SENTENZA DIAZ, GIUSTIZIA E FATTA?
Quello che è successo a Genova nel 2001 alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto è risaputo. Il pestaggio a sangue dei manifestanti da parte degli elementi più duri delle forze dell’ordine costituito, in altre parole da parte dei GOM (e dal Nucleo Operativo Mobile Romano).
Per l’irruzione e i pestaggi alla Diaz sono stati rinviati a giudizio 29 funzionari di polizia. Tra questi alcuni big come Vincenzo Canterini, ex comandante del reparto celere di Roma. Tutti sono stati accusati a vario titolo di falsità ideologica, calunnie gravi, violenza privata, danneggiamenti, perquisizione arbitraria, percorse. Per giustificare il blitz e la mattanza che ne seguita, avevano orchestrato il ritrovamento nella scuola adibita a dormitorio il ritrovamento di due bombe e preconfezionato l’accoltellamento di un agente.
Calci, pugni, sputi, minacce e trattamenti inumani e degradanti di ogni tipo sono invece in scena nel processo per le violenze e gli abusi di Bolzaneto. Ma dato che in Italia non esiste ancora il reato di tortura, i 45 rinviati a giudizio dovranno rispondere di abuso d’ufficio, violenza privata, falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti, violazione dell’ordinamento penitenziario e anche dell’art. 3 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Per arrivare alla sentenza per i fatti della Diaz, bisogna spettare ben 11 anni, quando il 5 luglio 2012 arriva la sentenza definitiva, che a reso definitiva le condanne per 25 poliziotti e conferma l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Sono stati colpiti degli altissimi gradi come Franco Gratteri, capo della Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi, capo dello Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi, capo del dipartimento analisi dell’Aisi, l’ex Sisde.
Il cammino del processo è stato tortuoso. Dalla sentenza della corte d’appello di Genova del 18 maggio 2010 sono passati più di due anni, un tempo fuori da ogni consuetudine anche per la disastrata macchina giudiziaria italiana. Qualcosa si è inceppato nelle notifiche della Corte d’appello agli imputati sparsi in varie città italiane, mentre correva il tempo della prescrizione. Così, paradossalmente, sono già cancellati i reati “violenti”, come le lesioni, e resta in piedi soltanto il reato di falso in atto pubblico (che si prescriverà nel 2013), a carico di chi firmò i verbali di arresto e perquisizione, zeppi di elementi che poi si sono rivelati falsi, come le due famose molotov attribuite ai manifestanti, ma in realtà portate sul posto dagli stessi poliziotti. Il reato di concorso in falso è contestato anche ai pezzi grossi del Viminale, che non firmarono, ma avvallarono quei verbali.
Sarà questo uno dei nodi centrali del processo. Perché undici anni dopo, lo Stato non ha ancora chiarito chi comandasse l’operazione alla Diaz. Gratteri, Caldarozzi, Luperi – e il prefetto Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 – erano i più alti in grado sul campo, espressione diretta del capo della polizia Gianni De Gennaro, recentemente uscito di scena con l’assoluzione definitiva in un processo collaterale per induzione alla falsa testimonianza. Ma dal punto di vista formale non avevano potere di comando sul gran miscuglio di reparti – dai “celerini” alla Digos, agli uomini di diverse Squadre mobili – che entrò nella scuola per portare a termine un’operazione condotta “non solo al di fuori di ogni regola e di ogni previsione normativa, ma anche di ogni principio di umanità e di rispetto delle persone”, si legge nella sentenza di primo grado del Tribunale di Genova del 10 febbraio 2009. La separazione tra comando formale e sostanziale è stato il cavallo di battaglia dei difensori degli alti dirigenti nei primi due gradi del processo.
A ingarbugliare la matassa è arrivato anche un errore materiale nella stesura della sentenza di secondo grado rispetto al dispositivo letto in aula, che il legale di qualche imputato potrebbe far valere per annullare tutto.
Cè da tenere presente che nessuno di questi andrà in prigione.
Prima di questa sentenza la Cassazione a giugno aveva reso definitiva la sentenza di condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per quattro poliziotti per l’omicidio colposo di Federico Aldrovandi.
Federico, come emerso dalle sentenze di merito, è morto per un arresto cardiaco a seguito del pestaggio da parte dei poliziotti, e non riferibile, in alcun modo, all’assunzione di droghe. I poliziotti non sconteranno il carcere poiché gran parte della loro pena è coperta da indulto, ma nei loro confronti verrà inflitta una sanzione disciplinare e non è escluso il licenziamento.
QUELLO CHE VIENE TRASCURATO: COME VIENE GESTITO “L’ORDINE PUBBLICO”
Il rischio che c’è è quello di vedere tutte queste vicende, come fatti separati, opera di alcune “mele marce”.
Quello che si trascura volutamente è che questi non sono fatti casuali, ma la normalità della gestione dell’ordine pubblico in Italia e negli altri stati dove domina la borghesia. Che questi atti diventano sempre più feroci soprattutto quando il proletariato ha cominciato a mettere in ridiscussione l’ordine costituito.
Diceva Marx a proposito: “La civiltà e la giustizia dell’ordine borghese si mostra nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest’ordine insorgono contro i loro padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie e vendetta ex legge”.1°
Al proletariato le varie libertà democratiche (di riunione, di associazione, sciopero, di stampa ecc.) non gli sono mai stare regalate, esse sono costate per conquistarle e difenderle dure lotte.
Queste battaglie da parte del proletariato per le libertà democratiche, sarebbe sbagliato considerarle solo come lotte difensive. Quando, in una società divisa in classi, una classe subalterna, che quindi non detiene il potere, riesce con la lotta a strappare con la lotta alla classe dominante una concreta di libertà (di potersi associare senza tante costrizioni per es.) c’è sempre il rischio che le venga nuovamente tolta. Questo significa che le libertà democratiche sono tipiche della classe subalterna anche se la classe dominante, avendola dovuta concedere, la considera, o meglio la proclamerà sua. Del resto la Borghesia come classe al potere non ha alcuna necessità di conquistare per sé delle libertà, dal momento che, avendo lo Stato, possiede tutte le libertà concrete che le interessano e che sono tipiche della propria classe. Questo significa che quando si parla di libertà democratiche in regime borghese, queste non possono che essere libertà che il proletariato ha strappato alla classe dominante, anche se parzialmente e che possono sempre essere rimesse in discussione.
Prendiamo come esempio la libertà di associazione e di riunione. Durante la Rivoluzione francese, i borghesi rivoluzionari emanarono il 14 giugno 1791 la legge Le Chapelier che proibiva le coalizioni operaie, cioè proibiva il diritto di riunione e associazione per gli operai, e comminava ai proletari che non osservavano il divieto, multe e perdita a tempo determinato dei diritti civili.
In Inghilterra tra fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, ci fu un susseguirsi di leggi che vietano ogni diritto di associazione e riunione per ogni tipo di lavoratori. Lo stesso avveniva in Italia e negli altri paesi di tarda industrializzazione e metà del XIX secolo, dove ogni diritto di coalizione e resistenza operaia sarà proibito.
Sia in Inghilterra che in Francia e successivamente negli altri paesi, occorreranno decenni di lotte durissime, con morti, feriti e carcerati, insurrezioni e rivolte, scioperi, per strappare ai governi borghesi la libertà di associazione, di sciopero, di coalizione e di resistenza per i lavoratori. In Francia occorreranno le rivoluzioni del 1830 e 1848; in Inghilterra le lotte del 1825, 1832 e 1839, con la lotta del movimento cartista. Quindi dal mio punto di vista, non si può dire che le libertà di sciopero, di associazione, di resistenza siano libertà “democratico-borghesi”; ma tipiche libertà del proletariato che le ha strappate con la lotta.
Per quanto riguarda l’Italia una delle caratteristiche dello Stato della borghesia italiana, qualunque forza e composizione di governo si sia data, ha continuamente modificato le sue leggi agli interessi della classe dominante e alla necessità di far fronte alle crisi economiche, alle ribellioni popolari, alle guerre.
Il più delle volte le nuove leggi sono venute a codificare quella che era già la prassi della magistratura, della polizia dell’esercito; esse hanno avuto lo scopo di regolamentare i massacri, gli arresti, gli abusi e tutti i limiti posti alle libertà di espressione, di riunione e di organizzazione della classe oppressa: degli operai dei contadini, dei disoccupati, del proletariato emarginato.
Una vocazione dello Stato italiano è stato quello dell’emettere leggi speciali. Questo dalla legge Pica (15 agosto 1863) per la repressione del brigantaggio, alle legislazione fascista (come il codice Rocco) a quella post resistenziale (come la famigerata legge Reale).
Vediamo quest’ultima. La legge n. 152 del 22 maggio 1975 nota come legge Reale, fu approvata con il consenso del PSI e l’opposizione morbida del PCI.
Riguarda nei suoi punti principali: la limitazione della libertà provvisoria; l’ampliamento vastissimo e incontrollato dei poteri di identificazione e controllo dei cittadini da parte della polizia; il fermo giudiziario; la facoltà concessa alle forze dell’ordine di sparare in casi sospetti, cioè di compiere un esecuzione sul posto che, unitamente alla pratica impunità garantita agli agenti di polizia che compiono reati inerenti al servizio o all’uso delle armi.
Teniamo conto che negli anni ’50 fino agli anni ’60, quando non vi era lotta armata da parte proletaria le forze dell’ordine procedevano alla fucilazione di proletari nel corsi di manifestazioni politiche e sindacali. Con l’introduzione della legislazione speciale la pena di morte senza processo è diventata una prassi generalizzata. Ora le forze dell’ordine colpiscono nel mucchio: ladri di motorini, piccoli scippatori, proletari sospetti e perfino comuni cittadini, colpevoli di non essersi fermati a un posto di blocco sono giustiziati sul posto.2°
LA TORTURA
Col fermo di polizia, la polizia ha avuto mano libera nell’applicare tutte le tecniche, dalle più brutali alle più raffinate, per estorcere informazioni informazioni ai militanti arrestati e illegalmente detenuti in luoghi isolati e segreti.
Quando nei primi mesi del 1982, durante e dopo il sequestro Dozier la tortura fece la sua massiccia apparizione in Italia, tanto che i mass-media, non potendo più ignorarla, la presentarono come un rimedio doloroso, ma necessario per salvare lo Stato o come un bubbone infetto nel corpo “sano” della democrazia.
Nell’opuscolo Tortura in Italia le misure segrete del governo Spadolini si dice: “Ciò che caratterizza questi ultimi mesi non è che le “forze dell’ordine” impieghino la tortura, ma che la impieghino sistematicamente, che impieghino la tortura non protette dal tacito consenso delle autorità superiori, ma su direttiva delle stesse, che sia stato creato all’interno delle “forze dell’ordine” un corpo di investigatori per l’impiego della tortura”.
Si sa che l’impiego della tortura è sempre stato tollerato e protetto dalle autorità dello Stato. Nei commissariati e nelle caserme dei carabinieri negli anni che vanno dal 1945 in avanti si è continuato a pestare e torturare gli arrestati che non avevano protezione politica o sociale (come prima d’altronde).
I predestinati non erano gli appartenenti alle classi medio-alte, ma erano i sottoproletari, coloro che, loro erano “di casa” in questura e nei commissariati, coloro che quando non sono visti pregiudizialmente come delinquenti da poliziotti e magistrati, sono comunque visti come conviventi e omertosi, del resto i nemici della polizia erano i sovversivi e i delinquenti.
Negli anni ’50 Lelio Basso aveva denunciato il ripetersi di confessioni estorte con la forza dalla polizia, alla quale la magistratura aveva ufficialmente delegato le proprie funzioni investigative. La violenza era un antico retaggio, ma la pratica della tortura aveva un carattere episodico; tutto questo mutò con la campagna “antiterrorismo” dei primi anni ’80.
Fu con misure segrete e le assunzioni di responsabilità del governo Spadolini e soci, che la elevarono a sistema. I torturatori furono elevati a salvatori della patria (o della NATO) a cui si resero pure i gli onori elettorali. Infatti Salvatore Genova, uno dei torturatori di Di Leonardo, fu eletto deputato del PSDI il 26 giugno 1983
I casi di tortura sono cresciuti e non finiti. Si calcola che 1986 al 2006 se ne sono contati 256, un numero maggiore a quelli registrati nel ventennio 1867/1985.3°
Ma la nuova frontiera della tortura in Italia è quella che c’è nei CIE (prima si chiamavano CPT), che hanno la caratteristiche di essere strutture dove c’è mancanza di movimento, c’è la segregazione coatta, dove gli ambienti sono promiscui, i controlli ripetuti e avvicinati, ecc.
Perciò quello che la sentenza sulla Diaz non deve offuscare è che la tortura nel nostro “bel paese”, grazie anche alla politica emergenzialista precedente, è diventata una prassi sistemica, altrimenti non si capirebbe le difficoltà di attuare una legge contro la tortura.
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1° Marx, La guerra civile in Francia.
2° Secondo 625, un libro bianco sulla legge Reale, pubblicato del Centro di iniziativa Luca Rossi di Milano, le vittime dal 1975 al 1990 furono 625 fra morti e feriti.
3° Ricerca a cura di Romano Nobile, LA TORTURA nel Bel Paese, Malatempora.