LAVORI SULL’IMPERIALISMO
Nell’attuale battaglia politica è importante avere le idee ben chiare su cosa è oggi l’imperialismo e delle differenze (non di fondo a mio parere) che esistono con quelle che c’erano ai tempi di Lenin. Analizzare l’imperialismo serve per non assumere comportamenti politici sbagliati al di là delle buone intenzioni.
Premessa
Leggendo L’Imperialismo di Lenin, la prima cosa che balza agli occhi è il suo costante insistere sull’analisi economica relativa a un pugno di Stati più avanzati e sul loro impetuoso sviluppo capitalistico, sul progredire di questo sviluppo in forma di monopoli, cartelli e soprattutto finanza, per poi sfociare da ultimo, inevitabilmente nell’imperialismo; che è anzitutto una forma di approdo economico, essenzialmente finanziario.
Bisogna precisare che per Lenin la finanza è intesa come alleanza tra grossa industria e grandi banche; oggi dovremmo aggiungere grosse assicurazioni e finanziarie, catene commerciali e di distribuzione, ecc.: i grossi gruppi finanziari di solito posseggono tutte queste parti economiche, in percentuali continuamente variabili. Con la produzione come elemento, in ultima analisi indispensabile; ma con la finanza speculativa come elemento dominante.
Questo sviluppo, solo successivamente si manifesta anche sul piano politico.
Lenin nella sua opera è molto duro nella critica a Kautsky,[1] che, dell’imperialismo ha dato un’interpretazione puramente politica e non economica.
In tal modo Kautsky pensava di poter giustificare il capitalismo, che giunto ormai alla fase dell’imperialismo, avrebbe potuto essere esercitato anche senza adottare forme di oppressione crudeli, aggressive ed infamanti.
Per Lenin, invece, è lo sviluppo economico stesso di questo pugno di Stati capitalisti più forti che porta inevitabilmente al tentativo della spartizione del mondo. Tentativo che viene messo continuamente in discussione da parte di Stati imperialisti emergenti, cosa che porta a nuove spartizioni; e tutto ciò ha un inevitabile fardello di oppressione, e sfruttamento bestiale di intere popolazioni e di guerre di aggressione portate dappertutto dagli Stati imperialisti.
Dunque è la finanza, l’eccesso di capitali, soprattutto speculativi – ma anche produttivi – in cerca di migliori e più redditizi investimenti che sta alla base dell’imperialismo. Il possesso diretto di colonie è solo una forma secondaria e apparente di questo processo, tant’è vero che oggi esistono molti Stati, anche non ridotti politicamente e militarmente al ruolo di colonia, ma che sono sostanzialmente dominati finanziariamente dagli investimenti di Stati capitalisticamente più forti.
Lenin ha più volte insistito sul ruolo corruttore che esercita i sovraprofitti drenati nelle colonie e negli Stati dipendenti dagli Stati imperialisticamente dominanti. È una corruzione che riguarda in particolare una parte più o meno grande della classe della classe lavoratrice dei paesi imperialisti, che, a causa di queste spesso consistenti briciole ottenute, viene a legarsi per periodi anche non brevi al sistema capitalistico nazionale.
SULL’ARISTOCRAZIA OPERAIA
Per capire la formazione e la creazione dell’aristocrazia operaia, bisogna stabilire le evoluzioni e le modificazioni sociali che la formazione di questo strato ha comportato. Peculiarità del capitalismo è di rivoluzionare continuamente i modi di produzione al fine di poter estorcere una sempre maggior quota di lavoro non pagato all’operaio. Se si guarda attentamente alla crescita di nuovi settori produttivi, bisogna rilevare è che, se da un lato, si producono strati di aristocrazia operaia, dall’altro si produce la gran massa degli operai più sfruttati. Infatti, in base allo sviluppo dei settori una sorta di “sviluppo operaio” serve solo a coprire questa fondamentale differenziazione dentro la classe operaia. Come si può spiegarsi che nello stesso processo di crescita del capitale si vengono sorbicamente a formarsi, da un lato, gli strati bassi dell’industria (come gli operai alle catene), e dall’altro gli strati privilegiati e ben pagati? Da un lato il prodotto più specifico del capitale, il suo diretto antagonista: il proletariato industriale composto da operai completamente espropriati anche del mestiere e della scienza, ridotti a semplice appendice della macchina, a mera forza-lavoro; e dall’altro i superspecializzati, capi, tecnici, che formano poi la struttura gerarchica superiore dalla fabbrica. Il legame di questi strati con il processo di crescita del capitale è dovuto dal permanere e riprodursi di “operai dei mestieri” le cui conoscenze scientifiche e tecniche non sono state del tutto incorporate nel macchinario, e dal formarsi di nuovi in realizzazione del funzionamento di macchinari più sofisticati e al controllo di una più complicata organizzazione del lavoro. La forza-lavoro che vendono è forza-lavoro complessa che ha un prezzo sul mercato, e al privilegio economico si unisce una condizione di lavoro che non li sottomette al macchinario e alla produzione di plusvalore relativo. È questa la base, della divisione tecnica del lavoro, che nella fase imperialista fa questi strati dei beneficiari di quelle briciole di cui parla Lenin. Per capire maggiormente il ruolo di strati bisogna considerare la loro collocazione che assumono nelle diverse fasi dello sviluppo capitalistico.
Nel passaggio dalla cooperazione alla manifattura, Marx come questa “sviluppa una gerarchia della forza-lavoro alla quale corrisponde una scala dei salari (…) Accanto alla graduazione gerarchica, ecco la separazione semplice degli operai in abili e non abili per questi ultimi, le spese di tirocinio scompaiono del tutto: per i primi esse diminuiscono, in confronto, all’artigiano, in conseguenza della semplificazione della funzione. In entrambi casi diminuisce il valore della forza lavoro”.[2]
“Con l’introduzione delle macchine il rapido e il rapido affermarsi della grande industria, si compie la scissione fra le potenze menali del processo di produzione e il lavoro manuale, la trasformazione di quelle in potere del capitale sul lavoro (…) La subordinazione tecnica dell’operaio all’andamento uniforme del mezzo di lavoro e la peculiare composizione del corpo lavorativo, fatto d’individui d’ambo i sessi e di diversissimi gradi di età, creano una disciplina da caserma che si perfeziona e diviene un regime di fabbrica completo e porta al suo pieno sviluppo il lavoro di sorveglianza già prima accennato, quindi assieme ad esso la divisione degli operai in manovali e sorveglianti del lavoro, in soldati semplici dell’industria e in sottufficiali dell’industria”.[3]
Il passaggio del Modo di Produzione Capitalistico nella fase imperialista ha comportato profonde ristrutturazioni sociali nelle varie classi. All’interno della borghesia, ad esempio, dallo sviluppo e concentrazione del capitale finanziario ne consegue l’aumento di quello viene definito “il ceto dei rentiers”, cioè di quelle persone che vivono “del taglio dei cedole, non partecipano ad alcuna impresa ed hanno per professione l’ozio”. [4] Nella classe operaia, le briciole dei sovraprofitti imperialisti elargite a una sua minoranza permettono di costituirne una categoria privilegiata, staccata dalla massa degli operai, legata materialmente agli interessi del proprio imperialismo. Già dalla metà del XIX secolo Marx ed Engels individuavano nella posizione di monopolio nel mercato mondiale detenuta dall’Inghilterra la possibilità di determinare l’imborghesimento di una parte del proletariato inglese e di corrompere i capi operai; e individuavano la connessione tra questo fenomeno oggettivo e il suo riflesso nell’opportunismo in seno movimento operaio. E’ Lenin che definisce, a livello dell’imperialismo ovvero del capitale divenuto sistema dominante in tutto il mondo, la collocazione dell’aristocrazia operaia. Questa è ormai il prodotto di un’evoluzione prende sì le mosse dagli strati già presenti di operai privilegiati, ma tale da modificarne la base materiale, da trasformarne decisamente i connotati di classe e creare così l’aristocrazia operaia dell’epoca imperialista. Quest’aristocrazia operaia completamente piccolo-borghese, per il suo modo di vita, per i salari percepiti, costituì il puntello della Seconda Internazionale e ai nostri giorni uno dei principali puntelli a livello sociale (non militare) della borghesia. I membri dell’aristocrazia operaia sono veri e propri agenti della borghesia in seno al movimento operaio.
Attenzione, bisogna classificare bene chi fa parte dell’aristocrazia operaia per non cadere nell’errore di comprendere all’interno di questa categoria l’insieme degli operai dei paesi imperialisti nel loro complesso; nell’affermare che il proletariato dei paesi imperialisti vive alle spalle del resto del proletariato mondiale (in particolare dei paesi di quello che è definito “Terzo Mondo” ). Per sfatare questa concezione bisogna partire dal fatto che Marx rilevò che le nazioni in cui più è sviluppata la produzione capitalista e dove in genere i salari sono più alti, e anche più sviluppata l’intensità e la produttività del lavoro, cioè esso produce nello stesso tempo più valore (e più plusvalore).
A voler essere precisi bisogna calcolare il saggio di plusvalore, cioè la velocità di sfruttamento dei lavoratori, che è molto più alta dei paesi sviluppati che in quelli arretrati, dove i loro salari sono sì più alti poiché “maggiore è la produttività di un paese di un paese rispetto ad un altro sul mercato mondiale, più alti saranno i suoi salari rispetto all’altro. In Inghilterra non solo i salari nominali, ma anche quelli reali sono più alti di quelli che sul continente. Gli operai mangiano più carne soddisfano più bisogni… Ma in proporzione alla produttività degli operai inglesi i loro salari non sono più alti (di quelli pagati negli altri paesi).[5]
Al più alto grado di sfruttamento e alla più alta produttività dei lavoratori delle metropoli imperialiste deve essere aggiunta un’importante modificazione della legge del valore che risulta da questo fatto: “Ma la legge del valore viene modificata nella sua applicazione internazionale anche dal fatto che nel mercato mondiale il lavoro nazionale più produttivo vale anche lavoro più intenso…”.[6]
Quindi, sul mercato mondiale, sono solo il lavoro dell’operaio delle metropoli imperialiste è più produttivo, ma esso crea più valore, giacché vale come lavoro più intenso.
I teorici terzomondisti e comunque tutti quelli che definiscono che la classe operaia dei paesi capitalisti come “imborghesita” ignorano (o rimuovono se in passato sono stati dei marxisti) la fondamentale questione dei salari relativi. Marx sottolineò l’importanza dei salari relativi per la comprensione dei salari operai nella società capitalista: “Ma né il salario nominale, cioè la somma di denaro per la quale l’operaio si vende al capitalista, né la quantità di merci che egli può comperare con questo denaro, esauriscono i rapporti contenuti nel salario. Innanzitutto il salario è determinato anche dal suon rapporto con il guadagno, con il profitto del capitalista. Questo è il salario proporzionale, relativo.
Il salario reale esprime il prezzo del lavoro in rapporto al prezzo delle altre merci, il salario relativo, invece, la parte del valore nuovamente creato che spetta al lavoro immediato, in confronto con la parte che spetta al lavoro accumulato, al capitale”.[7]
Marx mostra poi che i salari relativi possono anche diminuire mentre quelli reali aumentano, e che in questo caso: “Il potere della classe capitalista sulla classe operaia è aumentato; la posizione sociale del lavoratore del lavoratore è peggiorata, è stata sospinta un gradino più basso al di sotto di quella del capitalista”.[8]
È precisamente questa situazione che caratterizza la classe operaia durante l’apogeo della fase ascendente del capitalismo
salari relativi[9]
Produzione industriale pro-capite | Salari relativi | Quota dei capitalisti |
1859-68 51 | 124 | 84 |
1869-79 66 | 111 | 104 |
1880-86 83 | 96 | 104 |
1887-95 96 | 95 | 105 |
1895-1903 105 | 94 | 106 |
Così questa classe operaia riceve una parte sempre più piccola dell’enorme ricchezza che la sua forza-lavoro creava lungo questo periodo.
Detto questo, non bisogna scordarsi che il fattore che in ultima istanza determina l’aumento o meno dei salari, è il livello della lotta di classe. È solo l’impatto di una forte combattività che il proletariato potrà strappare al capitale una quantità maggiore dei mezzi di sussistenza che il suo stesso lavoro ha prodotto.
E a essere ancora più precisi è semplicistico ed errato indicare la maggiore retribuzione come appartenenza all’aristocrazia operaia (la maggiore retribuzione ne è un aspetto). Spesso e volentieri i lavoratori con salari più avanzati appartengono a categorie più combattive. La storiografia operaistica degli anni ’60-’70, ha avuto un ruolo negativo, poiché ha trascurato il ruolo rivoluzionario, d’avanguardia che ebbe per tutta una fase (quella della sussunzione formale del lavoro nel capitale) rispetto agli altri operai (basti ricordare il ruolo degli operai professionali in tutto il movimento dei Consigli in Europa e in Russia nel periodo 1917-1921), per vedere il lato conservatore (diventato predominante solo nella fase successiva della sussunzione reale del lavoro nel capitale con conseguente affermazione di quello che fu definito operaio-massa). Molti di questi storici evidentemente non hanno mai sentito parlare di aristocrazia operaia.
D’altronde parlare di alti salari sembrerebbe che sarebbe (soprattutto in una fase dove attaccati pesantemente) che sotto il capitalismo sia possibile una giusta redistribuzione del reddito. Col rischio di essere noiosi bisogna ripetere costantemente che ciò che conta sono non le buone intenzioni della borghesia, ma i rapporti di forza, che ogni conquista salariale o d’altro genere strappata alla borghesia da una categoria di lavoratori dai lavoratori di un paese, è un successo per tutti i lavoratori (indebolisce la Borghesia Imperialista, è di esempio e stimolo per gli altri lavoratori, ecc.). Altra cosa è promuovere la solidarietà dei lavoratori meglio organizzati e più combattivi verso i lavoratori più arretrati, meno organizzati, ecc. Ma ciò non ha nulla a che vedere con la questione della aristocrazia operaia. Anzi sono proprio i sindacati di regime (quindi una parte proprio dell’aristocrazia operaia) che dicono ai lavoratori dei paesi imperialisti che devono moderarsi perché prendono già molto di più dei lavoratori delle semicolonie e degli ex paesi socialisti, che predicano il livellamento al minimo.
Attualmente l’aristocrazia operaia è costituita da quella escrescenza del movimento operaio formata da: 1. funzionari e dirigenti delle organizzazioni operaie (sindacati, cooperative, casse mutue, ecc.), 2. giornalisti, scrittori e altri impiegati dei giornali, case editrici, ecc. del movimento operaio, 3. membri di parlamenti, consigli e altri enti locali in rappresentanza degli operai, 4. membri operai o “delegati dagli operai” di comitati e commissioni paritetiche, di consigli di amministrazione, di commissioni miste di studio, ecc. La borghesia imperialista esercita una precisa opera di corruzione materiale e morale, economica e culturale verso questa massa considerevole di persone, le educa a ragionare come ragionano i capitalisti (compatibilità, razionalità, ecc. tutto nell’ambito e nell’orizzonte della società attuale, quindi degli interessi della borghesia imperialista), li ammette a godere delle briciole del suo potere, del suo benessere, della sua cultura e dei suoi privilegi. Quei membri dell’aristocrazia operaia che si lasciano corrompere e si dimostrano capaci e affidabili, la borghesia li ammette a far parte della “classe dirigente” del paese. Li privilegia nella gestione della conquiste dei lavoratori (sono i primi nelle liste per assegnazione di case popolari, di premi di ogni genere, stock options, ecc.), li ammette a partecipare alle speculazioni finanziarie, a costituire società che sfruttano alcune nicchie del mondo degli affari, alcune previdenze contemplate dalla legge ma che il gran pubblico non conosce e non è comunque in condizioni di sfruttare, li favorisce con articoletti e modifichette delle leggi che passano quasi inosservate (contributi figurativi, previdenze per quello o quel caso tagliato su misura, ecc.), ecc.
Nei paesi imperialisti l’aristocrazia operaia è numerosa (in Italia probabilmente alcune centinaia di migliaia di persone) e costituisce una massa tra i membri dei partiti di sinistra (DS, PRC, PdCI, Verdi, ecc.). Essa ha un’influenza sociale molto superiore al suo peso numerico. Ognuno dei suoi membri parlando con i giornali, con la TV, ecc. parla contemporaneamente a migliaia di persone, quindi la sua voce risuona come quella di migliaia di lavoratori semplici; ha prestigio, sa districarsi nei meandri della pubblica amministrazione costruita appositamente in modo che il semplice lavoratore si perda: anche questo aumenta il suo influsso, il suo prestigio e il suo potere. A differenza del borghese, il membro dell’aristocrazia operaia ha modi di fare, relazioni, linguaggio, amicizie e frequentazioni che lo mettono a contatto con la massa della popolazione e gli permettono di fare quel lavoro di persuasione, di divisione, di corruzione morale, ecc. che il borghese direttamente non potrebbe fare.
Perciò l’opportunismo, il riformismo e il revisionismo delle organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori hanno una base sociale, ben precisa: l’aristocrazia operaia. Facciamo un esempio, nel PCI c’erano certo i piccoli e medi industriali, i commercianti della COOP (che è diventata una dei più importanti centri di distribuzione in Italia), gli artigiani ecc., ma la sua vera forza d’urto con la quale riusciva a mettere in campo ampi strati di operai e dalla quale dipendeva il suo peso contrattuale tra le varie frazioni borghesi, grazie soprattutto quella rete di funzionari molti dei quali provenienti dalla fabbrica e che avevano un certo peso nel partito. Dire che il PCI faceva gli interessi dell’imperialismo e non dell’aristocrazia operaia è un semplice gioco di parole per nascondere l’identità di interessi strategici tra l’imperialismo del proprio paese e l’aristocrazia operaia. Ma è anche il sistema più semplice per staccare i partiti dalle determinazioni economiche e sociali e collocarli nella sfera morale. Tutti i partiti borghesi (e il PCI era diventato un partito operaio borghese) fanno gli interessi dell’imperialismo, ma all’interno di questo ci sono classi e strati di classi particolari che vanno individuati. D’altronde come si spiega il cambiamento del PCI da partito proletario rivoluzionario a partito borghese? Tutta colpa di Togliatti? Sarebbe ridicolo e idealista, che tutto questo sia avvenuto solo sul piano delle idee.
Le tendenze revisioniste che si svilupparono nei partiti comunisti avevano precise radici di classe. Infatti, osserviamo in diversi paesi (es. Browder negli USA, Tito in Jugoslavia) l’allontanamento dai principi, l’affermarsi di concezioni e posizioni antimarxiste e antileniniste, è un risultato della formidabile pressione dell’imperialismo – specialmente quello egemonico nordamericano che mobilitò tutte le risorse e forze reazionarie – sulla classe operaia e le sue organizzazioni, e come effetto dell’influenza delle concezioni borghesi e piccolo-borghesi nelle file dei
partiti comunisti, portatevi dagli agenti dell’imperialismo, dagli opportunisti, da strati imborghesiti e privilegiati, e fatte passare dai dirigenti che non avevano completamente assimilato il marxismo-leninismo (la debolezza ideologica e politica dei capi del PCI e le loro deviazioni sono note, specie se consideriamo la lunga storia di dissidi con il Comintern, culminata nello scioglimento del Comitato Centrale nel 1938).
Che questo strato superiore di lavoratori quando i nodi vengono al pettine e in mancanza di mobilitazione unitaria di tutta la classe, alla fine della fiera sceglie la difesa dei propri interessi. Prendiamo come esempio la manifestazione dei 40.000 di Torino, essa è stata la chiara dimostrazione che di fronte alla crisi alcuni strati di aristocrazia operaia (capi e capetti legati alla FIAT) non si sentivano rappresentati sufficientemente dal sindacato, soprattutto quando si trattava di difendere il posto di lavoro degli operai dei livelli inferiori e ciò peraltro avrebbe comportato la perdita per il loro stipendio.
Ci potrebbe domandarsi che nella crisi le briciole diminuiscono, anche per l’aristocrazia operaia. Ma questo è solo un aspetto. Avviene che ci siano diversi capitali che non sono investiti poiché non garantiscono un adeguato saggio di profitto. Come questi capitali sono utilizzati, è una questione che dipende da diversi fattori. Infatti, nonostante il calo dei sovraprofitti, l’industria bellica s’impone come un’industria trainante. Gli Stati raddoppiano le spese militari, sono aumentati gli stipendi agli ufficiali e ai soldati in ferma permanente, e gli apparati di polizia pubblici e privati si gonfiano per garantire l’ordine interno. La crisi comporta una ristrutturazione d’interi settori industriali: gli operai a migliaia sono gettati sul lastrico e anche qualche elemento proveniente dall’aristocrazia operaia ma non significa che viene colpito questo strato nel suo complesso. L’intensificarsi dello sfruttamento operaio, l’introduzione di nuovi macchinari impone semmai il rafforzamento del comando in fabbrica: tanto più diventano indispensabili i tecnici, i caporeparti, i delegati fidati per tenere sotto controllo gli operai. Questo assicura all’aristocrazia operaia proprio nella crisi, un potenziamento del suo ruolo e maggiori occasioni di accrescere il proprio potere. Dunque se è vero che la torta da spartirsi si è ridotta, è altrettanto vero che le fette devono essere assegnate secondo il ruolo che si svolge. Certo, la lotta per la conquista dei privilegi diventa sempre più agguerrita, l’aristocrazia operaia per assicurarsi le briciole deve scendere in campo apertamente, rivendicare con più forza i propri privilegi, e in qualche occasione come a Torino nel 1980 scendere apertamente in campo contro gli operai. Più la crisi avanza e più l’aristocrazia operaia poiché strato privilegiato si sposta a destra. Se poi il proletariato arriva a ribellarsi apertamente allo sfruttamento capitalistico, cominciando ad avviare un processo rivoluzionario, essa si schiera anche militarmente con la borghesia, l’esempio più lampante è la socialdemocrazia tedesca nel periodo che va da 1918 all’ascesa del potere di Hitler.[10]
Questa stratificazione investe tutto il mondo del lavoro dipendente compreso il pubblico impiego. All’interno del pubblico impiego sono rappresentate tutte le classe sociali: al vertice della dirigenza sono installati esponenti della borghesia (ci sono dei managers provenienti dai grandi gruppi finanziario-industriali); sotto il vertice dirigenziale stanno la dirigenza intermedia, le figure professionali e una parte dei funzionari posti a capo di uffici (le cosiddette posizioni organizzative) provenienti prevalentemente dalla piccola borghesia intellettuale (per ricoprire questi ruoli intermedi bisogna essere laureati); grazie alla privatizzazione del rapporto di lavoro degli anni ’90 queste figure intermedie si sono nettamente distaccate sul piano funzionale e retributivo dalla massa dei pubblici dipendenti provenienti per la maggior parte dagli strati inferiori della piccola borghesia (in prevalenza impiegati amministrativi, docenti di scuola elementare, media e media superiore) e in parte dal proletariato (impiegati esecutivi, personale ausiliario ed esecutivo). Questa massa di impiegati ha visto peggiorare nel tempo la propria condizione retributiva.
RIPRENDIAMO IL DISCORSO SULL’IMPERIALISMO
Lenin, nota, inoltre un fenomeno interessante; che se ci si riflette sopra, è una logica conseguenza di quanto appena detto: dagli Stati dominati si sviluppa, verso gli Stati dominanti, una massiccia emigrazione di lavoratori in cerca di una migliore condizione di vita e di lavoro o addirittura di mera sopravvivenza. Viceversa non rileva nessun fenomeno inverso di emigrazione massiccia di lavoratori da Stati dominanti verso Stati dominati. In sostanza, mentre si vedono decine di bagnarole del mare pieni di africani, arabi e di altri disperati non si è ancora visto che dei disoccupati napoletani cercare di raggiungere via mare l’altra sponda.
Adesso riporto alcuni brani molto indicativi dal mio punto di vista, tratti da L’Imperialismo di Lenin, Editori Riuniti, 1973, a volte intervallati Da qualche commento.
Pag. 33
“Voglio sperare che il mio lavoro contribuirà a chiarire la questione economica fondamentale, la questione cioè della sostanza economica dell’imperialismo, perché senza questa analisi non è possibile né la guerra odierna né la situazione politica odierna”.
Ovviamente, la guerra a cui si riferisce Lenin, e la prima guerra mondiale.
Pag. 35
“La dimostrazione del vero carattere sociale o, più esattamente, classista della guerra, non è contenuta, naturalmente, nella storia diplomatica della medesima, ma nell’analisi della situazione obiettiva della classi dirigenti in tutti i paesi belligeranti. Per rappresentare la situazione obiettiva non vale citare esempi e addurre dati isolati: i fenomeni della vita sociale sono talmente complessi che si può sempre mettere insieme un bel fascio di esempi e di dati a sostegno di qualsivoglia tesi. È invece necessario prendere il complesso dei dati relativi alle basi della vita economica di tutti gli stati belligeranti e di tutto il mondo”.
E i dati relativi alle basi della vita economica di tutti gli Stati belligeranti ci dicono in modo evidente che, dopo un periodo, soprattutto gli ultimi tre decenni dell’ottocento, l’accumulazione capitalistica si era rapidamente arenata e nel primo decennio del novecento (1900-1910), le prospettive di profitto erano in discesa praticamente per tutte le nazioni belligeranti.
Pag. 36
“Il capitalismo si è trasformato in sistema mondiale di oppressione coloniale e di iugulamento finanziario della schiacciante maggioranza della popolazione del mondo da parte di un pugno di paesi <progrediti>. E la spartizione del <bottino> ha luogo fra due o tre predoni (Inghilterra, America, Giappone) di potenza mondiale, armati da capo a piedi, che coinvolgono nella loro guerra, per la spartizione del loro bottino, il mondo intero”.
Pag. 43
“Il presente libro dimostra come il capitalismo abbia espresso un pugno di Stati particolarmente ricchi e potenti che saccheggiando tuto il mondo mediante il semplice <taglio delle cedole> (…) Ben si comprende che da questo gigantesco sovraprofitto – così chiamato perché si realizza all’infuori e al di sopra del profitto che i capitalisti estorcono agli operai del <proprio> paese – c’è da trarre quanto basta per corrompere i capi operai e lo strato superiore dell’aristocrazia operaia. E i capitalisti dei paesi <più progrediti> operano così: corrompono questa aristocrazia operaia in mille modi, diretti e indiretti, aperti e mascherati”.
Pag. 47
“Uno dei tratti più caratteristici del capitalismo è costituito dall’immenso incremento dell’industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie”.
Peg. 49
“Da ciò risulta che la concentrazione , a un certo punto della sua evoluzione, porta, per così dire, automaticamente alla soglia del monopolio. Infatti risulta facile a poche decine di imprese gigantesche di concludere reciproci accordi, mentre, rendono difficile la concorrenza e suscitano, esse stesse, la tendenza al monopolio”.
Pag. 54
“Pertanto i risultati fondamentali della storia dei monopoli sono i seguenti:
- 1860 – 1870, apogeo della libera concorrenza. I monopoli sono soltanto in embrione.
- Dopo la crisi del 1873, ampio sviluppo dei cartelli. Sono però ancora l’eccezione e non sono ancora stabili. Sono un fenomeno di transizione.
3) Ascesa degli affari alla fine del secolo XIX e crisi del 1900 – 1903. I cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica. Il capitalismo si è trasformato in imperialismo”.
Pag. 57
“In maniera analoga è organizzato il ramo dei perfezionamenti tecnici nella grande industria tedesca, per esempio nella industria chimica, che negli ultimi decenni si è così poderosamente sviluppata. In questa industria, già fin dal 1908 il processo di concentrazione della produzione dato origine a due <gruppi> che, in modo loro proprio si avvicinano al monopolio (…) La concorrenza di trasforma in monopolio. Ne risulta un immenso processo di socializzazione della produzione. In particolare si socializza il processo dei miglioramenti e delle invenzioni tecniche”.
Il fatto che la concorrenza si trasformi in monopolio, come dice Lenin a pag. 49-57, non si deve intendere in modo assoluto: la produzione capitalistica è composta da centinaia di rami produttivi, chi più chi meno permeabile al processo di concentrazione. La situazione è sempre dinamica: ad un certo numero di rami che tendono al monopolio si contrappongono rami prima monopolisti che ritornano in situazione di concorrenza.
È vero che, nel complesso, il processo è tale che il numero di grossi capitali investiti in ogni ramo tende a diminuire mentre tendono ad aumentare le dimensioni di ognuno di essi; non vi potrà però mai essere un cartello unico. Infatti (per ogni ramo e anche in generale), soprattutto in fase di crisi, alla diminuzione del numero di capitali corrisponde un aumento non solo delle loro dimensioni ma anche della concorrenza tra di essi: la concorrenza, attenuta o eliminata a livello di piccoli capitali, risorge sempre più aspra tra capitali sempre più grandi, e anche se periodicamente essi si accordano sui prezzi, sulle quantità da produrre ecc…. basta una scoperta, un’occasione di piccolo vantaggio e, in fase di crisi soprattutto, gli accordi si vanificano e la concorrenza scoppia prorompente. Concorrenza che si fa sempre più vasta, e minaccia sempre di più di trascendere sul piano bellico; anche perché i capitali in questione arrivano ad essere da tale grandezza da poter influenzare la politica di interi Stati, anche grandi e potenti.
Lenin intuì infatti, al contrario di altri, che i contrasti arrivano al livello bellico molto, molto prima, che si possa formare un unico grande capitale mondiale che accorpi in se stesso tutti i rami produttivi di tutte le nazioni.
In poche parole, nonostante gli accordi temporanei, la velocità con cui si acuiscono i contrasti tra i grandi capitali, super di gran lunga la velocità con cui essi tendono a concentrarsi, e tali contrasti fanno sì che si pervenga molo prima sul piano bellico che al cartello unico, come del resto già ai tempi di Lenin la prima guerra mondiale dimostrò ampiamente.
pag. 59
“…l’evoluzione del capitalismo è giunta a tal punto che sebbene la produzione di merci continui come prima a <dominare> ed a essere considerata base di tutta l’economia, essa è in realtà è già minata e i maggiori profitti spettano ai <geni> delle manovre finanziarie”.
Pag. 62
“Liefmann, difensore accanito del capitalismo, scrive: <Quanto più è sviluppata l’economia di un paese, tanto più si volge a imprese rischiose o estere…>. “L’aumento del rischio, in ultima analisi, e collegata a un enorme incremento del capitale che, per così dire, trabocca, emigra all’estero ecc.”
Economia più sviluppata vuol dire maggior capitale accumulato: quindi, maggiore è il capitale accumulato, più è difficile farlo ulteriormente accrescere con un saggio di profitto soddisfacente: lo intuiscono anche i borghesi al tempo di Lenin.
Ed è questa la spinta agli investimenti rischiosi (anche quelli che si fanno attualmente nella finanza esclusivamente speculativa) e all’esportazione di capitali all’estero; a ricercare nella produzione un saggio di profitto maggiore di quello che si otterrebbe in patria (attualmente si chiama delocalizzazione), oppure giocare con derivati finanziari.
Pag. 64
“Questa trasformazione di numerosi piccoli intermediari in un gruppetto di monopolisti costituisce uno dei processi fondamentali della trasformazione del capitalismo in un imperialismo capitalista. Dobbiamo quindi, anzitutto, rivolgere il nostro esame alla concentrazione delle banche”.
Pag. 78
“Pertanto si giunge da un lato a una sempre maggiore fusione, o secondo l’indovinata espressione di N. I. Bukharin, a una simbiosi del capitale bancario col capitale industriale, e dall’altro lato al trasformarsi della banche in istituzioni di <carattere universale>”.
Pag. 79
“Le grandi, banche disponendo di miliardi sono in grado di promuovere nelle loro imprese i progressi tecnici ben più rapidamente che i predecessori”.
Molto interessante questa riflessione di Lenin, che fa rilevare in quanti modi il capitale finanziario possa influire sulla produzione: la concentrazione di grandi capitali è quindi indispensabile, ad un dato livello dello sviluppo dell’accumulazione, per attuare processi di ammodernamento sempre più accelerati.
Pag. 81
“<Una parte sempre crescente del capitale dell’industria non appartiene agli industriali che lo utilizzano. Essi riescono a disporre solo attraverso le banche, le quali, nei loro riguarda rappresentano i proprietari del denaro. Gli istituti bancari devono d’altronde fissare nell’industria una parte sempre crescente dei loro capitali, trasformandosi vieppiù in capitalisti industriali. Chiamo capitale finanziario quel capitale bancario, e cioè quel capitale sotto forma di denaro che viene in tal modo trasformato in capitale industriale> (Hilferding).[11]
Questa definizione è incompleta, in quanto vi manca l’accenno a uno dei fatti più importanti, cioè della crescente concentrazione della produzione e del capitale in misura da condurre al monopolio”.
Pag. 96-97
“Ci si accorge da questi dati quanto sia netto il distacco tra i quattro paesi capitalistici più ricchi, che posseggono titoli per un importo di circa 100 – 150 miliardi di franchi ciascuno, e gli altri paesi. Tra quelli, due sono i paesi capitalistici più ricchi di colonie, cioè l’Inghilterra e la Francia; gli altri due sono i paesi capitalistici più progrediti in rapporto alla rapidità di sviluppo e all’ampiezza del monopolio capitalistico della produzione, cioè gli Stati Uniti e la Germania. Questi quattro paesi insieme posseggono 479 miliardi di franchi, vale a dire circa l’80% del capitale finanziario internazionale. Quasi tutto il resto del mondo, in questa o quella forma, fa parte del debitore o del tributario di questi Stati che fungono da banchieri internazionali, di questi quattro <colonne> del capitale finanziario mondiale.
Dobbiamo ora esaminare con attenzione particolare la parte della creazione della rete internazionale della dipendenza e dei nessi del capitale finanziario è rappresentata dall’esportazione del capitale”.
Pag. 98
“Nel capitalismo sono inevitabili le disuguaglianze e la discontinuità nello sviluppo di singole imprese, di singoli rami industriali, di paesi”.
È molto importante questa riflessione di Lenin, perché fa implicitamente capire, proprio per l’instabilità e la discontinuità del capitalismo, non è possibile avere ad esempio un monopolio stabile in un ramo industriale senza che prima o poi esso venga messo in discussione; come può venire messo in discussione anche la gerarchia dei paesi imperialisti, a volto in modo drasticamente discontinuo: col confronto bellico. La prima e la seconda guerra mondiale hanno sancito il passaggio del testimone dall’Inghilterra agli USA.
Pag. 98-99.
“…in primo luogo i sindacati monopolistici dei capitalisti in tutti i paesi a capitalismo progredito, in secondo luogo la posizione monopolistica dei pochi paesi più ricchi, nei quali l’accumulazione del capitale ha raggiunto dimensioni gigantesche. Si determinò nei paesi più progrediti un’enorme <eccedenza di capitale>”.
Bisogna sottolineare che Lenin, parlando di imperialismo si riferisce a pochi (ovviamente in relazione a tutti i paesi del mondo) paesi più ricchi. Ai suoi tempi parla chiaramente di 4 paesi: USA, Gran Bretagna, Francia e Germania; oggi a questi si devono aggiungere almeno il Giappone, il Canada, l’Australia e l’Italia. pur con una evidente gerarchia e più o meno evidenti e inevitabili lotte tra loro, oggi essi insieme ad altri paesi europei minori e ed ad Israele, formano un blocco unico teso a dominare e a sfruttare le risorse naturali e umane delle altre nazioni; quello che chiamiamo spesso e volentieri Imperialismo occidentale.
Non è certamente un segreto, infatti, che oggi circa il 10% della popolazione mondiale (quella del suddetto blocco imperialista) consuma il 90” delle risorse naturali mondiali; risorse che per la maggior parte si trovano nelle altre nazioni.
Un discorso analogo può farsi per le risorse umane: ad esempio le fabbriche con tecnologia di punta presenti oggi in Cina, e in cui vengono sfruttati gli operai cinesi, in realtà appartengono per oltre il 70% a capitalisti di altre nazioni per lo più occidentali. Se questa è la situazione in Cina, paese certamente non sottosviluppato, negli altri paesi più poveri è certamente peggio.
È pur vero che, a fronte di questo gruppo di paesi oggi centro della crisi, i paesi che fanno parte del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) sono oggi in via di rapida industrializzazione e sviluppo capitalistico; ma non hanno ancora i coefficienti finanziari, militari e scientifico-tecnologici per sostituirsi al blocco imperialista dominante. Né certamente la sostituzione sarebbe indolore.
pag. 99
“Ma in tal caso il capitalismo non sarebbe più tale, perché la disuguaglianza di sviluppo che lo stato di semiaffamamento delle masse sono essenziali e inevitabili condizioni e premesse di questo sistema della produzione. Finché il capitalismo resta tale, l’eccedenza di capitali non sarà impiegata a elevare il tenore di vita delle masse del rispettivo paese, perché ciò imporrebbe diminuzione dei profitti dei capitalisti, ma ad elevare tali profitti mediante l’esportazione all’estero, nei paesi meno progrediti. In questi ultimi il profitto ordinariamente è assai alto, perché colà vi sono pochi capitali, il terreno vi è relativamente a buon mercato, i salari bassi e le materie prime a poco prezzo”.
Pur se scritto un secolo fa, è tutto dannatamente attuale.
Pag. 100
“La necessità dell’esportazione del capitale è creata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato <più maturo> e al capitale (data l’arretratezza dell’agricoltura e la povertà delle masse) non rimane più campo per un investimento <redditizio> “.
Oggi in particolare, le nazioni imperialiste più forti, riservano per sé la potenza finanziaria, quella militare, la ricerca di punta in particolare quella legata al militare e le produzioni di punta, in cui il livello di tecnologia applicato è molto alto. Tutto il resto può essere prodotto anche nelle nazioni capitalistiche non imperialiste; in cui l’investimento di capitali per comprare terre (e conquistarle come colonie) e costruire industrie è il solo mezzo per sfruttare bestialmente sia le risorse naturali che la forza-lavoro site al di fuori dei paesi imperialisti.
Pag. 100-101
“Quale solida base per l’oppressione imperialistica è lo sfruttamento della maggior parte delle nazioni dalla terra per opera del parassitismo capitalista di un pugno di Stati più ricchi”.
Pag. 101
“A differenza dell’imperialismo inglese che è imperialismo coloniale , quello francese potrebbe chiamarsi imperialismo da usurai. In Germania troviamo un terzo tipo di imperialismo: i possedimenti coloniali della Germania non sono grandi e il suo capitale di esportazione si distribuisce in misura più uguale tra l’Europa e l’America”.
Pag. 102
“La cosa più frequente nella concessione di crediti è quella di mettere come condizione che una parte del denaro prestato debba venire impiegato nell’acquisto di prodotti del paese che concede il prestito specialmente materiale da guerra, navi, ecc.”.
Anche questa riflessione è più attuale che mai.
Pag. 103
“La Francia concedendo prestiti alla Russia la <strozzò> col trattato commerciale del 16 dicembre 1905, costringendola a certe concessioni fino al 1917, e lo stesso avvenne nel trattato di commercio concluso col Giappone il 19 agosto 1911”.
Si evidenzia qui come ci sia una gerarchia (dinamica) anche tra i paesi imperialisti: anche un paese imperialista può in parte essere soggetto a sfruttamento da parte di un altro paese imperialista più potente; ma di solito lo sfruttamento che esercita all’esterno è molto superiore a quello che subisce; per cui nel complesso non si può affatto dire che il proprio proletariato sia oggetto a doppio sfruttamento.
Pag. 103
“<La costruzione delle ferrovie brasiliane si compie principalmente con capitali francesi, belgi, britannici e tedeschi: questi paesi, nel finanziare le ferrovie pongono come condizione la fornitura di materiale ferroviario> In tal modo il capitale finanziario stende letteralmente, si può dire, i suoi tentacoli in tutti i paesi del mondo”.
Così, sia per questa strada degli acquisti dei mezzi di produzione e di altre merci nella nazione che presta i capitali sia per mezzo degli interessi su prestiti (concessi da capitalisti privati o dallo Stato imperialista), i capitali usciti dalla nazione imperialista vi ritornano moltiplicati per due, per tre…(o per cinque, come gli investimenti USA del piano Marshall in Italia nel secondo dopoguerra) o di più. Quindi, ci sono flussi di capitali : uno che va dagli stati imperialisti verso gli altri, e uno di ritorno, accresciuto, che potrà essere poi reinvestito dovunque l’imperialismo trovi condizioni migliori condizioni di valorizzazione; e il ciclo si ripete.
Pag. 104
“I paesi esportatori di capitali si sono spartiti il mondo sulla carta, ma il capitale finanziario ha condotto anche a una divisione del mondo vera e propria”.
Pag. 110
“A quali preziose confessioni si vedono mai costretti gli economisti borghesi della Germania! Da esse scorgiamo, alla evidenza, come, nell’era del capitale finanziario, i monopoli statali e privati s’intrecciano gli uni con gli altri e tanto gli uni quanto gli altri siano semplicemente singoli anelli della catena della lotta imperialistica tra i monopolisti più cospicui per la spartizione del mondo”.
Pag. 113
“i capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere profitti. E la spartizione si compie <proporzionalmente al capitale>, <in proporzione alla forza>, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro sistema di spartizione. Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico. Per capire gli avvenimenti occorre sapere quali questioni siano risolte da un mutamento di potenza; che poi tali questioni siano risolte da un mutamento di potenza; che poi tale mutamento sia di natura <puramente> economica, oppure extra-economica (per esempio militare) ciò, in sé, è questione secondaria,…”.
Bisogna sottolineare, che se i capitalisti si spartiscono – conflittualmente – il mondo, è perché il grado raggiunto dall’accumulazione capitalistica “dalla concentrazione del capitale”, dall’abbassamento del saggio generale di profitto, che porta a tale concentrazione, “è tale, che li costringe questa via se vogliono ottenere dei profitti” sufficienti a contrastare la tendenza al loro abbassamento medio. Qui Lenin avvalora in maniera indiretta la tesi marxiana della tendenza alla diminuzione tendenziale del saggio generale di profitto.
Pag. 113
“L’età del più recente capitalismo ci dimostra come tra le leghe capitalistiche si formino determinati rapporti sul terreno della spartizione economica del mondo, e, di pari passo con tale fenomeno in connessione con esso, si formino anche tra le leghe politiche, cioè tra gli Stati, determinati rapporti sul terreno della spartizione territoriale del mondo, della lotta per le colonie, della <lotta per il territorio economico>”.
Pag. 115
“Il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, sicché in avvenire sarà possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio da un <padrone> a un altro, ma non dallo stato di non occupazione a quello di appartenenza ad un <padrone>”.
Pag. 116
“Ora vediamo che specialmente dopo tale periodo[12] s’inizia un immenso “sviluppo” delle conquiste coloniali e si acuisce all’estremo la lotta per la ripartizione territoriale del mondo. È quindi fuori discussione il fatto che al trapasso del capitalismo alla fase del capitalismo monopolistico finanziario è collegato un inasprimento della lotta per la ripartizione del mondo”.
Ecco qui finalmente esplicitato chiaramente da Lenin il concetto che, seppure la concorrenza all’interno della stessa nazione imperialista può attenuarsi con la comparsa dei monopoli e dei cartelli, essa si trasferisce ad un livello superiore e di maggiore asprezza che ha generato due guerre mondiali tra gli Stati imperialisti per la ripartizione del mondo, cioè dei (molti) Stati sottoposti all’imperialismo e quindi per la ridefinizione della gerarchia imperialista. Maggiore asprezza che oggi genera le continue guerre di aggressione verso i paesi che cerano anche debolmente di opporsi al doppio sfruttamento imperialista e che inevitabilmente, con l’approfondirsi della crisi, potrebbe generare una terza (e probabilmente ultima) devastante guerra mondiale.
Pag. 117
“Noi politici colonialisti dobbiamo perciò conquistare nuove terre, dove dare sfogo all’eccesso di popolazione e creare nuovi sbocchi alle merci che gli operai inglesi producono nelle fabbriche e nelle miniere. L’impero – io sempre detto – è una questione di stomaco. Se non si vuole la guerra civile, occorre diventare imperialisti. (Cecil Rhodes)[13] “.
Qui è chiaramente delineato il rapporto tra sfruttamento imperialistico e minore sfruttamento in patria, q quindi il motivo principale di quello che Engels, riferendosi all’Inghilterra, chiamando “la nullità politica degli operai inglesi”; cioè, in generale degli operai dei paesi imperialisti; per dei periodi tempo che possono essere più o meno lunghi fino a quando la crisi acuendosi non morderà davvero in profondità anche le basi materiali del loro riformismo.
Pag. 120
“Il capitale finanziario è una potenza così ragguardevole, anzi si può dire così decisiva, in tutte le relazioni economiche ed internazionali, da essere in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza politica, come di fatto li assoggetta; ne vedremo ben presto degli esempi. Ma naturalmente esso trova la maggiore <comodità> e i maggiori profitti allorché tali assoggettamento è accompagnato dalla perdita dell’indipendenza politica da parte dei paesi e popoli asserviti. Sotto tale rapporto i paesi semicoloniali costituiscono un <quid medium>. È chiaro che la lotta per questi paesi semicoloniali diventa particolarmente acuta nell’epoca del capitale finanziario, allorché il resto del mondo è già spartito”.
Pag. 121
“Soltanto il possesso coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo contro ogni eventualità nella lotta con l’avversario, perfino contro la possibilità che l’avversario si trinceri dietro qualche legge di monopolio statale”.
Pag. 121
“Senza dubbio i riformisti borghesi, e fra essi in primo luogo o kautskiani di oggi tentano di svalutare l’importanza di questi fatti rilevando che < si potrebbero> avere le materie prime sul libero mercato senza la <costosa e pericolosa> politica coloniale, (…). Ma simili rilievi, ben presto non, diventano altro che panegirici e imbellettamenti dell’imperialismo”.
Peg. 122
“Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani essere messi in valore… Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o di quella materia prima ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, con la paura si rimanere indietro nella lotta furiosa per l’ultimo lembo della sfera terrestre non ancora diviso, per una nuova spartizione dei territori già divisi”.
Pag. 123
“La soprastruttura extraeconomica, che sorge sulla base del capitale finanziario, la sua politica e la sua ideologia accusano l’impulso verso le conquiste coloniali, <il capitale finanziario non vuole libertà, ma egemonia>, dice (una volta tanto) a ragione Hilferding”.
Pag. 124
“Tale epoca è caratterizzata non soltanto dai due gruppi fondamentali di paesi, cioè paesi possessori di colonie e colonie, ma anche dalle più svariate forme di paesi asserviti che formalmente sono indipendenti dal punto di vista politico, ma che in realtà sono avviluppati da una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica”.
Pag. 124-125
(Il Portogallo) “Questo è uno Stato indipendente e sovrano, ma di fatto da oltre duecento anni, cioè dal tempo della guerra di secessione spagnola (1800-1714) , si trova sotto il protettorato dell’Inghilterra. L’Inghilterra assume le difese del Portogallo e delle sue colonie per rafforzare la propria posizione nella lotta contro le sue rivali, Spagna e Francia, ottenendo in compenso privilegi commerciali, migliori condizioni per l’esportazione delle merci e specialmente del capitale nel Portogallo e nelle sue colonie e, infine, la possibilità di usarne le isole, i porti, i cavi telegrafici, ecc… . Simili rapporti tra i singoli grandi e piccoli Stati esistettero sempre, ma nell’epoca dell’imperialismo capitalistico, essi diventano sistema generale sono un elemento essenziale della politica della <ripartizione del mondo>, e si trasformano in anelli della catena di operazioni del capitale finanziario mondiale”.
Di nuovo qui, con l’esempio del Portogallo, si evidenzia come ci sia una (dinamica) gerarchia anche fra tra i paesi imperialisti: anche un paese imperialista può in parte essere soggetto a controllo e a sfruttamento da parte di un paese imperialista più potente; ma, è questo bisogna ribadirlo, lo sfruttamento che esercita all’esterno verso paesi più deboli è molto superiore a quello che subisce da parte del paese imperialista più alto nella scala gerarchica.
Pag. 128
“Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo. Tale definizione conterebbe l’essenziale, giacché da un lato il capitale finanziario è il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali, e dall’altro lato la ripartizione del mondo significa passaggio dalla politica coloniale che si estende senza ostacoli ai territori non ancora dominati da nessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possesso monopolistico della superfice terrestre definitivamente ripartita (…)
- la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
- la fusione capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo <capitale finanziario> , di un oligarchia finanziaria;
- la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
- il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo;
- la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenza capitalistiche”.
Pag. 129
“Allo stesso fine abbiamo prodotto dati statistici circostanziati, che mostrano fino a che qual punto si sia accresciuto il capitale bancario ecc. e che cosa si sia manifestato il trapasso dalla quantità alla qualità, dal capitalismo altamente sviluppato all’imperialismo”.
Pag. 129
“Già nel 1915, e perfino dal novembre 1914, Kautsky si schierò risolutamente contro il concetto fondamentale espresso nella nostra definizione, allorché dichiarò non doversi intendere per imperialismo una <fase> o stadio dell’economia, bensì una politica, ben definita, una certa politica <preferita> dal capitale finanziario, e non doversi <identificare> l’imperialismo col <moderno capitalismo>”.
In realtà è la stessa tendenza fondamentale del capitalismo ad ottenere a breve termine il massimo profitto, in una situazione cui il profitto medio sociale tende inesorabilmente a decrescere, ad incentivare ammodernamenti sempre più giganteschi nella produzione; e per effettuarli si ha bisogno di capitali sempre maggiorie solo capitali giganteschi, ormai anche multinazionali, con disponibilità ad accedere anche alla liquidità di banche proprie, possono permettersi di restare sul mercato; e questo succede per un numero sempre maggiore, crescente, di rami produttivi.
Pag. 131
“Per l’imperialismo non è caratteristico il capitale industriale, ma quello finanziario. non per caso in Francia, in particolare, il rapido incremento del capitale finanziario, mentre il capitale industriale decadeva dal 1880 in poi, ha determinato un grande intensificarsi della politica annessionistica (coloniale).
È caratteristica dell’imperialismo appunto la sua smania non soltanto di conquistare territori agrari, ma di tener mano anche su paesi fortemente industriali (bramosie della Germania sul Belgio, della Francia sulla Lorena), giacché in primo luogo il fatto che la terra è già spartita costringe, quando è in corso una nuova spartizione, ad allungare le mani su paesi di qualsiasi genere, e, in secondo luogo, per l’imperialismo è caratteristica la gara di alcune grandi potenze in lotta per l’egemonia, cioè per la conquista di terre. Diretta non tanto al proprio beneficio quanto ad indebolire l’avversario e a minare la sua egemonia (per la Germania il Belgio ha particolare importanza come punto d’appoggio contro l’Inghilterra, per questa a sua volta è importante Bagdad come punto d’appoggio contro la Germania ecc.)”.
Pag. 131-132
“Kautsky invece, con la sua definizione del moderno imperialismo si fa beffe della concretezza storica! (Non vede) cioè:
- la concorrenza di diversi imperialismi;
2) la prevalenza del finanziere sul commerciante;
Mentre se si trattasse soprattutto della annessione di territori agricoli per opera di Stati industriali il commerciante avrebbe la funzione più importante.
La definizione di Kautsky non soltanto è erronea e non marxista, ma serve di base a tutto un sistema di concezioni che sono in aperto contrasto con la teoria e la prassi marxista. (…) L’essenziale è che Kautsky separa la politica dell’imperialismo dalla sua economia interpretando le annessioni come politica <preferita”> del capitale finanziario, e contrapponendo ad essa un’altra politica borghese, senza annessioni, che sarebbe secondo lui possibile sulla stessa base del capitale finanziario. Si avrebbe che i monopoli nella vita economica sarebbero compatibili con una politica non monopolistica, senza violenza, non annessionista; che la ripartizione territoriale del mondo, ultimata appunto nell’epoca del capitale finanziario e costituente la base della originalità delle odierne forme di gara tra i maggiori Stati capitalisti, sarebbe compatibile con una politica non imperialista”.
Kautsky non capisce, com tanti cosiddetti “marxisti” oggi, che è l’economia che comanda sulla politica: cono i capitalisti dei gruppi finanziari più potenti che davvero spingono gli Stati nazionali, anche i più forti, e i loro governi, a fare una certa politica e non un’altra, e non sono certo i capi dei governi e tanto meno i politici dei vari parlamenti a spingere autonomamente in tale direzione, come di solito pensa la maggior parte della gente: essi sono di solito i servi ben pagati del padrone.
Kautsky, quindi, innzaitutto non è marxista perché pensa, al pari di tanta gente, che sia la politica a comandare sull’economia e non viceversa. Proprio perché non capisce questo, Kautsky pensa che ci potrebbe essere un capitalismo buono, con bravi governanti, che non fa annessioni coloniali, e uno capitalismo, con cattivi governanti, che le fa… come si vede, le illusioni delle terze vie sono antiche e sono dure a morire.
Di fatto, non capendo le cause prime dei fenomeni, ragiona a bocce ferme e non vede lo sviluppo storico del capitalismo; per poterci essere, ammesso e non concesso, una situazione come lui la desierebbe, si dovrebbe tornare indietro ad una situazione non monopolistica; ma bisognerebbe utilizzare la macchina del tempo.
Pag. 133
“Kautsky <obietta> a Cunow[14] : no, l’imperialismo non è il capitalismo moderno, ma semplicemente una forma della politica del moderno capitalismo, e noi possiamo e dobbiamo combattere tale politica, dobbiamo contro l’imperialismo, contro le annessioni, ecc. (essa)[15] non è che una più raffinata e coperta propaganda per la conciliazione con l’imperialismo, giacché una <lotta> contro la politica dei truts e delle banche si riduce ad un pacifismo e riformismo borghese condito di quieti quanto pii desideri.
Pag. 133
“Scrive Kautsky <non può escludersi che il capitalismo attraverserà ancora una nuova fase: quella dello spostamento della politica dei cartelli nella politica estera. Si avrebbe allora la fase dell’ultra-imperialismo>, cioè del super-imperialismo, della unione degli imperialismi di tutto il mondo e non della guerra tra essi, la fase della fine della guerra in regime capitalista”.
Pag. 134
“E’ possibile un <ultra-imperialismo> dal <punto di vista strettamente economico>, oppure esso non rappresenta che un’altra che un’ultra- stupidità?”.
Pag. 134
“Le chiacchere di Kautsky sull’ultra-imperialismo favoriscono, tra l’altro, una idea profondamente falsa e atta soltanto a portare acqua al mulino degli apologeti dell’imperialismo…”.
Pag. 136
“Il capitale finanziario e i trust acuiscono, non attenuano, le differenze nella rapidità di sviluppo dei diversi elementi dell’economia mondiale. Non appena i rapporti di forza sono modificati, in quale altro modo in regime capitalistico si possono risolvere i contrasti se non con la forza?”.
Ancora una volta Lenin centra il nocciolo della questione: ed è un nocciolo che tutt’oggi, tanti, economisti, politici, ecc. non riescono a vedere e a capire (ma forse sarebbe meglio dire che non vogliono vedere o capire): poiché i rapporti di forza tra i gruppi capitalistici e anche tra gli Stati si modificano inevitabilmente, i contrasti tra i gruppi oligopolisti e monopolisti si acuiscono tanto più quanto più questi capitali diventano grandi e tanto più, come nelle crisi la necessità di farli fruttare diventa sempre più forte e impellente; pena l’assorbimento da parte di altri capitali o la rovina in ogni caso. E più sono grandi tali capitali, più i contrasti tra loro saranno risolti in modo devastante: se un piccolo negozio va in malora per colpa di un altro, il piccolo commerciante non può far nulla; se una piccola azienda va in malora per colpa di un’altra il padrone non può far molto più che imprecare o cercare di evitare le tasse; ma se sta andando in malora una azienda molto grande, esso può spesso influenzare la politica statale a suo favore o contro altri Stati, al punto tale da poter scatenare anche una guerra.
Pag. 138
“Si domanda: quale altro mezzo esisteva, in regime capitalista, per eliminare la sproporzione[16] tra lo sviluppo delle forze e l’accumulazione di capitale da una parte, e dall’altra tra la ripartizione delle colonie e <sfere> d’influenza, all’infuori della guerra?”.
Pag. 139
“Dobbiamo orsa esaminare un aspetto assai importante dell’imperialismo, di cui non si tiene sufficientemente conto nella maggior parte degli studi. (…) Parliamo del parassitismo che è proprio dell’imperialismo. Come abbiamo visto, la base economica più profonda dell’imperialismo è il monopolio, (…) Nondimeno questo, come ogni altro, genera tendenza alla stasi e alla putrefazione. Nella misura in cui s’introducono, sia pur transitoriamente, i prezzi di monopolio vengono paralizzati, fino ad un certo punto, i moventi del progresso tecnico e quindi ogni altro progresso, di ogni altro movimento in avanti, e sorge immediatamente la possibilità di fermare artificiosamente il progresso tecnico”.
Pag. 140
“Certo la possibilità di abbassare, mediante nuovi miglioramenti tecnici, i costi di produzione ed elevare i profitti, milita a favore delle innovazioni. Ma la tendenza alla stagnazione e alla putrefazione, che è propria del monopolio continua dal canto suo ad agire, e in singoli rami industriali e in singoli paesi s’impone per determinati periodi di tempo. Il possesso monopolistico di colonie particolarmente ricche, vaste ed opportunamente situate, agisce nello stesso senso.
E ancora. L’imperialismo è l’immensa accumulazione in pochi paesi di capitale liquido. Che, come vedremo, raggiunge da 100 a 150 miliardi di franchi di titoli. Da ciò segue, inevitabilmente l’aumentare della classe o meglio del ceto dei rentiers, cioè delle persone vivono del < taglio di cedole> (…) L’esportazione di capitale, uno degli essenziali fondamenti economici dell’imperialismo, intensifica questo completo distacco del ceto dei rentiers dalla produzione e dà un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie d’oltre oceano”.
Questa descrizione di Lenin è tuttora attuale.
Pag. 141
“nel paese più <commerciale> del mondo i profitti dei rentiers superano di cinque volte quelli del commercio estero! In ciò sta l’essenza dell’imperialismo e del parassitismo imperialista.
Per tale motivo nella letteratura economica sull’imperialismo è di uso corrente il concetto di <Stato rentier> (Rentnerstaat) o stato usuraio. Il mondo si divide in un piccolo gruppo di Stati usurai e in una immensa massa di Stati debitori.
<Tra gli investimenti di capitali all’estero – scrive Schultze –Gaevernitz[17] – primeggiano quelli fatti in paesi politicamente dipendenti o strettamente alleati: l’Inghilterra presta all’Egitto, (…) E in caso di bisogno la sua flotta da guerra funziona da ufficiale giudiziario. La forza dell’Inghilterra la preserva contro l’eventualità di una sommossa dei debitori”.
Qualcuno potrebbe obiettare che oggi gli Stati più imperialisti sono molto indebitati… ma in realtà sono indebitati per lo più con i gruppi capitalisti dei loro stessi Stati, di altri Stati imperialisti o di organizzazioni sovranazionali gestite in realtà dall’imperialismo che sovraintendono regolano sviluppo capitalistico mondiale (BCE, FMI, BRI ecc.); e non certo indebitati con gruppi capitalistici di Stati poveri. Quindi sono questi potenti gruppi che <agiscono dietro le quinte degli Stati imperialisti determinandone la politica>; e la loro politica è appunto di essere imperialisti nei confronti degli Stati, delle nazioni, dei gruppi capitalisti più deboli. E in tale politica è incluso l’uso dei potentissimi apparati militari sia statali che privati contro gli Stati più deboli che osano ribellarsi allo strangolamento finanziario e al depredamento delle risorse naturali e umane.
Pag. 141-142
“<L’Inghilterra – scrive Schultze –Gaevernitz – a poco a poco da Stato industriale si trasforma in uno Stato creditore[18] Se la grandezza assoluta della produzione industriale e dell’esportazione di prodotti industriali è aumentata, tuttavia l’importanza relativa del guadagno in interessi e dividendi, emissioni e commissioni … e speculazioni, è di gran lunga cresciuta nell’economia nazionale complessiva. Secondo me, proprio questo fatto costituisce la vera base economica dello slancio imperialistico. Il creditore è più saldamente legato debitore, che non il venditore a compratore”.
Ecco perché è l’imperialismo e non un capitalismo qualsiasi il primo nemico della classe operaia internazionale, e di conseguenza come comunisti dobbiamo, appoggiare qualsiasi movimento o qualsiasi azione che oggettivamente, indebolisca l’imperialismo; e dobbiamo ostacolare qualsiasi movimento o azione che, oggettivamente, lo rinforzi. È questo il metro principale con cui si devono misurare sia i movimenti di liberazione o di autodeterminazione, che le azioni dei vari anche borghesi, delle nazioni soggette e oppresse dall’imperialismo.
Pag. 144
“<Essi dovrebbero immaginarsi quale immensa estensione acquisterebbe tale sistema, quando la Cina fosse assoggettata al controllo economico di consimili gruppi di finanzieri, di “investitori di capitale” e dei loro impiegati politici, industriali e commerciali, intenti a pompare profitti dal più grande serbatoio potenziale che mai il mondo abbia conosciuto, per consumarli in Europa…>”.
Pag. 144 – 145
“E’ da aggiungere soltanto che anche in seno al movimento operaio gli opportunisti, oggi provvisoriamente vittoriosi nella maggior parte dei paesi, <lavorano> sistematicamente, indefessamente nelle medesima direzione. L’imperialismo, che significa la spartizione di tutto il mondo e lo sfruttamento non soltanto della Cina, che significa alti profitti monopolistici a beneficio di un piccolo gruppo di paesi più ricchi, crea la possibilità economica di corrompere gli strati superiori del proletariato, e, in tal guisa, di alimentare, foggiare, e rafforzare l’opportunismo”.
Pag. 145
“Un opportunista tedesco, Gerard Hildebrand , (…) completa brillantemente Hobson[19] col far propaganda per gli <Stati Uniti d’Europa”, precisamente allo scopo di azioni <in comune> contro … i negli dell’Africa, contro il <grande movimento islamico>, per mantenere <un esercito e una flotta poderosi> , contro una <coalizione cino-giapponese>, e così via”.
Pag. 146
“Una delle particolarità dell’imperialismo, collegata all’accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell’emigrazione dai paesi imperialisti e l’aumento dell’immigrazione in essi in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori”.
Questa è come una cartina al tornasole per vedere, anche senza considerazioni economiche, di che tipo di Paese parliamo; ad es. nei piccoli Stati come Belgio, Austria, Svizzera, Luxemburgo, emigrano gli autoctoni o immigrano massicciamente dai paesi poveri? Quindi che tipo di Stati sono? Ovviamente i suddetti Stati non hanno forza militare, ma fanno parte a pieno titolo del blocco imperialista occidentale.
Pag. 147
“In Francia i lavoratori delle miniere con <in gran parte> stranieri: polacchi, italiani, spagnoli. Negli Stati Uniti gli immigrati dall’Europa orientale e meridionale coprono i posti peggio pagati, mentre i lavoratori americani danno la maggior percentuale di candidati ai posti di sorveglianza meglio pagati. L’imperialismo tende a costituire tra i lavoratori categorie privilegiate e a staccarle dalla grande massa dei proletari”.
Pag. 148
“Lo stesso dice Engels anche nella prefazione alla seconda edizione (1892) della Situazione della classe operaia in Inghilterra.
Qui sono svelati chiaramente cause ed effetti. Cause: 1) sfruttamento del mondo intero per opera di un determinato paese; 2) sua posizione di monopolio sul mercato mondiale; 3) sua monopolio coloniale. Effetti: 1) imborghesimento di una parte del proletariato inglese; 2)una parte del proletariato si fa guidare da capi che sono comprati o almeno pagati dalla borghesia. L’imperialismo dell’inizio del XX secolo ha ultimato la spartizione del mondo tra un piccolo pugno di Stati, ciascuno dei quali sfrutta attualmente (nel senso di spremere sovraprofitto) una parte del <mondo> (…) ciascuno di essi ha sul mercato mondiale una posizione di monopolio grazie ai truts, ai cartelli, al capitale finanziario e ai rapporti da creditore a debitore;…”.
Pag. 150
“Da un lato le gigantesche dimensioni assunte dal capitale finanziario, concentratosi in poche mani e costituente una fitta e ramificata rete di relazioni e di collegamenti che mettono alla sua dipendenza non solo i medi e i piccoli proprietari e capitalisti, ma anche i piccolissimi, dall’altro lato l’inasprirsi della lotta con gli altri gruppi finanziari nazionali per la spartizione del mondo e il dominio sugli altri paesi; tutto ciò determina il passaggio della massa delle classi possidenti, senza eccezione, dal lato dell’imperialismo; furiosa difesa ed abbellimento di esso; ecco i segni della età. L’ideologia imperialista si fa strada anche nella classe operaia, che non è separata dalle altre classi da una muraglia cinese. Ché se a ragione i capi della cosiddetta <socialdemocrazia> di Germania vengono qualificati <socialimperialisti>, cioè socialisti a parole imperialisti a fatti, occorre rilevare che fin dal 2902 notò l’esistenza di <imperialisti fabiani> in Inghilterra iscritti all’opportunistica Fabian Society”.[20]
Ovviamente Lenin parla qui essenzialmente dei proletari dei paesi imperialisti.
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“…gli imperialisti tedeschi cercano di seguire il movimento coloniale di emancipazione nazionale, naturalmente nelle colonie non tedesche. Essi rilevano l’agitazione e le proteste dell’India, il movimento del Natal, delle Indie olandesi ecc.”.
Lenin mette qui in evidenza come gli imperialisti di un paese possono essere “antimperialisti” ed “elogiare” un movimento anticoloniale, solo se la colonia non è di loro proprietà, cioè solo se non è una la colonia che serve loro che serve loro per estrarre sovraprofitti.
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“Dopo la guerra contro i boeri era del tutto naturale che questo reverendissimo ceto[21] si sforzasse soprattutto di consolare i piccoli borghesi e gli operai inglesi che avevano avuto non pochi morti nelle battaglie dell’Africa del Sud e che assicuravano, con un aumento delle imposte, più alti guadagni ai finanzieri inglesi. E quale considerazione poteva essere migliore di questa, che l’imperialismo non era poi tanto cattivo, che esso si avvicinava all’inter[22] imperialismo capace di garantire la pace permanente?”.
La storia ci ha dimostrato che la pace permanente dell’ “ultra-imperialismo” l’hanno subita i proletari di molti Paesi, che ci hanno rimesso la pelle nelle due guerre mondiali, e non solo.
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“Si domanda ora se, permanendo il capitalismo (e Kautsky parte appunto da questa supposizione), possa <immaginarsi> che tali leghe sarebbero di lunga durata, che esse escluderebbero attriti, conflitti e lotte nelle forme più svariate.
Basta porre nettamente tale questione perché non si possa rispondere che negativamente. Infatti in regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’influenza, delle colone, ecc., che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, alla loro generale potenza economica, finanziaria, militare ecc. Mai i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese, truts, rami d’industria, paesi ecc. Mezzo secolo fa la Germania avrebbe fatto pietà se si fosse confrontata la sua potenza capitalista con quella dell’Inghilterra d’allora; e così il Giappone rispetto alla Russia. Si può <immaginare> che nel corso di 10-20 anni i rapporti di forza tra le potenze imperialistiche rimangono immutati? Assolutamente no”.
Qui Lenin parla dei rapporti di potenza dei vari Stati imperialisti e della loro instabilità; ma altrettanto si può dire dei vari grossi gruppi capitalisti finanziari (cioè industriali, bancari, finanziari). Anzi sono proprio i mutamenti nella grandezza e nella potenza di questi grossi gruppi capitalisti multi-nazionali (a base nazionale ma con diramazioni dappertutto) che determinano per la gran parte, di conseguenza, i mutamenti dei rapporti di potenza tra gli Stati nazionali.
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“Ammettiamo che un giapponese condanni l’annessione americana delle Filippine. Si domanda: saranno molti a credere che lo faccia per ripugnanza contro le aggressioni in genere, o non piuttosto che il desiderio di appropriarsi egli stesso delle Filippine? O si deve viceversa ritenere sincera e politicamente onesta la <lotta> di un giapponese contro le annessioni soltanto quando egli si scaglia con l’annessione giapponese della Corea e chiede per la Corea la libertà di separarsi dal Giappone?”.
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“La più cospicua manifestazione di tale monopolio è l’oligarchia finanziaria che attrae, senza eccezione, nella fitta rete di relazioni di dipendenza tutte le istituzioni economiche e politiche della moderna società borghese.
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“Monopoli, oligarchia, tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di numero sempre maggiore di nazioni più ricche o potenti: sono le caratteristiche dell’imperialismo che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente”.
In realtà il numero delle nazioni imperialiste è aumentato in un primo momento: quando scriveva Lenin ne citava solo quattro o cinque, mentre oggi si arriva a una decina: e inoltre oggi vi sono i BRICS che pur subendo una dominazione e uno sfruttamento da parte dell’imperialismo, possono tendere in prospettiva, ma non certo pacificamente, a scalzare le nazioni oggi dominanti. Ma, un secolo fa come oggi, la maggior parte del mondo era e resta sottomesso all’imperialismo.
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“Così sorge un legame tra l’imperialismo e l’opportunismo; fenomeno questo che si manifestò in Inghilterra prima e più chiaramente che altrove, perché ivi, molto prima che in altri paesi, apparvero certi elementi imperialisti”.
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“Più pericolosi di tutti da questo punto di vista, sono coloro i quali non vogliono capire che la lotta contro l’imperialismo, se non è indissolubilmente legata con la lotta contro l’opportunismo è una frase vuota e falsa”.
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“Schultze-Gaevernitz, l’entusiasta ammiratore dell’imperialismo tedesco, dice…<Se in ultima analisi la direzione di tutte le banche tedesche si trova affidata a mezza dozzina di persone, l’attività di costoro fin da oggi è assai più importante per il bene pubblico che non quella della maggior parte dei ministri>”.
Come si vede, i borghesi bene informati, capiscono molto meglio di tanta gente di “sinistra”, “comunista”, “rivoluzionaria” la supremazia dell’economia sulla politica; allo stesso modo in cui percepiscono molto meglio di essi la crisi.
[1] Kautsky Karl (1854-1938). Socialdemocratico tedesco di origine ceca; uno dei più famosi teorici della II internazionale. Si laureò all’Università di Vienna e nel 1874 entrò nel Partito socialdemocratico austriaco, per unirsi all’ala “sinistra” semianarchica del partito. In quel periodo cominciò a lavorare per la stampa democratica e socialdemocratica, specialmente con il Volkstaat; in questo periodo egli fu completamente sotto l’influenza di Lassale e degli economisti borghesi. Nel 1879 si identificò nell’opportunismo “di sinistra” del Freiheit di Most ma, lo stesso anno, su invito del riformista Höchberg, si stabili a Zurigo per collaborare con lui al suo periodico. In primavera Kautsky ricevette da Höchberg l’incarico di recarsi a Londra, dove avrebbe poi fatto conoscenza di Marx ed Engels. Iniziò cosi ad avvicinarsi al marxismo. Dal 1883 egli fu redattore della Neue Zeit, e nel 1885 si stabili a Stuttgart. Engels, nelle sue lettere, criticò più volte gli errori teorici commessi da Kautsky nei suoi scritti e le sue insicurezze come redattore della Neue Zeit. Kautsky successivamente scrisse una serie di lavori di stampo marxista, ma anche nei suoi migliori scritti fece vari e rilevanti errori; egli non seppe mai usare con metodo il materialismo dialettico e fu sempre lontano dal comprendere e dall’adottare una posizione marxista rivoluzionaria sulla questione della dittatura del proletariato. Alla fine degli anni ’90 egli fu tra i protagonisti della battaglia contro il revisionismo di Bernstein ma, nel corso di questa battaglia, manifesti grandi incertezze. Negli anni seguenti egli divenne leader del centrismo, il più grande sacerdote di quell’ “ortodossia” della II Internazionale che svilì il marxismo e servi da copertura per il revisionismo. Negli anni della prima grande guerra imperialista Kautsky fu pacifista, ma dopo la Rivoluzione d’Ottobre si schierò con violenza contro il Marxismo-Leninismo e divenne un nemico giurato della rivoluzione proletaria predicando l’intervento armato contro la Russia dei Soviet.
[2] Marx, Il Capitale, Libro I, Einaudi, Torino, pp. 428-29.
[3] C.s. p.p. 518-20-
[4] Lenin, L’imperialismo.
[5] Marx, Teorie del plusvalore.
[6] Marx, Il Capitale, Libro I.
[7] Marx, Lavoro salariato e capitale, Ed. Riuniti, Roma 1971, pag. 55.
[8] C.s. pag. 47
[9] Kuczynk J., Breve storia delle condizioni del lavoro nel capitalismo industriale nella Gran Bretagna e nell’Impero, 1944 pag. 82.
[10] E facendo anche dell’operaismo! La socialdemocrazia tedesca riuscì ad impedire a Rosa Luxemburg di prendere parola a Congresso dei Consigli Operai nel novembre 1918, in quanto non operaia, e la fece assassinare qualche settimana più tardi dai corpi franchi, agli ordini dal socialdemocratico Noske, il macellaio dell’insurrezione di Berlino del gennaio 1919. questo è un esempio di un ruolo apertamente controrivoluzionario di un certo operaismo, che ha creato il culto dell’operaio individuale. Ricordiamo ancora la lotta dell’operaio Tolain delegato francese ai primi Congressi della Prima Internazionale, contro l’accettazione di Marx come delegato. Secondo, Tolain, in nome del principio “l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”, bisognava respingere Marx perché intellettuale. Dopo il dibattito la mozione di Tolain fu respinta. Nel 1871 Tolain, si ritrovò a fianco dei Versagliesi contro l’insurrezione operaia della Comune. Quello che un certo operismo non arriva a comprendere che non sono tanto i singoli operai ad essere rivoluzionari in quanto tali, ma la classe operaia nel suo insieme.
[11] Hiferding Rudolf (1877-1941). Socialdemocratico tedesco, fu redattore della Neue Zeit e del Vorwärts tra gli anni 1907 e 1915 e direttore dal ’18 al ’22 della Freiheit. Divenuto dirigente dell’USPD (i socialdemocratici indipendenti staccatisi dal SPD in quanto avversi allo scontro bellico mondiale) si schierò a favore di una riunificazione con la socialdemocrazia. Tornato all’interno della socialdemocrazia fu deputato al Reichstag dal ’23 al ’29, ricoprendo a più riprese la carica di Ministro delle Finanze di governi borghesi. Morì in un campo di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale.
[12] Fine 800 e inizio 900.
[13] Rhodes, Cecil (1853-1902). Uomo politico inglese, emigrato giovanissimo nel Natal, sostenne l’espansione inglese nell’Africa del Sud dove fece in modo che l’Inghilterra acquistasse vastissimi territori (donde il nome di Rhodesia); promosse, d’intesa con J. Chamberlain, la guerra contro i boeri.
[14] Cunow Heinrich (1862-1936). Socialdemocratico tedesco (teorico del gruppo guidato da Scheidemann), etnografo e docente universitario. Fino al 1914 si definì marxista ortodosso e lottò contro il revisionismo, allo scoppio del conflitto mondiale assunse invece posizioni social-scioviniste.
[15] Qui Lenin si riferisce a questa posizione di Kautsky appena esposta.
[16] Parlando delle nazioni più forti.
[17] Schulze-Delitzsch (1808-83). Politico ed economista, organizzatore delle cooperative dei consumatori per gli artigiani, atte a prevenire il decadimento di questa classe.
[18] E oggi questo vale per tutti i grandi Stati imperialisti.
[19] Hobson John (1858-1940). Economista inglese i cui scritti sull’imperialismo influenzarono Lenin.
[20] Il fabianesimo (detto anche fabianismo), è un movimento politico e sociale britannico nato alla fine del XIX secolo e facente capo alla Fabian Society. Questa associazione fu istituita a Londra nel 1884 e si proponeva come scopo istituzionale l’elevazione delle classi lavoratrici per renderle idonee ad assumere il controllo dei mezzi di produzione. Prese tale nome in quanto si avvalse sempre di una tattica gradualistica e temporeggiatrice che ricordava, sotto alcuni aspetti, la politica di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, che nella lotta contro Annibale e i suoi cartaginesi si avvalse di una strategia attendista di lento logoramento.
Il fabianesimo, difatti, crede nella graduale evoluzione della società, tramite riforme incipienti che portino gradualmente al socialismo, a differenza del marxismo che predica un cambiamento rivoluzionario.
[21] I preti.
[22] O ultra