E’ IN ATTO UNA CYBERGUERRA FRA USA E CINA (E ALTRI)?

   Militarizzazione  dello spazio e cyberguerra, sono processi fortemente intrecciati, che da tempo sono in atto.

   Tutto ciò nasce dal fatto l’accentuazione della crisi generale del capitalismo porta in tutti i paesi (sia nelle metropoli imperialiste sia in quelli dominati e dipendenti) a: politiche economiche apertamente antiproletarie e antipopolari, processi di rafforzamento istituzionali e soprattutto la tendenza al riarmo imperialista (e di conseguenza alla guerra) che preclude alla costituzione di eventuali nuovi blocchi o comunque nuove alleanze.

   Anche la Cina, nonostante gli economisti borghesi parlano di “riequilibrio dell’economia”, è colpita dalla crisi. L’espansione Cinese si era appoggiata sul lavoro a buon mercato, la svalutazione della moneta, su forti investimenti nell’industria e nella concentrazione delle esportazioni.

   Tutto questo non poteva durare a lungo. I giovani operai dell’industria richiedono un livello di vita e di salario più alti e questo ha rimesso in discussione il ruolo di più grande piattaforma mondiale di lavoro a basso costo. In secondo luogo, le misure di salvataggio economico prese dal 2008 hanno liberato migliaia di miliardi dollari di crediti accordati a tassi d’interesse molto bassi dalle banche pubbliche, ciò ha provocato un sovrainvestimento e ha spinto verso l’aumento dei prezzi nel settore immobiliare, fino a livelli che numerose famiglie non possono sostenere, provocando un aumento delle tensioni sociali e un maggior pericolo di fallimenti.

  Poiché gli investimenti in capitale fisso (messi di produzione e beni immobili) hanno raggiunto un livello grottesco e insostenibile (quasi la metà del PIL del paese), il consumo nazionale dovrebbe essere aumentato per assorbire la sovrapproduzione dell’industria e compensare le esportazioni in declino. La Cina non ha un lungo margine di manovra per aumentare il consumo nazionale. Durante gli ultimi due anni gli aumenti salariali che sono seguiti all’ondata di scioperi hanno provocato una rapida erosione della quota cinese del mercato, poiché le aziende hanno spostato la produzione verso paesi concorrenti meno cari, come il Vietnam e l’india.

   Anche la Cina ha avuto una crisi eguale a quella dei subprime, dovuta dai municipi pesantemente indebitati e incapaci di rimborsare i loro prestiti. Questo rischio di cattivi prestiti si è immediatamente propagato alle imprese di piccola e media taglia che avevano eseguito molti investimenti. Quando Pechino ha proclamato il suo successo di fronte all’aumento dei prezzi, la sua politica di fronte all’aumento dei prezzi ha portato le piccole e medie imprese a rivolgersi verso finanziatori non ufficiali che praticavano tassi d’interesse fino al 180%. Questa crisi si concentra soprattutto in una zona a sud di Shangai, che è stato nel passato il modello di espansione cinese orientata all’esportazione. Dopo aprile, più di 90 imprese hanno chiuso, mentre i proprietari sono fuggiti o si sono suicidati e i lavoratori protestano contro i salari non versati.

   Ma questo non è che la punta di dell’iceberg. Il mercato parallelo dei prestiti ha cominciato a fa parlare di sé nel 2010 con un capitale totale stimato di 2.500 miliardi di yen (391 milioni di dollari). Più della metà di questi prestiti erano accordati da istituzioni pubbliche a scopo commerciale che riprestavano il denaro che ottenevano a dei tassi da usurai, e il resto era del capitale privato.

   Ci sono dei problemi economici ancora più profondi. Considerando il basso rendimento dell’industria, numerosi gruppi utilizzano le loro stesse imprese come garanzie dei prestiti che richiedono a fonti parallele, e in seguito in certi casi queste imprese riprestano il denaro a dei tassi più elevati o si lanciano nella speculazione immobiliare.

   Tutto questo dimostra, che la Cina non può essere capace di salvare il capitalismo mondiale, poiché sta diventando rapidamente un fonte di grande instabilità economica, alimentando la crisi mondiale, in continuo aumento.

   Se partiamo dal fatto che militarismo e guerra costituiscono un dato fondamentale nella vita del capitalismo dall’entrata di questo sistema nel suo periodo di decadenza.

   Un altro fatto da tenere conto, tra gli effetti della crisi è l’accentuazione della concorrenza fra le diverse frazioni di capitale e dunque della concorrenza commerciale fra gli Stati. Questa concorrenza non può non provocare tensioni militari, e dunque la costituzione di arsenali sempre più imponenti e moderni. Un altro effetto è la subordinazione della vita economica e sociale alla sfera militare.

    Nell’era del capitale fittizio[1]  la guerra è diventata un fattore permanente giacché permanenti sono i motivi che spingono le potenze imperialiste a scatenare conflitti per difendere i propri interessi di classe.

   Questo spostamento di plusvalore verso gli Stati Uniti è il tributo che gli altri paesi devono pagare all’imperialismo statunitense ed è un prezzo che diventa sempre più alto col contemporaneo aggravarsi della crisi economica. In un contesto in cui a dominare sono le forme dell’appropriazione parassitaria mediante la produzione di capitale fittizio e in cui anche le altre potenze imperialistiche, vedi l’Europa dell’Euro, cercano di porsi sullo stesso terreno degli Stati  Uniti, la guerra è diventata una costante del modo di essere del capitale.

   Solo con la guerra l’imperialismo statunitense può pensare di ostacolare l’ascesa delle potenze rivali e continuare a estorcere plusvalore a ogni angolo del pianeta. Le spinte alla guerra da un lato dall’imperialismo statunitense per continuare a vivere di rendita, ma anche dagli altri predoni imperialisti (Europa, Russia, Cina e Giappone) che vogliono partecipare al banchetto della spartizione del banchetto con una quota sempre più grande.

   La guerra non è più combattuta solamente per conquistare aree dove esportare capitale finanziario in eccesso, ma trova nella capacità di mantenere il controllo della produzione di capitale fittizio il principale motore.

   Gli Stati Uniti sono tuttora la prima potenza imperialista e nello stesso tempo importano capitali.

   Dunque la guerra non rappresenta più solamente un momento del ciclo economico, ma è diventata una costante del manifestarsi dell’attuale fase dell’’imperialismo poiché il mantenimento della produzione di capitale fittizio richiede costantemente l’utilizzo della forza. In un contesto dove il dollaro è seriamente minacciato dall’affermarsi dall’euro come moneta di riferimento negli scambi commerciali internazionali e nelle riserve valutarie, e nuove potenze si affacciano nell’agone imperialistico (Brasile, Cina, India), la guerra permanente non può che trovare nuova linfa e allargare i propri fronti anche in aree che finora sono state risparmiate.

 

E’ in atto la guerra informatica

 

   La guerra informatica (noto nell’ambito operativo militare del mondo anglofono come Hacker Warfare, abbreviato HW), è quell’attività rientrante nelle operazioni di informatione warfare e sottotipologia di guerra cibernetica che utilizza pirati informatici per colpire la rete informatica avversaria.

   In questa guerra si è soliti assoldare, come nuovi mercenari, di personaggi noti come hacker che sono capaci di aggredire un sistema informativo protetto. Si tratta di professionisti con un livello di aggiornamento tecnico elevato, e allenati a operare nelle situazioni più difficili orienta dosi in complessi sistemi informatici e telematici .

Le operazioni di guerra informatica consistono in:

1)    Attacchi ai sistemi. Conseguenze: paralisi degli elaboratori o semplici malfunzionamenti; modifiche al software di base; danneggiamento di programmi applicativi; installazione di procedure malefiche; interruzione di assistenza e manutenzione.

2)     Attacchi alle informazioni. Conseguenze: cancellazioni; alterazione/modifica del contenuto degli archivi; inserimento indebito dei dati; copia abusiva/furto di elementi di conoscenza.

3)    Attacchi alle reti. Conseguenze: blocco del traffico telematico; deviazione delle richieste fatte a terminale su archivi diversi da quello originale; intercettazione delle comunicazioni autorizzate; introduzione di comunicazioni indebite mirate a disturbare.

   La guerra cibernetica (noto nell’ambito operativo militare del mondo anglofono come cyberwarfare) è l’insieme delle attività di preparazione e conduzione delle operazioni militari eseguite nel rispetto dei principi bellici condizionati dalle informazioni. Si traduce nell’alterazione e addirittura nella distruzione dell’informazione e dei sistemi di comunicazioni nemici, procedendo a fa r sì che sul proprio fronte si mantenga un relativo equilibrio dell’’informazione. La guerra cibernetica si caratterizza per l’uso di tecnologie elettroniche, informatiche e dei sistemi di telecomunicazioni.

   Esistono molte metodologie di attacco nella guerra cibernetica:

1)    Vandalismo Web: attacchi volti a “sporcare” pagine web o per mettere fuori uso i server. Normalmente queste aggressioni sono veloci e non provocano grandi danni.

2)    Propaganda: messaggi politici che possono essere spediti a coloro che sono collegati alla Rete.

3)    Raccolta dati: le informazioni riservate ma non protette possono essere intercettate e modificate, rendendo possibile lo spionaggio.

4)    Distruzione delle apparecchiature: attività militari che utilizzano computer e satelliti per coordinarsi sono potenziali vittime di questi attacchi. Ordini e comunicazioni possono essere intercettati o sostituiti, mettendo a rischio i soldati.

5)    Attacco a infrastrutture critiche: i servizi energetici, idrici, di combustibili di comunicazioni, commerciali e dei trasporti sono tutti vulnerabili a questo genere di attacchi.

   Esiste da tempo un cyber guerra tra Cina e Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno ammesso di essere stati sotto attacco da parte di diversi Stati, come la Cina e la Russia.

 

   Anche la Cina attacca gli Stati Uniti di usare una brigata di hacker e di sfruttare i social network come per fomentare la rivolta in Iran.[2]

 

    Nel mese di gennaio 2010 Google aveva denunciato di essere stato oggetto di attacchi di pirati informatici che avevano preso di mira i dissidenti cinesi che usavano le piattaforme di posta elettronica.

 

    Sempre nel 2010 nella ciberguerra tra Cina e Stati Uniti si ebbero dei risvolti che si potrebbe definire clamorosi: il traffico internet di molti siti di agenzie governative amerikane, comprese alcune del Pentagono, nell’aprile fu “sequestrato” da server cinesi per circa 18 minuti. Lo denuncia un rapporto al Congresso dall’Us-China and Security Review Commission, la Commissione USA che ogni anno rilancia un rapporto sullo stato delle relazioni con la Cina. [3]

 

   Tutto questo dimostra che da tempo Internet è un campo di battaglia, per questo il

Pentagono si sta preparando per le guerre future. Ha formalmente nominato il suo primo cyber-generale della storia: il generale a quattro stelle Keith Alexander è stato nominato responsabile del Cyber Command, il comando che ha lo specifico compito di combattere sulle reti informatiche. La nomina di Alexander segue l’assegnazione da parte del Dipartimento della “Difesa” americano di 30.000 aggiuntivi ai cosiddetti “fronti della guerra informatica”. In totale sotto il Cyber Comando operano circa 90.000 uomini. Questa divisione cibernetica cominciata sotto Bush si è rafforzata sotto Obama.

 

    Robert Gates, che il segretario alla “Difesa” amerikano ha detto che il cyberspazio è il quinto campo di operazioni militari, che si aggiunge a terra, mare, cielo e spazio. La guerra è certo virtuale, ma le conseguenze possono essere reali, devastanti: basta un virus a bloccare la distribuzione elettrica di grandi aree, paralizzare i contatti tra aerei e torri controllo, silenziare i telefoni di un’intera nazione. Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Sempre nel 2010 è comparso un virus, lo Stuxnet, che ha infettato 30.000 computer iraniani.

 

   In questo quadro di cyber guerra in atto, si sviluppano le piraterie informatiche. Proprio per “combatterle” [4] che sono sorti organismi specifici (come il Piracy reporting center o la Cybercrime  unit) che affiancano strettamente organismi di sicurezza pubblici e “privati” e sono in larga parte finanziate da imprese assicuratrici, compagnie di navigazione, associazioni imprenditoriali, case discografiche, grandi imprese informatiche ecc.

 

   Ma anche lo spazio è diventato un campo di questo tipo di battaglia. Si ha notizie che per quattro volte tra il 2007 e il 2008 degli hackers ritenuti appartenenti alle forze armate cinesi hanno interrotto il funzionamento di due satelliti della NASA dedicati all’osservazione della Terra. E agli studi del clima. Lo rivela un rapporto della commissione del Congresso americano (Us-China Economic and Security Review Commission) che sarà diffuso nelle prossime settimane.[5]

  Scrive il rapporto: “Queste interferenze pongono numerosi minacce, in particolare se sono rivolte a satelliti con funzioni sensibili” perché, si precisa, possono distruggere o danneggiare il veicolo spaziale e degradare o manipolare le trasmissioni. I satelliti attaccati sono il Landsat-7 che nell’ottobre e nel luglio 2008 ha subito oltre 12 minuti di interferenze e il Terra AM-1 che invece è stato vittima di una stessa situazione per due minuti nel giugno 2008 e nove minuti nell’ottobre seguente. I dati sono stati forniti dall’US Air Force, che con la sua rete di controllo aerospaziale è in grado di verificare ogni anomalia manifestata dai vari sistemi in attività.

   Il documento non accusa esplicitamente il governo di Pechino come responsabile degli attacchi ma sottolinea che la Cina “effettua e sostiene una varietà di cyber-azioni dolose” e che tutti i linguaggi usati da questi hackers hanno una base cinese e, infine, che esistono collegamenti con gruppi di  hackers cinesi. Il dipartimento della “Difesa” USA precisa che gli attacchi informatici cinesi sono saliti dai 3.651 nel 2001 ai 55.000 del 2010. Le due operazioni compiute sui due satelliti ambientali sono arrivate ai sistemi di comando dei veicoli in orbita senza tuttavia riuscire a influire su di essi provocando danni. Un’indagine compita dalla NASA ha dimostrato che gli hackers si sono collegati con la Svalbard Satellite Station a Spitsbergen, in Norvegia, attraverso la quale i dati raccolti sono inseriti in Internet. Ovviamente, l’ambasciata a Washington smentisce tutto. Un dato è certo, comunque, c’è una guerra non dichiarata in atto.

 

 


[1] Il capitale finanziario è nato molti decenni fa, come supporto del capitale produttivo di merci. Nella sua analisi del modo di produzione capitalista Marx lo chiamò capitale fittizio, in contrapposizione al capitale impiegato nella produzione di merci, nel ciclo di valorizzazione danaro – merci – lavoro – nuove merci – più danaro.

Nell’epoca imperialista il capitale finanziario si rende autonomo dal capitale produttivo di merci e poi lo subordina a sé. Il capitale fittizio cresce più velocemente del capitale reale (mezzi di produzione, edifici, tecnologia, forza lavoro, prodotti e altri fattori dell’economia reale). Ma nella società moderna il capitale fittizio è altrettanto influente, anzi è più influente (più reale) che il capitale reale: surclassa e domina il capitale reale (il capitale impiegato nella produzione di merci). Con grande disperazione e incomprensione dei materialisti volgari. Essi si ostinano anche a sostenere che le idee sono fattori modellatori, trasformatori della realtà meno efficaci (meno reali) che le spade o le bombe.

 

[4] Mette sempre tra virgolette, perché lo sviluppo della pirateria informatica è solo una scusante.

 

~ di marcos61 su novembre 11, 2011.

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