad attribuire le cause di quanto sta succedendo all’esistenza di complotti e di gruppi che, come una specie di grande cupola, reggono un “nuovo ordine mondiale”.
Questo tipo approccio, fortemente dominante a livello mediatico, limita la comprensione della natura e del ruolo di organizzazioni come il Bilderberg e la Trilaterale. E, in definita, anche la consapevolezza della loro pericolosità, poiché diventa facile derubricare le critiche come fantasie complottiste oppure come critiche folk di qualche giornalista a caccia di scoop.
UNA NUOVA FORMAZIONE DI CAPITALI E CAPITALISTI
Il Bilderberg è una delle organizzazioni, tra le più importanti, della classe capitalistica internazionale. Negli anni ’90 ci fu il fenomeno denominato “globalizzazione”. Sarebbe più corretto dire si stava attuando la mondializzazione del Modo di Produzione Capitalistico (formazione di un unico sistema capitalista mondiale, esteso a tutti i paesi, che è andata ben oltre la fase dell’internazionalizzazione del MPC – anni ’70 – in cui ai paesi semicoloniali si sono aggiunti gli e paesi cosiddetti “socialisti” o che ancora si definiscono tali come la Cina, nel ruolo di fornitura di materie prime e semilavorate e di produzione di manufatti a bassi salari e senza alti costi concernenti la sicurezza e alla protezione dell’inquinamento) nelle fusioni e aggregazioni che crearono grandi imprese produttive mondiali[1] nell’ulteriore sviluppo della finanziarizzazione e della speculazione.
Questo processo di accumulazione capitalista (e del relativo allargamento del proletariato) ha avuto un carattere mondiale, diseguale e combinato. Alcuni paesi ne restavano fuori, o a lato, come se fossero elementi a sé stanti e non invece parte integrante di un tutto unico, di un’unica divisione del lavoro in via di una formidabile ristrutturazione, che vedeva l’ascesa delle piccole tigri asiatiche, della Cina e di altri paesi emergenti, l’enorme ampliamento del mercato del lavoro planetario, le trasformazioni in corso in campo tecnologico, produttivo, organizzativo come risposta del capitale globale (quello vecchio e quello nuovo) alla propria crisi.
Il rilancio produttivo dell’ultimo trentennio (stentato in Occidente, poderoso, in larga parte dell’Asia) è stato trainato dalla formazione di un mercato internazionale dei capitali sempre più integrato e deregolamentato pre mano dei grandi stati.
Dall’avvio di questa nuova fase – l’ultima del capitalismo, quella della mondializzazione del MPC, gli investimenti diretti verso l’estero sono passati dai 58 miliardi di dollari del 1982 agli 1.833 miliardi di dollari del 2007, 500 dei quali nei paesi “in via di sviluppo” (140 nella sola Cina inclusa Hong Cong).
I tassi di crescita sono stati: + 23,6% nel periodo 1996-1990, + 22,1% nel periodo 1991-1995, + 39,9% nel periodo 1996-2000 e nel 2006 + 47,2%, questo gigantesco afflusso di capitali ha creato come si diceva prima una mondializzazione industriale.
Con un forte aumento dei reparti produttivi collocati in Asia, in America Latina. Nel periodo tra il 1982 e il 2007 i dipendenti delle filiali all’estero delle multinazionali sono balzati d 21 milioni e mezzo e 81 milioni e 615.000.
Tutto ciò ha portato, per quanto riguarda la collocazione del proletariato industriale mondiale, che, nel 2008 la grande maggioranza degli operai addetti all’industria è al di fuori degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone.
Nella sola Cina vi sono attualmente 100 milioni di lavoratori dell’industria, 50 milioni di addetti all’edilizia, 6 milioni di minatori, 20-25 milioni di lavoratori dei trasportatori. Dal 1996 al 2006 la totalità della crescita occupazionale industriale mondiale si è realizzata fuori dai paesi OCSE.
Nei primi 5 anni del XXI secolo Brasile, Cina, Russia e India hanno creato 22 milioni di nuovi posti di lavoro l’anno complessivamente 110 milioni (molti dei quali nell’industria). Questi addetti all’industria lavorano in media 9-10 ore al giorno, se non di più. La grande maggioranza di loro riceve paghe, nettamente inferiori alla media mondiale dei salari industriali degli anni ’70. Questa tendenza di fondo è in atto anche per i lavoratori dei paesi imperialisti, statunitensi in testa, che sempre in questo periodo hanno visto venire meno le garanzie occupazionali e il salario ridotto sempre più all’osso.
Questa fase della cosiddetta “globalizzazione” è stata caratterizzata da una riduzione del costo medio della forza-lavoro su scala mondiale, realizzata in misura non secondaria con l’immissione massiccia di forza-lavoro femminile, e, insieme per l’effetto di una forte crescita della produttività del lavoro, specie nei paesi di nuova industrializzazione. Con una formula sintetica si può dire: la massa degli operai (e anche dei tecnici) dell’industria di oggi lavora a orari di fine ottocento (o che comunque si stanno allungando di continuo), con salari da inizio novecento e una produttività da era informatica, o quasi. Questo rilancio capitalistico si è avvalso, infatti, sia dell’estensione della meccanizzazione e della robotizzazione dei processi produttivi alle imprese produttive dei nuovi continenti, che di una nuova rivoluzione tecnica informatica e digitale capace di abbattere i costi di una serie di operazioni amministrative delle aziende, dalla contabilità agli acquisti, dagli inventari alla gestione dei subappalti, dalle comunicazioni esterne a quelle interne. Per non parlare, poi, di quanto si sono ridotti, grazie alle nuove tecnologie, i costi della circolazione delle merci di una circolazioni delle merci fattasi quanto mai veloce, e quelli direttamente quanto mai veloce, e quelli direttamente al processo di produzione.
Con la mondializzazione del Modo di Produzione Capitalistico il Capitale ha raggiunto la sua fase transazionale, in sostanza ha raggiunto uno stadio di evoluzione dove la sua caratteristica specifica è l’estrema mobilità settoriale e territoriale, in cui sia l’attività di investimento sia la sua stessa composizione proprietaria sono multinazionali. Ad esempio, nelle prime 30 imprese tedesche solo il 37% del capitale è in mano a capitalisti tedeschi. Caratteristica principale di questa frazione di classe è l’estrema interconnessione, non solo tra banche e imprese, ma anche tra settori economici diversi, e soprattutto tra capitali di diversa provenienza nazionale. Gli stessi consigli di amministrazione sono interconnessi, grazie alla presenza dei cosiddetti iterlocker (inglesismo per definire consigli di amministrazione intrecciati), di top manager, e azionisti che siedono contemporaneamente in diversi consigli di amministrazione. Questi soggetti sono come i nodi di una rete; non a caso molti studiosi definiscono il Bilderberg come un Network. Del resto, come ha ricordato Gramsci, la forma organizzativa tipica del capitale non è certo quella del partito organizzato (anche se ha la necessità di controllare i partiti di massa per imporsi), ma quella del gruppo informale. Dunque, se il capitale è strutturalmente interconnesso su base transnazionale, anche i suoi agenti singoli, lo sono. Di conseguenza di conseguenza, anche la loro organizzazione tipica non può che essere internazionale. Il Bilderberg, la Trilaterale, l’Aspen Institute rappresentano la concretizzazione di questo tipo di ideale. In particolare, il Bilderberg è l’organizzazione di una parte del settore specifico di questa borghesia, quello atlantico, che fa riferimento alla NATO. Non è un caso: gli USA e l’Europa Occidentale sono due aree fortemente interconnesse tra loro ed egemoni. I giapponesi e le borghesi orientali (compresa la borghesia cinese) sono stati tenuti fuori dal Bildeberg, negli anni ’70, fu creata la Trilaterale, che spesso comprende le stesse personalità europee, statunitensi e canadesi del Bilderberg alle quali, oltre a quelle giapponesi, ogni anno si aggiungono quelle di nuovi Paesi asiatici.
Naturalmente l’integrazione sovranazionale non deve essere confusa con l’esistenza di una sorta di supercapitalismo o di Impero alla Toni Negri privo di contraddizioni. Il capitale non sarebbe tale se non fosse molteciple e ineguale e quindi, se non ci fosse una concorrenza tra capitali. La fase transnazionale non è neanche on è neanche la fine degli Stati-nazione, per lo meno di quelli più forti e imperialisti. È la fase dell’aumento della concorrenza tra capitali, tra aree valutarie (pensiamo quella fra dollaro ed euro) e tra Stati. Così come è la fase della accentuazione della lotta di classe, quella del capitale contro il proletariato.
QUAL E’ LA FUNZIONE DEL BILDERBERG?
Può aiutarci a rispondere a tale domanda, vedere la composizione del suo comitato direttivo e, meglio ancora, la composizione degli invitati ai suoi meeting. Nel comitato direttivo prevalgono esponenti della finanza e dell’industria, poiché lo statuto prevede che politici non carica non possano farvi parte. Diversa è la situazione nei meeting annuali. I partecipanti al meeting del 2015 erano 138, suddivisi in tre categorie principali: la prima è quella che fa riferimento agli agenti diretti del capitale. Cui appartengono ben 65 personalità, di cui 28 afferenti a società finanziarie (banche, assicurazioni, società d’investimento), 29 a oligopoli e monopoli industriali, (energia, estrazioni minerarie, metalmeccanica, chimico-farmaceutica, informatica ecc.), e 8 a grandi network editoriali della Tv e della carta stampata. La seconda è quella delle politiche e delle istituzioni statali e interstatali con 38 persone. Si tratta di personaggi di primissimo piano, tra cui primi ministri, ministri dell’economia e degli esteri, membri della Commissione Europea, tra i quali Barroso e di organismi sovranazionali, come Christine Lagarde del Fondo Monetario Internazionale. Infine, abbiamo 28 persone che appartengono a think tank (10), Università (12), centri di ricerca e società di consulenza globali. Quasi tutti questi istituti sono legati a grandi corporation, parecchi sono americani e appartengono all’area neoconservatrice. Per dirla con Gramsci, si tratta del “meglio” dell’intellettualità organica al capitalismo internazionale.[2]
La funzione del Bilderberg è quindi quella di riunire tra gli esponenti di punta del capitale mondiale con i principali decision maker politici. La presenza di queste due categorie contemporaneamente legittima l’idea che le riunioni siano l’occasione di definire linee guida generali da implementare con decisioni politiche a livello nazionale e sovranazionale. A quali principi s’ispirano linee guida è facile intuirlo. Sono quelli diventati egemoni negli ultimi 30 anni a partire dal tatcherismo e dalla reaganomics: mercato autoregolato, autonomia delle banche centrali, riduzione dello “stato sociale”,[3] privatizzazioni, deregolamentazione del settore bancario, dei mercati finanziari e del mercato del lavoro e soprattutto governabilità eretta a principio del funzionamento della democrazia (quella borghese ovviamente).
Un esempio lampante, di tutto ciò inerente al discorso della governabilità, lo si ha quando nel maggio del 2013, Jp Morgan, storica società finanziaria (con banca inclusa) statunitense, pubblicò un documento che diceva tra l’altro[4]: “I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza delle idee socialiste”.[5] Il messaggio è chiaro: liberatevi delle vostre costituzioni antifasciste.
È un diktat, che i governi devono adeguarsi senza discutere.
Cosa preme all’alta finanza? Liberarsi di una costituzione che, sarà la più bella del mondo, ma non è stata mai attuata? No, il problema vero è togliere l’agibilità politica e sindacale ai lavoratori, preparare catene per chi lotta effettivamente, e forse anche liberarsi del peso dei sindacati ufficiali, che sono diventati troppo costosi al sistema vigente.
[1] Secondo uno studio della Kpmg Corporate Finance, società di consulenza, ripreso da Le Monde, diplomatique del 20.08.1999, nel corso del primo trimestre del 1999, sarebbero state effettuate circa 2500 operazioni di fusioni-acquisizioni per un ammontare di 411 miliardi di dollari di dollari con un rialzo del 68% rispetto al primo trimestre del 1998.
[2] http://www.nwo.it/bilderberg-analisi.html
[3] Che è conquista dei lavoratori. Le riforme sono in sostanza il sottoprodotto di una lotta rivoluzionaria/radicale.
[4] https://culturaliberta.files.wordpress.com/2013/06/jpm-the-euro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf
[5] http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/