DA UTENTE A CLIENTE:LA NUOVA NOZIONE DI PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
L’attuale crisi generale del capitalismo, oltre a ridurre gli spazi per le politiche riformiste ha favorito dagli anni ’80 il prevalere di politiche economiche definite neoliberiste nei vari paesi imperialisti, questo non solo in governi tradizionalmente conservatori (come quello Tory in Gran Bretagna), ma anche in quelli riformisti (vedere come esempio le esperienze del P.S.O.E. in Spagna, del P.C.F. e del P.S.F. in Francia e del New Labour in gran Bretagna).
In questa fase si accentua la fusione tra Capitale e apparato dello Stato e come si diceva prima, si restringono gli spazi riformisti. Come conseguenza di tutto ciò, non solo sono entrate in crisi le tradizionali politiche riformiste, ma le organizzazioni politiche e sindacali riformiste accentuano il loro adattamento allo Stato borghese e il loro collaborazionismo di classe. Queste forze per difendere le compatibilità del sistema capitalista devono far ingoiare ai lavoratori ogni rospo, non solo: sfornano soluzioni per risolvere i problemi del capitalismo, sia sul piano economico-sociale che su quello politico. Ovviamente, in queste soluzioni, il proletariato è a priori subordinato e piegato agli interessi del capitale. Queste forze, nonostante che il alcune di loro rimangono dei segni del loro passato (PRC, PdCI) sono, da molto tempo, forze esclusivamente borghesi. L’importanza che hanno rivestito per la borghesia (e rivestono tuttora), sta nel fatto della loro influenza, grazie alla loro presenza in CGIL-CISL-UIL e nel sindacalismo di base, in settori di lavoratori. E grazie a questa influenza, che sono riusciti a far passare la riduzione dei salari, l’eliminazione delle pensioni, la diffusione della precarietà. Per questo sporco lavoro, molti dirigenti politici sindacali riformisti hanno come premio di fine carriera un posto negli Enti di gestione pubblica, nei ministeri o com’è successo a Bertinotti e a Marini, la presidenza della Camera e del Senato.
Le privatizzazioni e la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto
Marx, ha individuato nella caduta tendenziale del saggio di profitto, la legge fondamentale che regola il sistema capitalista.
Se noi consideriamo:
C = capitale complessivo che entra nel ciclo di produzione;
c = capitale costante (materie prime e macchinari impiegati nello stesso ciclo di
produzione);
v = capitale variabile (salari impiegati nel medesimo ciclo di produzione);
pv = plusvalore ottenuto nella produzione;
pv/v = plusvalore/capitale variabile = saggio di plusvalore o saggio di sfruttamento della forza lavoro;
pv/v/C = saggio di plusvalore/capitale complessivo (c+ v) = p’ = saggio di profitto.
Se consideriamo un saggio di plusvalore del 100% e una costante v che rappresenta la migliore condizione in cui agisce il sistema si ha:
se c = 50 v = 100 |
pv/v = 100 (100%) |
p’ = 100/150 = 66,6% |
se c = 100 v = 100 |
pv/v = 100 (100%9 |
p’ = 100/200 = 50% |
se c = 200 v = 100 |
pv/v = 100 (100%) |
p’ = 100/300 = 33% |
se c = 300 v = 100 |
pv/v = 100 (100%) |
p’ = 100/400 = 25% |
se c = 400 v = 100 |
pv/v = 100 (100%) |
p’ = 100/500 = 20% |
Se prendiamo in esame l’aspetto generale della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, osserviamo che al variare della composizione organica del capitale varia il saggio di profitto e all’aumento della composizione organica del capitale corrisponde una proporzionale diminuzione del saggio di profitto. Quindi in termini di composizione delle parti costitutive del capitale, investendo di più in materie macchinari e tecnologia che in forza lavoro (+ capitale costante – capitale variabile) il capitale restringe progressivamente l’area dalla quale attinge il plusvalore per il proprio processo di valorizzazione.
Osserviamo che al variare di c rispetto a v costantemente il saggio di profitto diminuisce.
Pure restando, fermo il saggio di sfruttamento della forza lavoro si ha un saggio decrescente di profitto in una situazione di accrescimento dell’entità del valore del capitale costante e quindi del capitale complessivo.
L’osservazione della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto rende evidente una delle massime contraddizioni dell’economia capitalista: la ricerca del massimo profitto innesca la caduta del saggio e costituisce l’ostacolo fondamentale della valorizzazione del capitale, legato al ciclo produttivo.
Marx ha spiegato che il saggio di profitto non diminuisce non perché il grado di sfruttamento diminuisce e che neanche la riduzione dei salari può annullare la diminuzione del saggio di profitto: essa può essere rallentata ma non annullata (alcune politiche che possono rallentare la caduta del saggio di profitto sono: la contrazione dei salari, i contributi dello Stato a favore delle imprese ecc.).
Tuttavia il Capitale rivoluziona continuamente i mezzi di produzione come tentativo di controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Investendo in tecnologia si aumenta la quota di capitale costante e si riduce la quota di capitale variabile. Il problema per il capitalista è a questo punto di valorizzare il fattore c che modifica tutti i fattori del capitale complessivo C.
Adesso dato un c in costante aumento e un v in costante riduzione, occorre intervenire su tutti i termini del rapporto e sui singoli elementi che lo compongono.[1]
La politica economica consiste dunque nel coniugare organicamente l’uno e l’altro aspetto aggredendo così la contraddizione da tutti i lati dentro una visione che consentirebbe di mantenere l’equilibrio del sistema. Il capitalismo monopolistico di Stato è una delle forme del capitalismo nella fase imperialista, esso è adottato dai capitalisti per mantenere il saggio di profitto e la stabilità del potere politico al loro servizio.
Il capitalismo monopolistico di Stato non cambia i rapporti di produzione, non rappresenta una novità qualitativa nei confronti del capitalismo classico, anzi è l’estrema conseguenza. Esso è un chiaro segno della decadenza del capitalismo. Le nazionalizzazioni, i monopoli statali, ecc. non sorgono, nel sistema capitalistico, come conseguenze della prosperità economica, ma come risposte alla crisi, per salvare dal fallimento e perpetuare i monopoli di questo o quel ramo dell’industria; il controllo dello Stato sull’economia nazionale serve a impedire, attraverso la centralizzazione delle decisioni, il tracollo del sistema sotto il peso delle sue contraddizioni. Il primo grande impulso all’estensione del controllo è stato dato dalla necessità di rispondere alle esigenze dell’economia di guerra; in numerosi paesi le conseguenze del primo conflitto mondiale (quali le difficoltà economiche e la crescente instabilità politica e sociale) fecero mantenere e allargare tale controllo anche in tempi di pace; esso trovò un nuovo forte impulso durante la seconda guerra mondiale; il persistere dell’intervento dello Stato nell’economia, anche nel periodo di prosperità che ci fu dopo il secondo conflitto mondiale, è una chiara dimostrazione delle difficoltà da parte del capitalismo a dominare le forze produttive materiali. Ma l’intervento dello Stato nell’economia non costituisce la soluzione dei problemi del capitalismo, non è esso che una soluzione di sopravvivenza temporanea. Non elimina le contraddizioni capitalistiche, ma le rimanda a un piano superiore, quello dei rapporti fra gli Stati, ritardando così la sua fine, ma spianando insieme la strada a una crisi tanto più intensa e generalizzata.
Possiamo prendere come esempio di come l’intervento dello Stato serva per mantenere alto il saggio di profitto, la vendita al capitale privato di settori produttivi, dove occorre l’utilizzo di tecnologia moderna. L’alto costo del settore del settore della ricerca, della progettazione degli impianti e i costi elevati per ristrutturare i macchinari sono coperti parzialmente dallo Stato e con denaro dell’intera comunità, il capitale si appropria della ricchezza sociale prodotta; ricchezza sociale che si trasferisce nelle mani del singolo capitalista.
A voler essere precisi i contributi dello Stato sono anche un rientro della parte del plusvalore che il capitalista eroga allo Stato.
Il plusvalore pv viene diviso in tre parti: ac (parte reinvestita in capitale costante, per cui esso, al ciclo successivo non sarà più c ma sarà c+ ac), av (parte reinvestita in capitale variabile, per cui esso, al ciclo successivo non sarà più v ma sarà v+ av), ed il rimanente plusvalore k.
Quindi: pv = ac + av + k.
Vediamo come viene impiegato k.
Distinguiamo 2 casi:
1) k relativo ad una qualsiasi capitale individuale.
– Una parte di esso serve all’acquisto di generi di consumo e/o di lusso da parte del proprietario (o dei proprietari) del capitale individuale; cioè serve al mantenimento del livello di vita del (dei) capitalista/i industriale/i.
– Un’altra parte serve al consumo, e quindi al mantenimento del livello di vita, degli intermediari, i commercianti.
– Un’altra parte perviene allo Stato borghese attraverso vari canali, es esso lo distribuisce a tutta una serie di strati sociali (esercito, polizie varie, giudici e avvocati ecc.) che lo impiegano per il loro consumo; oppure lo spende nella costruzione di strutture pubbliche (caserme, tribunali scuole ed uffici vari…); insomma tale parte contribuisce al mantenimento dello Stato borghese, che mentre appare a prima vista, come un ente neutrale rispetto alla lotta tra proletariato e borghesia, non è altro che il mezzo con cui la borghesia perpetua nel tempo le condizioni del suo dominio. Di questa parte, inoltre, molto può pervenire (tramite contributi di vario tipo ecc.) di nuovo alle industrie – soprattutto le grandi industrie – dove può essere reinvestito produttivamente…o in altro modo.
– Un’altra parte perviene in modo indiretto ad strati (professionisti ecc.) essenzialmente attraverso gli operai, che sono costretti a pagare più del dovuto certi servizi (es. visite mediche, consulenze di avvocati ecc.).
– Un’altra parte può pervenire per vari canali (borsa, banche, rendite ecc.) ad altri capitali individuali che possono poi usarla in vario modo: reinvestirla produttivamente, fare speculazioni, consumarla.
2) K relativo all’intero capitale complessivo sociale.
– Una parte serve al mantenimento del livello di vita di tutta la sottoclasse dei capitalisti industriali; cioè per il loro consumo.
– Una parte serve per il consumo della sottoclasse dei capitalisti finanziari, degli speculatori, dei redditieri.
– Una parte serve il consumo dei ceti che non sono propriamente capitalisti; quelli che detengono la proprietà legale del capitale (Naturalmente una singola persona può anche impersonare più d’una di queste figure, allo stesso modo in cui, sempre più un capitale individuale può essere costituito da molte parti, cioè posseduto anche da molte persone; il caso più classico oggi, ben descritto da Lenin nel suo noto libro L’Imperialismo è quello del capitalista finanziario che possiede parte della proprietà di industrie e banche).
Notiamo che, parlando del capitale complessivo sociale, le parti di k le quali, attraverso lo Stato, le banche, o altri canali, vengono reinvestite in capitali individuali, generalmente diversi da quello di provenienza, in realtà non vengono impiegate per il consumo, ma spesso per la produzione, per cui dovremmo non considerarle in k.
Il ruolo di k (parte destinata a sostenere la circolazione delle merci e parte destinata a mantenere diversi ceti) è in primo luogo quella parte di plusvalore indispensabile per la riproduzione dei capitalisti industriali, e quindi la parte indispensabile per la riproduzione del modo di produzione capitalista.
La privatizzazione delle imprese industriali e dei servizi
La privatizzazione delle imprese industriali è anche un sostegno dello Stato a un processo di speculazione finanziaria, specialmente sulle azioni, che ha messo in crisi il sistema creditizio. Se ad esempio si esamina i dati sulle privatizzazioni delle imprese pubbliche in Italia, vediamo che queste sono servite a fornire sbocchi d’investimento con un’elevata redditività al capitale privato com’è indicato dal prezzo medio decisamente basso cui finora le varie imprese sono state trasferite al settore privato (quando pure sono state pagate).
Vediamo alcuni esempi di privatizzazioni.
La privatizzazione della Telecom avvenne nel 1997. Essa comportò la quasi uscita totale del Tesoro, fu realizzata con la modalità del cosiddetto “nocciolo duro”: si vende cercando di creare un gruppo di azionisti che siano in grado di farsi carico della gestione della società. A causa della scarsa risposta degli investitori italiani, il “nocciolo duro” divenne un nocciolino: il gruppo con capofila, gli Agnelli riuniva solamente il 6,62% degli azionisti e si rilevò molto fragile. Il piano per il controllo di Telecom aveva la regia nascosta della Merril Lynch, del Gruppo bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrett e della Chase Manhattan Bank. Alla fine del 1998, il titolo del 1998, aveva perso il 20%. Le banche Chase Manhattan Bank e la Lehman Brothers si fecero avanti per attuare un’Opa. Attraverso Colanino che ricevette finanziamenti dalla Chase Manhattan Bank, l’Olivetti divenne proprietaria di Telecom. L’Olivetti era controllata dalla Bell una società con sede in Lussemburgo, a sua volta controllata dall’Opa di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno.
Nel 2001 la Telecom si trovava in gravi difficoltà, le azioni continuavano a scendere. La Bell di Gnutti e l’Unipol di Consorte decisero di vendere a Tronchetti Provera buona parte delle azioni dell’Olivetti. Il presidente della Pirelli, finanziato dalla J. P. Morgan, ottenne il controllo su Telecom, attraverso la finanziaria Olimpia, creata con la famiglia Benetton (sostenuta da Banca Intesa e Unicredit).
Dopo dieci anni dalla privatizzazione della Telecom, il bilancio è: oltre 20.000 persone licenziate, i titoli azionari hanno fatto perdere denaro ai risparmiatori (alla faccia dei propagandisti del “capitalismo popolare” e della “ricchezza per tutti” nel capitalismo) e i costi per gli utenti sono aumentati.
La Telecom, come le altre società, ha posto la sua sede in paesi esteri (per motivi fiscali), la Bell che controllava Telecom Italia, aveva sede in Lussemburgo e aveva all’interno società con sede alle isole Cayman, paradiso fiscale ben noto. Se aggiungiamo la violazione della privacy dei cittadini italiani, per conto d’interessi privati (un autentico mercato delle informazioni) ci si rende conto dei risultati di questa privatizzazione.
Anche per le altre privatizzazioni Autostrade, Poste Italiane, Trenitalia ecc. si sono verificate le medesime devastazioni: licenziamenti, truffe a danno dei piccoli risparmiatori, degrado del servizio ecc.
La società Trenitalia è stata portata sull’orlo del fallimento. In pochi anni il servizio è diventato sempre più scadente, i treni sono sempre più sporchi, il costo dei biglietti continua a salire e risultano numerosi disservizi. A causa dei tagli (non c’è più il secondo conducente), si sono verificati diversi incidenti (anche mortali).
Alla fine, queste privatizzazioni sono state una forma che ha consentito a grossi capitalisti nazionali e internazionali di appropriarsi della ricchezza sociale prodotta
Per quanto riguarda la privatizzazione dei servizi come la sanità è ancora più evidente, come questi servono a offrire un campo d’investimenti assai vantaggioso al capitale privato. Qui il processo si presenta come la cessione da parte dello Stato di servizi a imprese private, tramite gare d’appalto. Questo risponde all’esigenza di garantire un mercato di sbocco a una massa di capitali crescenti a un alto saggio di profitto realizzato e dalla certezza di rientri del capitale.
stato sociale
Lo Stato assolve, per il modo di produzione capitalistico, il ruolo di fornirgli garanzia politica, che abbraccia tanto la conservazione del sistema, tanto l’attenuazione, anche a vantaggio in certi momenti delle classi popolari, dagli eccessi del sistema e svolge l’attività nel ciclo del capitale attraverso gli strumenti del credito, delle sovrastrutture portuali, aereoportuali, ferroviarie e straduali, dei servizi, degli enti locali, dei particolari vantaggi riservati alle imprese su scala locale e infine dell’industria di Stato.
I servizi come la sanità pubblica, sono cresciuti negli anni ’60 e ’70 in misura maggiore che non ora, grazie all’attuazione delle politiche Keynesiane, in quel periodo lo Stato aveva moltiplicato il suo intervento nell’economia. In Italia negli anni ’30 si crearono l’I.M.I. e l’I.R.I., in particolare quest’ultimo istituto svolse un ruolo centrale nell’industrializzazione postbellica in molti settori strategici (chimica, siderurgica, auto ecc.). Ma proprio perché lo Stato è il servo del Capitale e non viceversa, si ebbero le privatizzazioni molto convenienti per gli acquirenti, addirittura mirate a chiudere attività economiche economicamente redditizie a favore di acquirenti stranieri. Il che ridusse considevolmente il peso dello Stato.
I vari servizi, a prezzo ridotto e l’assistenza sanitaria gratuita, creati da queste politiche, forniti ai lavoratori da parte dello Stato, sono sempre stati pagati dall’insieme dei lavoratori allo stesso Stato. La privatizzazione di tutto o di parte di questi servizi, comporta nel bilancio pubblico, la creazione di “fondi liberi” che provengono dai lavoratori, ma che non sono spesi per loro. L’obiettivo economico è quello di mettere i capitalisti al sicuro in caso di crollo economico, accaparrando i fondi delle liquidazioni dei lavoratori dipendenti e preparandoli alla dismissione dell’INPS.
In Italia, questo sistema di trasferimento dalla busta alla spesa pubblica, ha avvantaggiato sia i singoli capitalisti (con la Cassa Integrazione Guadagni, la fiscalizzazione degli oneri sociali ecc.) sia lo Stato, poiché la spesa di quest’ultimo è stata inferiore al prelievo fiscale. Dalla metà degli anni ’70, con l’inizio della crisi, i vari stati capitalisti hanno fornito sempre meno servizi del Welfare-State.
In qualche modo quest’abbattimento del Welfare-State è stato maggiore negli anelli deboli della catena imperialista, come l’’Italia, il Messico, la Turchia ecc.
Nonostante la privatizzazione, la performance in termini d’aumenti di profitti, crescita degli investimenti, innovazione tecnologica e così via, non è molto differita per le aziende statali passate sotto la gestione privata, ciò dimostra che il settore capitalistico privato non ha meravigliose e magiche risorse. Inoltre, bisogna tenere presente, che la quota di capitale impiegato per le privatizzazioni è in realtà ancor oggi modesto rispetto al totale teoricamente privatizzabile. Questo fatto, che può apparire un paradosso, è la conseguenza dell’attuale crisi generale di sovrapproduzione di capitale, che tra le tante conseguenze che provoca è il gonfiamento delle attività speculative, finanziarie e commerciali che diventano preminenti rispetto alle attività del capitale impiegato nella produzione. Non bisogna mai dimenticare che l’obiettivo del capitale rimane sempre il profitto e che i pescicani maggiori ingoiano i minori, soprattutto con attacchi di tipo finanziario e commerciale.
Il cosiddetto “sistema Italia”, è in realtà una bubbola politica per nascondere a livello di regime gli scompensi molto profondi della rete economica italiana, e il fatto che da decenni dalle componenti più forti del capitale nazionale sta liquidando il patrimonio economico nazionale. Questo lo fa non perché è autolesionista ma poiché a fronte alla crisi in atto ha bisogno, per essere concorrenziale, di forti ristrutturazioni e della necessaria liquidità. Per avere una presenza indicativa nei settori strategici ad alta tecnologia, la borghesia italiana ha bisogno d’alti investimenti in capitale fisso. Come abbiamo visto lo Stato sarebbe l’unico in grado di favorirne l’incremento, ponendo, contemporaneamente, la gestione della ricerca sotto il controllo delle imprese. Il maggiore legame dell’Università, del CNR ed ENEA dell’Enea, con i progetti dell’impresa, le agevolazioni sui crediti d’imposta al consorzio di piccole e medie imprese, sono alcune delle misure contenute nel Luglio del 1993 tra Governo, Sindacato e Confindustria, tendenti a ridurre almeno in parte i divari esistenti in ambito internazionale.
Gli aiuti statali alle imprese e la “redditività” ossia la diminuzione dei salari, sono i cardini della politica borghese che oggi viene portata avanti.
Da utente a cliente: la nuova nozione di pubblica amministrazione
E’ in atto da tempo una profonda delegimitizzazione della pubblica amministrazione, accompagnata da una campagna dei mass media, volta a dimostrarne l’inefficienza, lo sperpero, l’inutilità e l’anti economicità per gli interessi della “collettività”. In sostanza si agisce per una piena “modernizzazione” del settore pubblico, secondo quelli che sono i principi dell’impresa capitalista.
In Italia questa ristrutturazione della P.A. ha avuto il suo momento principale di elaborazione sotto i Governi Amato (1992) e Ciampi (1993). In sintesi gli strumenti di tale ristrutturazione sono stati:
1) Il rapporto sulle condizioni delle pubbliche amministrazioni (volto a dare una diagnosi analitica dello stato della pubblica amministrazione, del suo quadro normativo, della struttura organizzativa, dei processi decisionali e del sistema controlli, con l’identificazione delle principali mancanze e incongruenze).
2) La proposta d’indirizzo per la modernizzazione della pubblica amministrazione che formula le principali ipotesi di riforma).
3) La Carta dei servizi (che definisce i rapporti tra cittadini utenti e i lavoratori che erogano servizi pubblici).
I passaggi legislativi più importanti sono stati:
1) L’accordo del 31 luglio 1992 tra Governo e sindacati confederali, il “protocollo sulla politica dei redditi, la lotta all’inflazione e il costo del lavoro”. In questa sede, fu sancita in via definitiva la rinuncia definitiva da parte sindacale della scala mobile, il Governo s’impegnò a riformare la previdenza, il pubblico impiego e il fisco.
2) In questo periodo il Consiglio di Stato si esprime a favore della privatizzazione del pubblico impiego per i lavoratori che svolgono funzioni puramente esecutive.
3) Il D.Lgs (Decreto Legislativo) 29/1993 sulla privatizzazione del pubblico impiego. Con tale decreto viene esteso a quasi tutti i dipendenti, il rapporto privatistico di lavoro. Permane il rapporto pubblicistico soltanto per alcune categorie tra cui i dirigenti generali.
4) La legge 59/97. In tale legge si stabilisce una netta distinzione tra funzioni d’indirizzo in capo all’organo politico e funzioni gestionali in capo all’organo burocratico.
5) La sentenza della Corte Costituzionale n. 309/97 si esprime a favore della privatizzazione del pubblico impiego.
6) Il Decreto Legislativo 396/97 che sancisce il monopolio dei “sindacati maggiormente rappresentativi” alias C.G.I.L. – C.I.S.L.-U.I.L. sulle R.S.U. del pubblico impiego.
7) Il Decreto Legislativo 80/98 con il quale sono privatizzati i dirigenti generali che sono nominati direttamente dall’organo politico, senza passare attraverso un concorso.
8) Il Decreto legislativo 286/99 con il quale viene introdotto i controlli interni (strategico, di gestione, di regolarità amministrativo contabile e la valutazione dei dirigenti). Si stabilisce il principio che gli organi addetti al controllo strategico, di gestione e alla valutazione dei dirigenti se ravvisano irregolarità amministrativo-contabili non sono tenuti a fare denuncia alla Corte dei Conti.
9) La Legge 145/2005 che stabilisce il principio spoils system alle nomine di dirigenti e fa decadere le nomine effettuate dal precedente governo.
10) La sentenza n. 233/2006 della Corte Costituzionale che dichiara la legittimità costituzionale dello spoils system.
11) Il memorandum sul pubblico impiego del 29.11.06 del Ministero dell’economia e del Ministero della funzione pubblica e sottoscritto dai sindacati il 18 gennaio 2006, con il quale avanza la privatizzazione e l’esternalizzazione nel pubblico impiego.
MEMORANDUM
Gli aspetti principali del memorandum sono:
1) Misurazione della qualità e quantità dei servizi. È esaltata la produttività e sono previste delle sedi di valutazione con la partecipazione di amministrazione, sindacati e utenti.
2) Accesso al pubblico impiego e pianificazione del turnover. Il concorso pubblico resta la regola ma la scelta dei settori di destinazione delle assunzioni deve essere periodica e continua. In tal modo il potere decisionale sulle nuove assunzioni viene accentrato nelle mani del governo.
3) Dirigenza. Viene eliminato ogni automatismo di carriera. Incarichi e retribuzioni saranno assegnati in base ai risultati ottenuti. Lo stesso meccanismo viene applicato alle posizioni organizzative. Più un dirigente saprà torchiare il suo personale e più farà carriera e quattrini.
4) Formazione e aggiornamento. La formazione non avrà peso per la carriera di dirigenti, l’importante non è essere intelligenti ma come si diceva prima, essere capaci di spremere i lavoratori.
5) Percorsi professionali. Su tutti, peserà la produttività e la valutazione. Cioè aumento dei carichi di lavoro e del clientelismo.
6) Mobilità territoriale e funzionale. Nei casi dove il personale è in sovrannumero, sarà applicata la mobilità (che potrà essere anche geografica). In un’intervista del 20 gennaio 2007 al Corriere della Sera il Ministro della Funzione Pubblica Nicolai ha detto che sarà possibile spostare un lavoratore da Bari a Milano anche contro la sua volontà e senza aver bisogno del nulla osta del sindacato.
7) Esodi. Sarà la naturale evoluzione della mobilità del personale in esubero che non può o non vuole essere ricollocato.
8) Contrattazione integrativa. Anche in quest’ambito deve essere esaltata la produttività con risultati mirati nella quantità e qualità dei servizi come ad esempio: ampliamento degli orari dei servizi, riduzione dei tempi di attesa ecc. Le risorse disponibili devono essere stabilite nel contratto nazionale. In tal modo con un sol colpo viene svilito il contratto decentrato e il ruolo delle RSU.
9) Esternalizzazione, precariato e telelavoro. Le esternalizzazioni sono per le cosiddette attività no core (mense, trasporti pubblici, gas, elettricità, raccolta dei rifiuti, acqua,). I precari dovrebbero essere assunti dopo aver superato una prova selettiva. Grazie alle nuove tecnologie è previsto un maggior ricorso al telelavoro.
ARAN
Un passo importante verso la privatizzazione del pubblico impiego è stato la costituzione dell’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN). L’ARAN, è diretta da un comitato di cinque membri (nominato dal governo) e ha il compito di far transitare le amministrazioni pubbliche in un contesto privatistico. Attraverso questo strumento il governo è in grado di aggirare l’ostacolo del parlamento, le pressioni dei partiti e di evitare che settori della rappresentanza politica intervengano direttamente nelle specifiche decisioni di taglio della spesa, le quali sono poste direttamente sotto il comando di organismi come la Banca d’Italia. Le regole del gioco sono stabilite in una concertazione informale fra padronato, governo, segreterie di partito e sindacali (ovviamente C.G.I.L. – C.I.S.L. – U.I.L.), prima del dibattito sulla legge finanziaria e che si stabilisca l’entità della spesa da assegnare ai contratti. Dopo questi incontri, entra in scena l’ARAN, presentandosi come attore che, con limitata autonomia finanziaria, distribuisce le risorse fra gli otto comparti del pubblico impiego, le risorse dedicate.
Una delle preoccupazioni centrali e costanti dell’ARAN sono di evitare il conflitto e riassorbire nell’orbita neo corporativa della collaborazione di classe tutti i soggetti con i quali entrano in rapporto. Non è un caso che è una costante, il prendere delle misure tese a garantire il monopolio di C.G.I.L.-C.I.S.L.-U.I.L. e di tutte le organizzazioni sindacali consociative (come i vari sindacati autonomi), escludendo la possibilità agli altri soggetti organizzati. Una delle specificità in cui l’ARAN sotto le righe si vanta, è quella di aver consolidato successi senza conflitti: in Italia le politiche di deregulation e taglio delle spese sono state fatte quasi tutte con il coinvolgimento dei sindacati.
Sul fronte sindacale, le strategie dichiarate dall’ARAN sono: cambiare la struttura della contrattazione collettiva; decentrare la contrattazione, far partecipare il sindacato a molti aspetti della gestione delle amministrazioni, con l’obiettivo di corresponsabizzarlo nell’attribuzione delle risorse ed evitare conflitti nel momento in cui dovranno essere fatte scelte più incisive di contenimento della spesa (licenziamenti o esternalizzazioni).
Nel centrare la sua attenzione sulla spesa e sul suo contenimento, da attuare attraverso il controllo delle modalità di determinazione dei salari, l’ARAN individua alcuni interventi:
1) Vincolare la crescita dei salari pubblici ai salari privati (i salari pubblici, più garantiti, dovranno costituire il freno alla crescita dei salari privati ed essere bassi).
2) L’inversione di tendenza verso il basso non deve essere brusca, ma diluita nel tempo.
3) Introdurre salari legati alla prestazione, per combattere la rigidità dei salari, cioè la certezza di un salario stabile per il lavoratore.
L’ARAN agisce sui salari come strumento di gestione della forza lavoro e della flessibilità, e con la collaborazione dei sindacati collaborativi intende combattere le seguenti rigidità:
1) La rigidità della struttura del salario, lasciare un salario minimo in diminuzione e aumentare il salario accessorio.
2) La rigidità dei sistemi d’inquadramento professionale. Attacco graduale al sistema delle qualifiche funzionali, con un nuovo reinquadramento in declaratorie di profilo professionale arricchite di nuove mansioni lavorative, con lo stesso salario.
3) L’appiattimento dei differenziali salariali. Aumentare moltissimo gli stipendi ad alcune categorie, con un forte sventagliamento tra operaio e dirigente, in funzione di divisione del personale e di un comando gerarchico dei lavoratori, prevedere fasce flessibili intermedie e lasciare la massa in posizione di attesa di promozione nel salario minimo, con paga base in diminuzione.
4) L’ARAN intende intervenire rispetto agli automatismi legati all’anzianità, flessibilizzando quest’istituto, essendo quest’ultimo l’unica sicurezza di progressione economica.
5) Superare le rigidità dei sistemi di promozione interna, attraverso meccanismi molto privatistici e discrezionali (attraverso l’abolizione del concorso pubblico).
Tra gli aspetti chiave della flessibilità nel pubblico impiego l’ARAN considera centrale la mobilità interna. La mobilità, laddove serva a ridimensionare il numero degli occupati, può essere utilizzata per introdurre nuove gerarchie e cambiarle spesso, avviare una selezione del personale basata sulla capacità di adattarsi al cambiamento. Non solo, essa contribuisce a rendere arrendevole il dipendente alla volontà dell’amministrazione e lo prepara ad accettare senza discutere successive disposizioni.
Per convincere la cittadinanza che la privatizzazione è utile, l’ARAN utilizza questi argomenti:
1) Più il pubblico impiego si privatizza, più sarà efficiente verso le esigenze dell’utenza.
2) Le attività saranno più efficaci se organizzate in conformità a criteri di mercato.
La formazione dei dirigenti si basa essenzialmente su questi principi cardine della strategia del New pubblic management, che comporta la trasformazione del termine di chi usufruisce dell’erogazione del servizio pubblico, da utente a cliente. Di fronte alle disfunzioni reali del servizio pubblico, questi argomenti rischiano di essere convincenti.
Un argomento che può utilizzare l’ARAN rispetto ai dipendenti è che con la privatizzazione si “aumentano gli stipendi”.
Ma se il compito dell’ARAN è quello di tagliare la spesa pubblica secondo le direttive che le sono fornite e con i mezzi più adatti, le tecniche per il “risanamento” devono tener conto della necessità di evitare il conflitto, per questo motivo si prevede un incremento stipendiale per alcuni lavoratori rispetto al resto massa salariata. In particolare s’individuano due tecniche intermedie:
1) La costruzione di un’élite tra i dipendenti svincolata da compiti operativi, un’élite alla quale non siano richieste particolari capacità o competenze se non quelle dell’esecuzione del comando e della sua trasmissione.
2) La formazione di “indicatori di prestazione”, per mettere in concorrenza il pubblico con il privato. Con questo sistema si possono aumentare i ritmi, tenere bassa la paga –base. Il lavoratore entra così in competizione con se stesso per superare lo standard dei colleghi del suo gruppo. Nel Regno Unito, per aumentare gli stipendi a una dirigenza in grado di operare i tagli, si fece ricorso a restrizioni sull’occupazione. Si divise il personale attraverso la tecnica della high quality, cioè solo a un numero limitato di dipendenti può accedere a determinati istituti del salario di merito. In Italia nei contratti del pubblico impiego si utilizza la tecnica del numero fisso, per aumentare i salari su base fiduciaria. E’ così che la dirigenza seleziona il personale giustificando un “incremento stipendiale”.
Sempre seguendo l’esempio inglese, la prima fase della privatizzazione consiste da parte delle amministrazioni pubbliche nell’appaltare i servizi ausiliari (non solo pulizie, mense, lavanderie ma anche come in Regione Lombardia centralino, portinerie e commessi). L’introduzione, nei servizi esternalizzati di personale con diversi contratti flessibili di lavoro, rende più malleabile i lavoratori di qualifica media bassa, con scarso potere contrattuale.
In Italia si procede in due grandi direzioni. Da una parte si vuole far funzionare l’amministrazione pubblica secondo principi di mercato, come se fosse già del tutto privatizzata: le spese fisse rimangono accollate ai contribuenti, i quali pagano anche i servizi e l’aumento del loro costo secondo prezzi di mercato, mentre la gestione di esercizio, i profitti, va al privato. La scelta della privatizzazione di alcuni settori o d’interi servizi (elettricità, gas, telefonia, trasporti) è legata alla profittabilità degli stessi. Dall’altra si provoca il “dimagrimento” delle amministrazioni che non saranno interamente privatizzate (scuola, università, sanità), frammentandole e dividendo le parti che saranno usate dal privato, ma pagate dallo stato, da quelle che possono essere vendute o appaltate.
Il meccanismo di quasi mercato dovrebbe produrre la competizione fra i centri di spesa (o centri di costo). La quantità di risorse fornita dallo Stato alla singola amministrazione o dall’amministrazione alla singola struttura, dipende dalla capacità dei fornitori di servizi (ogni servizio o più servizi consociati), in competizione fra di loro, di aggiudicarsi gli acquirenti. Nella prima fase viene attribuito a tutte le strutture decentrate, ad esempio ai dipartimenti universitari, un budget virtuale (stipendi, affitto, energia elettrica, telefoni, carta, ecc.), sul quale possono cominciare a operare tagli. In seguito l’attribuzione del budget varia secondo la capacità della struttura di stare sul mercato e di risparmiare sulle spese fisse, a partire dalle spese per il personale che in genere incidono per l’80-90% sul budget. Nelle scuole e nelle università italiane, al meccanismo è stato dato il nome di “autonomia” (riforma Berlinguer), per l’esigenza di conciliare una privatizzazione impedita dalla Costituzione con un’autonomia che la Costituzione auspicava.
Secondo l’Aran il meccanismo di quasi mercato è una strategia per il consolidamento della struttura dello Stato, che riuscirebbe a mantenere una forte centralizzazione. Il decentramento sul piano operativo ed esecutivo, presentato con una campagna d’immagine connotata positivamente, provoca, infatti, una crescente centralizzazione strategica e decisionale. Per la ripresa di un forte comando e nella direzione di un progressivo accentramento, si ritiene più conveniente non utilizzare modalità gerarchiche dirette, almeno nella fase intermedia, ma ricorrere a codici etici condivisi , per ogni standard professionale, o a nuove tecniche di controllo e verifica. Molte gerarchie intermedie possono essere eliminate per concentrare l’attenzione della nuova dirigenza su altri processi e controlli.
Sono gli inglesi, negli anni `80, ad introdurre in Europa il ruolo del dirigente generale, del manager pubblico, con contratto a termine e con ampi poteri per quanto riguarda la diminuzione del personale. Nel Regno Unito, con la pratica degli appalti, diminuì il numero complessivo degli occupati nel settore, il cui budget di spesa fu utilizzato per l’incremento del numero dei dirigenti, che da 6.000 diventarono 20.000, e delle loro retribuzioni, che aumentarono dell’8,7% all’anno. In Italia ai dirigenti pubblici, assunti con contratto di diritto privato, 100-300 milioni è il prezzo medio di una persona in staff dirigenziale, cifra dalla quale partono, a cascata, le richieste di aumenti salariali, o di gettoni di presenza, di chi riveste posizioni importanti nei tagli e nelle ristrutturazioni.
La nuova direzione manageriale utilizza strumenti di cambiamento ampiamente sperimentati negli altri paesi – quelli della flessibilità: contratti a termine, cambiamenti negli orari di lavoro, part-time, interinale, ecc. La misura ottimale per limitare l’incremento generalizzato dei salari è quella dell’introduzione di salari variabili, legati alla prestazione. Il controllo delle retribuzioni è un elemento essenziale della strategia, che può essere così riassunta:
1) Cancellare le vecchie regole (deregulation); introduzione di nuove regole;
2) Tagliare;
3) Decentrare tutte le parti operative, se l’intervento pubblico è significativo;
4) Decentrare solo le modalità di produzione e di erogazione di un servizio, se lo stato è già snello;
5) Flessibilizzare il lavoro; fine del concetto di un lavoro per tutte la vita; sviluppare lavori temporanei e a termine: incrementare la mobilità;
6) Aumentare la produttività, anche coinvolgendo il personale, con premi ed incentivi;
– sviluppare il no-profit;
– ridefinire la missione sul “prodotto”;
– avviare la concorrenza.
Per decentrare al massimo i tagli e centralizzare le politiche dei finanziamenti, sono state usate le seguenti tecniche: il sistema del limite di cassa; l’opzione tra aumenti retributivi e livelli occupazionali (il budget unico); una parte più attiva della dirigenza nel processo di negoziazione. Il sistema del limite di cassa è stato lo strumento preferito dai governi, perché impediva agli amministratori di pianificare e di ricevere poi finanziamenti aggiuntivi per far fronte a imprevisti aumenti di salari e di prezzi. È un sistema rigido. Si stanzia la cifra e si chiede ai dirigenti un atteggiamento “responsabile”: la dirigenza viene retribuita anche in rapporto al risultato che porta a casa, cioè alla sua capacità di operare tagli sulla spesa, riduzione degli occupati e intensificazione dei ritmi.
La “parte politica”, che ha il comando dell’operazione, può sempre scaricare la responsabilità sul dirigente generale, assunto a termine, con contratto di diritto privato, anche perché possa andare da un’altra parte quando l’aria diventerà pesante. La privatizzazione italiana in molti settori sta seguendo più o meno gli stessi percorsi dei paesi anglosassoni: si creano agenzie (enti, o strutture dotate di “autonomia” di taglio) con vincoli di spesa sempre più pesanti, si reclutano dall’esterno direttori generali con autonomia finanziaria nei limiti di bilancio e con pieni poteri di gestione del personale, all’interno della cornice in disfacimento dei contratti nazionali. Le agenzie si scindono in tante agenzie più piccole. Alcune sono costrette, per via dei tagli, a un’organizzazione di tipo commerciale e alla ricerca di finanziamenti esterni. Se diventano appetibili per il privato, finiscono in Borsa e sono vendute. In caso contrario l’amministrazione ridotta e frammentata (il cosiddetto “spezzatino”) sono pronte per i cambiamenti più radicali; tra le poste in gioco dell’operazione sono: far pagare 30 milioni un corso universitario riconosciuto dal mercato, e selezionare così la nuova classe dirigente; alzare il costo per l’accesso alla sanità, alla pensione, alla scuola, ai servizi sociali. Alcune agenzie di serie B e C continueranno a gestire servizi essenziali per i nuovi poveri.
Le agenzie piccole, periferiche, che offrono servizi specialistici, sono candidate alla privatizzazione. Qui sono sviluppate nuove politiche salariali, politiche innovative sull’organizzazione del lavoro. È qui che si riesce a compromettere maggiormente eventuali residui poteri di forme di rappresentanza collettiva dei lavoratori. Per la privatizzazione classica si segue invece la strada della quotazione in borsa e della vendita dell’azienda insieme al personale.
Nei paesi anglosassoni si è visto da decenni che l’introduzione di personale con diversi contratti flessibili di lavoro, soggetto al fluttuare delle gare di appalto e ai rapporti con i “padroncini”, hanno reso più malleabili i dipendenti dei livelli medi, ha permesso di eliminare con l’appalto i dipendenti dei livelli bassi e ha indebolito i termini delle condizioni di impiego per le professioni poco richieste dal mercato.
Se per cottimizzare i salari è necessario mettere in discussione i contratti nazionali e le normative generali dell’ex pubblico impiego, i dirigenti non possono che manifestare una profonda ostilità verso le forme di rappresentanza. Il loro obiettivo è quello del rapporto diretto con il singolo lavoratore. I sindacati tradizionali, storicamente, facevano riferimento a due principi generali:
1) Comparabilità delle retribuzioni.
2) Unificazione normativa delle condizioni d’impiego.
Ora invece gli aumenti sono concessi non in base alla comparabilità tra figure professionali, ma con attenzione quasi esclusiva alle disponibilità finanziarie e tenendo conto che una politica di forte sventagliamento salariale deve pescare risorse nelle buste paga della maggioranza dei lavoratori. La caratteristica dei servizi pubblici era sempre stata quella di avere strutture gerarchiche e burocratiche che erogassero servizi standard e uniformi, mentre le relazioni sindacali erano centralizzate. I direttori generali garantivano che fossero rispettate le norme nazionali, gli amministratori trasmettevano i dati agli staff professionali che stabilivano il servizio da erogare. Tutto questo modo organizzativo ora salta: s’istituisce un nuovo strato dirigente e si punta a limitare i poteri di rappresentanza dei gruppi d’interesse (sindacati e associazioni professionali, cooptati nella dirigenza).
Per scardinare il vecchio modello non resta che avviare, nella fase transitoria, un sistema decentrato di assoluta flessibilità. Parte la campagna ideologica che connota positivamente il termine: flessibile è bello. Il salario base si riduce alla soglia di povertà, mentre l’accessorio è variabile, legato a rapporti fiduciari, a fedeltà personali, alla prestazione individuale. La trappola dell’efficienza mostra il topolino. Ne esce il quadro di una pletora di organizzazioni distinte, i cui dirigenti si occupano, quasi esclusivamente del controllo della spesa e delle decisioni sulle scelte finanziarie di taglio, le tradizionali forme di lavoro e la sicurezza dell’occupazione sono in discussione.
Anche il controllo pubblico salta completamente: a supervisionare l’erogazione dei servizi viene chiamato personale non eletto, pagato dal medesimo ente che dovrebbe subire il controllo, mentre improbabili Urp (Uffici per le relazioni con il pubblico) si occupano, nella sostanza, di disinnescare eventuali proteste delle utenze o si propongono come luoghi in cui l’utente può andare a denunciare il disservizio che il sistema gli consente di vedere, quello dell’ultima ruota del carro che sta tutto il giorno allo sportello.
Come l’Aran taglia il salario.
La lettura delle pubblicazioni dell’Aran è piuttosto istruttiva per capire il giudizio dei manager sulle risposte dei sindacalisti dei vari paesi alle ristrutturazioni. Fra le righe si coglie un mal dissimulato disprezzo. Alcuni posero resistenze alle proposte di decentramento, ma molti pensarono che la nuova situazione – tutta locale – avrebbe comportato benefici per sé e per la loro organizzazione. Particolari rimedi furono adottati per risolvere una contraddizione, quella rappresentata da una possibile alleanza tra sindacati e apparati dello stato, come il Tesoro, che era espropriato dei propri poteri di controllo e di decisione sui flussi finanziari.
I governi capirono che potevano ottenere gli stessi risultati con l'”olio di vaselina” e consigliarono sistemi di “contrattazione informata”, nei quali la comparazione salariale avesse minore influenza. E mentre con lo strumento dei limiti di cassa si vincolavano i salari generali, con la tecnica degli incentivi la propaganda faceva rumore sull’efficienza. Le quote di salario premiale finivano nelle tasche di chi collaborava attivamente alle ristrutturazioni o servivano a trattenere il personale che altrimenti se ne sarebbe andato perché richiesto dal mercato. Se guardiamo all’esperienza anglosassone, i trust, le fondazioni (invenzione della fase intermedia), servirono ad alcuni risparmi e ad avviare una nuova disciplina fra il personale, in attesa che le leggi permettessero di operare più in profondità.
In Italia la soluzione legislativa ha accompagnato tutto il percorso di azione dell’Aran. Il governo conservatore inglese adottò per primo la tecnica della separazione delle attività d’indirizzo politico da quelle di gestione amministrativa, per impedire interferenze. Il governo italiano ha fatto di questo principio il cardine della privatizzazione e di una sua legge a “matrioska”, il decreto legislativo 29/93 e successive modificazioni e integrazioni, ancora a cantiere aperto, sponsorizzata dai partiti della sinistra e dai sindacati neocorporativi. Si mostrava l’asso della separazione dei poteri come misura di moralizzazione della pubblica amministrazione: i funzionari indifferenti ai bisogni dell’utenza e veloci soltanto nell’inchinarsi di fronte al ceto politico, avrebbero trovato maggiore autonomia. La realtà è un’altra: la dirigenza, oggi nominata direttamente e senza selezioni dal potere politico, ha perso qualsiasi autonomia ed è sempre più strettamente sottoposta alle dinamiche del centro di comando. In una sola scelta è libera: tagliare la spesa pubblica e i salari, avendo cura di non creare squilibri politici dannosi agli assetti di potere esistenti. Visto dal punto di vista “datoriale”, il modello presenta un grande vantaggio: consente al potere politico di presentare come scelte tecniche o gestionali le decisioni, tutte politiche, di taglio della spesa.
Nel Regno Unito, per ridurre la spesa e restare dentro il budget, i dirigenti ricorsero a politiche di frammentazione: ad esempio, pagare un certo numero di impiegati inferiori e non altri; creare figure professionali a prestazioni miste, decise localmente; appaltare servizi, con il solo scopo di cambiare ritmi e modalità di lavoro fra chi restava dipendente della pubblica amministrazione. Queste politiche sono, nella sostanza, le stesse proposte dall’Aran agli amministratori e alla nuova dirigenza. L’università è senz’altro, da questo punto di vista, ottimo terreno di sperimentazione. Si tratta di un comparto che non verrà privatizzato, ma messo sotto il comando diretto della borghesia imperialista (attraverso i collegamenti con le grandi società), che la userà privatisticamente e ne dirigerà i progetti a spese dei contribuenti.
Il sistema si svilupperà in relazione alle esigenze di ricerca del privato e garantirà una formazione lavorativa e ideologica ritagliata sugli interessi della borghesia imperialista. E in questo settore, luogo in cui il potere baronale ha creato, a tutti i livelli, maggiori opportunismi che in altri, si avviano le “autonomie”, precariati di ogni genere e senza limiti, mano libera sulle assunzioni e i passaggi stipendiali, la prima applicazione nel pubblico impiego del lavoro interinale e di altre forme di lavoro “atipico”. Qui già esisteva, e ora diviene norma, il rapporto diretto tra “datore di lavoro” docente – dirigente promosso sul campo – e singolo dipendente. Un docente selezionato all’interno della piramide accademica, ora dotata di portafoglio, che ha il potere di scegliere gli assunti, attribuire quote di salario, creare i profili professionali che desidera, con il nulla-osta del direttore amministrativo in posizione subalterna, un consigliere delle tecniche pagato a suon di milioni dall’accademia per spianare la strada, assumersi la responsabilità pubblica delle azioni impopolari e licenziabile in ogni momento.
Il contratto nazionale che l’Aran ha firmato insieme al nuovo “baronato” confindustriale, il cosiddetto comitato di settore, ha tutte le caratteristiche occorrenti per far marciare le ristrutturazioni: applica le tecniche della scuola anglosassone garantendo nel frattempo alle gerarchie dei sindacati collaborativi, governati dal baronato universitario di vari colori e affiliazioni, una collocazione funzionale e stipendiale migliore. La situazione universitaria è particolare, unica nel pubblico impiego: metà del personale è ancora fuori dalla privatizzazione del rapporto di lavoro, mentre l’altra metà, la non docenza, sperimenta sul terreno universitario gli effetti in quel particolare contesto di una ristrutturazione che tra breve colpirà anche larghi settori della docenza.
La deregolazione del Ccnl passa tutto il potere alle cupole accademiche locali, le quali si trovano a decidere se utilizzare i fondi del funzionamento ordinario per aumentare il numero della corporazione, incrementare i loro stipendi con prebende, indennità di carica, mance per i portaborse o per chi si occupa della didattica al loro posto, incentivazioni. Nella rete di familiarità che attraversa questo mondo, le quote da distribuire ad alcuni servitori non docenti fanno parte del conto. Ma l’Aran sa che, alla fine, sarà il privato a fare piazza pulita di tutto ciò che non gli interessa.
Nella pubblica amministrazione i possibili rischi negativi per la parte “datoriale”, quali slittamenti salariali incontrollati in periferia, lavoro illegale e conseguenti costi di vertenze, incremento di azioni di protesta non ufficiale, sono ora in parte controllati con lo strumento del limite di cassa. Nei paesi anglosassoni, in questa fase, ci furono azioni del governo nei confronti dei dirigenti, che venivano diffidati dal realizzare accordi salariali locali, con possibili effetti a cascata in altre zone. Non a caso l’Aran si prodiga nel proporsi anche come interlocutore locale [sussidiarietà] per i contratti integrativi, qualora le singole amministrazioni si trovassero in difficoltà di fronte a richieste poco arginabili.
A un certo punto l’escamotage in altri paesi fu di rendere possibili gli aumenti salariali locali soli se autorizzati dal governo. In Italia tutta una serie di provvedimenti legislativi di tipo finanziario dovrebbe impedire eccessive variazioni, senza necessità di ricorrere a provvedimenti diretti. Il ruolo dei sindacati viene sempre più incorporato nelle strategie manageriali e ridotto a mera consultazione di organizzazioni che hanno subito una profonda trasformazione, anche dal punto di vista economico e patrimoniale: diventa maggiormente remunerativo per i “sindacati” spostare l’attenzione sulla competizione per il reclutamento degli iscritti riguardo alla gestione dei fondi pensione, dei patronati, di loro aziende o cooperative, di affari ormai nell’ordine di migliaia di miliardi legati al business del salario indiretto e differito.
L’Aran, che ha studiato gesuiticamente bene la situazione, dopo averne copiato gli strumenti operativi da altri paesi, è sempre stata attenta alla difesa del monopolio sindacale, alla “consociazione” e, per quanto riguarda il limite di spesa, al budget. Come nel Regno Unito, a un certo punto, si passò all’abolizione dei contratti nazionali (il governo aveva solo l’obbligo di sentire le parti), così in Italia l’Aran va in questa direzione, svuotando la contrattazione nazionale e locale e subordinandola alla condivisione, da parte delle rappresentanze sindacali, dell’obiettivo aziendale di ristrutturazione e di partecipazione alla propaganda ideologica che la trasmette.
Nella scuola britannica si fece decidere ai Presidi l’aumento del numero degli alunni per classe, l’utilizzo dei contratti a termine, l’assunzione di personale giovane e l’incremento del pensionamento. Si resero illegali alcune forme di lotta, ad esempio il rifiuto di sostituire i colleghi assenti. Nel Regno Unito le ristrutturazioni della scuola ruotarono attorno ad un nucleo strategico centrale: una gestione locale del sistema, una delega ad altri enti più flessibili per la gestione finanziaria e del personale, una competizione fra scuole favorita dal governo, con quote di finanziamento differenziate. Furono introdotti obiettivi finanziari e di prestazione, si enfatizzarono le responsabilità verso gli utenti, si stimolò la competitività con forme di mercato. Per quello che sta accadendo nella scuola italiana, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, se non il fatto che l’operazione, invece di essere condotta dai conservatori britannici, è stata fatta fare ai partiti del centro-sinistra e dal sindacato confederale.
Le quote di salario cottimizzate, erogate ad alcuni in cambio di una completa sottomissione, sono pagate a caro prezzo dalla totalità dei dipendenti pubblici. Se facciamo i conti, anche coloro che guadagneranno tanto avranno sempre meno del salario che sarebbe loro spettato se CGIL-CISL-UIL non avessero firmato gli accordi degli ultimi decenni . E mentre i premiati si scannano tra loro per un pezzo di pane e la maggioranza dei lavoratori vede diminuire ogni giorno il suo salario, … uno scartino di denari prende lentamente il posto dell’asso.
L’asso di cuori: ovvero come l’Aran fa appello al sentimento
Mentre l’Aran presenta a confindustria e governo il prodotto del suo lavoro, i nuovi dirigenti-manager sono all’opera per guadagnarsi la giornata. Certo – lascia intendere l’Aran – se in Europa ci fosse un’organizzazione sovranazionale dei manager pubblici, le decisioni importanti sui salari potrebbero essere omogenee, il governo francese smetterebbe di intervenire nelle scelte e tutto sarebbe più semplice. Adesso il collante vero delle politiche europee sulla pubblica amministrazione è costituito dalla propaganda, di scuola anglosassone, che si suole indicare con il nome di New public management (Npm).
Npm ha un’ampia letteratura ed ha informato di sé la maggior parte delle politiche fin qui descritte. La sua formula è abbastanza semplice e può essere così riassunta:
– separare la politica dalla gestione;
– rafforzare il pieno potere gestionale dei dirigenti;
– scegliere dirigenti provenienti dal privato, più decisi, estranei all’ambiente, capaci di assolvere i loro compiti al prezzo convenuto;
– gestire per obiettivi;
– controllare più severamente le prestazioni attraverso nuove tecniche;
– correlare le retribuzioni al rendimento;
– frammentare il pubblico per creare lavoratori in concorrenza fra loro (fornitori);
– distribuire le risorse ai fornitori in base ai risultati di mercato;
– rimodellare i rapporti di pubblico impiego;
– fare un maquillage ai rapporti con l’utenza;
– affidare responsabilità ai livelli bassi, quelli a diretto contatto con l’utenza;
– promuovere unità indipendenti, piccole, che operino con discrezione;
– creare indicatori di successo, che forniscano dati comparati sulle prestazioni.
Si tratta di un modello che, per sua stessa natura, rifiuta istituzioni o procedure pluralistiche, confronti con rappresentanze sindacali o politiche dei lavoratori. È senz’altro un modello autoritario, che accentra su di sé ogni scelta, compresa la disponibilità a premiare singole persone per i vantaggi derivanti dalla competizione.
All’interno di Npm da anni si confrontano due “scuole” di strategia delle risorse umane. I cosiddetti “morbidi” fingono di considerare il dipendente, il bene principale, di avere a cuore la sua formazione e lo sviluppo della sua professionalità. L’obiettivo è di poterlo sfruttare pienamente con il suo consenso. Questo metodo è utilizzato dal Total quality management. I cosiddetti “rigidi”, invece, sono meno ipocriti e hanno una concezione di quelle che oggi sono chiamate “risorse umane”, più direttamente utilitaristica. Pensano al dipendente come a una macchina che fornisce un prodotto, danno scarso peso alla formazione e controllano i lavoratori apertamente.
Le due scuole hanno anche due linguaggi diversi: i “morbidi” utilizzano toni evangelici, sulla qualità, sulla cultura del cambiamento, sulla riforma della pubblica amministrazione. I dirigenti che usano questo metodo spronano i lavoratori a intraprendere in modo eccellente la loro nuova “missione”, cercano di far leva sul senso di appartenenza a una squadra o diffondono patetici manifesti d’immagine. Alcuni dirigenti vedono con scetticismo questa circonvenzione d’incapace propagandata, dai “morbidi”, ma tutti concordano sul fatto che in alcuni contesti può essere utilizzata con efficacia per esercitare pressioni sul personale e per orientare positivamente i clienti.
A differenza di quanto l’Aran vuol far credere, non siamo alla presenza di due scuole di pensiero ma di due tecniche, le quali possono essere usate alternativamente. Ai vecchi tempi si chiamavano la carota e il bastone. Ed anche l’asso di cuori … finisce miseramente nell’immondizia.
Con l’avvio di questo processo, sono introdotti nel mondo burocratizzato della sfera pubblica i concetti d’imprenditorialità e competizione. Attraverso l’introduzione di questi concetti, la nozione di cittadino utente, inserito in una situazione d’offerta di mercato con caratteristiche di monopolio della sfera pubblica erogatrice di servizi, è andata modificandosi in cittadino cliente e di converso, da ente pubblico erogatore di servizi, in impresa di servizi. Si avvia così un processo che dovrebbe portare “nuove” strutture pubbliche inserite in un mercato concorrenziale, e l’essere cittadino si trasforma nell’essere in pratica suddito.
Questa trasformazione negativa dell’ente pubblico, locale e non riflette la necessità della Borghesia di negare qualunque diversa organizzazione politica e sociale dello Stato e della società nel suo complesso.
[1] La politica salariale è un intervenire su v e su tutti gli elementi che lo compongono (come era la scala mobile).