CRISI E ARMAMENTI: L’INDUSTRIA DEGLI ARMAMENTI COME SPESA IMPRODUTTIVA
Il capitalismo di fronte alla crisi mette in moto tutta una serie di misure di varia natura che vanno dall’inflazione, alla disoccupazione (con l’utilizzo di mano d’opera a buon mercato proveniente dai paesi dipendenti) all’esportazione di capitali ecc. Ma il metodo più estremo per salvare il capitalismo è quello “convulsivo”: guerra verso l’esterno.
Quando il sistema capitalistico è stabile, c’è una relativa armonia tra gli sfruttatori e crea le premesse per dei rapporti “democratici” fra loro. Quando il sistema cessa di essere redditizio, i profitti diminuiscono, l’armonia cede il posto alla guerra tra gli sfruttatori. Così si assiste al moltiplicarsi delle guerre tra le frazioni della classe dominante.
capitolo 1
Dalla crisi del 1929 alla Seconda Guerra Mondiale.
Dopo il crack della Borsa del 1929, si potenziò l’intervento dello Stato nell’economia sia in Europa.
E’ in questo periodo che nei circoli degli economisti accademici anglo-americani, prima di tutti Keynes, si affermò l’idea di dare un governo all’economia capitalistica. Keynes sosteneva che la stagnazione era dovuta alla mancanza d’investimenti produttivi da parte degli industriali; per questo, come via di uscita dalla crisi, propugnava l’aumento della spesa pubblica, anche in condizioni di deficit statale, al fine di sostenere la domanda totale per i beni d’investimento e consumo: manovrando questa domanda e mettendo degli “incentivi a spendere” si poteva mantenere un livello di produzione che limitasse la disoccupazione.
Il presidente degli U.S.A., F. D. Roosevelt, – sotto la stimolo delle lotte di enormi masse di lavoratori e di disoccupati prodotte dalla crisi[1] – varò un grande piano d’investimenti per l’espansione e l’ammodernamento delle infrastrutture, nell’intento di sostenere la domanda globale e riavviare il ciclo espansivo dell’economia.
Queste misure si rilevarono, di fatto insufficienti a sconfiggere la crisi.
Gli USA e tutto il mondo capitalistico uscirono dalla crisi solo in seguito alle immani distruzioni operate dalla Seconda Guerra Mondiale.
Infatti, se si esamina la dinamica degli avvenimenti politici che si sono succeduti dalla crisi del ’29 in avanti, si nota che il mondo è stato scosso da eventi di grande portata. Si inizia con la rivoluzione spagnola che portò alla caduta della monarchia (aprile 1931) all’avvento di Hitler in Germania (gennaio 1933) all’apertura delle campagne militari dell’imperialismo giapponese in Cina fino alla guerra di Etiopia (1935) e alla guerra civile spagnola (1936-1939).
Nel tentativo di salvare l’ordinamento, lo Stato Capitalistico, questo comitato d’affari della borghesia imperialistica, cercando di uscire dalla crisi del 1929-33 attraverso l’intervento statale ha sviluppato l’industria delle armi, mettendo in crisi la pace mondiale e favorendo l’ascesa del fascismo. M. Kaleki, in un’acuta analisi contenuta in un articolo presentato alla Marshall Society di Cambridge del 1942 (Aspetti della piena occupazione. Edito da Celuc Libri 1975) diceva: “Durante la grande depressione degli anni ’30, in tutti i Paesi tranne che nella Germania nazista, si è registrata la netta opposizione del mondo degli affari contro ogni esperimento tendente ad utilizzare la spesa pubblica per espandere l’occupazione (…) ma se durante le fasi recessive, il massimo desiderio degli imprenditori è quello di subentrare presto in una fase di veloce espansione: perché dunque non accettano di buon grado il boom “artificiale” che il Governo è in grado di offrire?
Le ragioni possono venire distinte in tre categorie: (1) l’avversione per l’interferenza statale, in quanto tale, nel campo dell’occupazione, (2) l’avversione per il tipo di orientamenti impressi alla spesa pubblica (investimenti pubblici, sostegno ai consumi) (3) l’avversione per i mutamenti sociali derivanti dal perdurare della piena occupazione (…) in un regime di piena occupazione permanente, la minaccia del licenziamento perderebbe la sua efficacia di misura disciplinare. La posizione del padrone non avrebbe più dei contorni netti, mentre i lavoratori acquisterebbero una maggiore sicurezza in se stessi e una crescente coscienza di classe. (…).
Una delle più importanti funzioni del fascismo, nella forma che attualmente riveste nel sistema nazista, consiste nel rimuovere le obiezioni dei capitalisti contro il pieno impiego. L’avversione per la spesa pubblica, sia sotto forma di investimenti pubblici che di sussidi al consumo, viene superata concentrando la spesa negli armamenti.
Il fatto che gli armamenti costituiscano la spina dorsale della politica fascista per la piena occupazione, viene ad esercitare una profonda influenza sul suo carattere economico. Un riarmo su larga scala non può prescindere dall’espansione delle forze armate e dalla predisposizione di piani per una guerra di conquista, ciò che, per competizione, induce al riarmo anche gli altri Paesi.
Questo fa sì che l’obiettivo principale della spesa cessi gradualmente di essere il pieno impiego per identificarsi con la garanzia di massimi risultati nel campo degli armamenti. Un’ “economia degli armamenti” implica, implica, in particolare dei consumatori assai più limitati di quanto dovrebbero essere in una situazione di pieno impiego.
Il sistema fascista esordisce sopprimendo la disoccupazione, sia sviluppa determinando una “economia degli armamenti” dominata dalla penuria, e sfocia inevitabilmente nella guerra”.
L’ordine hitleriano era riuscito ad aprire ai capitalisti tedeschi colpiti dalla grande recessione vaste prospettive di profitti. Un mese dopo l’ascesa al potere, Hitler rivolgeva una nota di politica industriale alla Federazione Tedesca dell’Industria Automobilistica presieduta da F. Porsch. I provvedimenti contenuti prevedevano la costruzione rapida d’infrastrutture, agevolazioni fiscali e sovvenzioni all’esportazione, la messa a disposizione di manodopera e di materie prime a basso costo, oltre che di crediti rilevanti.[2]
Decine di migliaia d’imprese approfittarono del grande sviluppo dell’industria degli armamenti, dell’esproprio della borghesia ebraica e dai saccheggi della Wermacht. Parallelamente la nuova legislazione del lavoro significò la totale liquidazione delle istituzioni della classe operaia edificate in oltre un secolo di lotte.
Il periodo intercorso fra le due guerre mondiali, ha visto il diffondersi universale di un fenomeno che fino al 1914 era rimasto sporadico o solo abbozzato: l’intervento dello Stato borghese nella direzione dell’economia. Da allora tale intervento è divenuto sempre più massiccio; la tendenza alla trasformazione in proprietà dello Stato di interi settori dell’industria e al dirigismo statale dell’economia nazionale si è affermata in tutti i paesi. Questa tendenza al capitalismo di Stato non cambia i rapporti di produzione, non rappresenta una novità qualitativa nei confronti del capitalismo classico, anzi è l’estrema conseguenza. È questo un chiaro segno della decadenza del capitalismo. Le nazionalizzazioni, i monopoli statali, ecc. non sorgono, nel sistema capitalistico, come conseguenze della prosperità economica, ma come risposte alla crisi, per salvare dal fallimento e perpetuare i monopoli di questo o quel ramo dell’industria; il controllo dello Stato sull’economia nazionale serve a impedire, attraverso la centralizzazione delle decisioni, il tracollo del sistema sotto il peso delle sue contraddizioni. Il primo grande impulso all’estensione del controllo statale, è come abbiamo visto, il rispondere alle esigenze dell’economia di guerra; in numerosi paesi le conseguenze del primo conflitto mondiale (quali le difficoltà economiche e la crescente instabilità politica e sociale) fecero mantenere e allargare tale controllo anche in tempi di pace; esso trovò un nuovo forte impulso durante la seconda guerra mondiale; il persistere dell’intervento dello Stato nell’economia, anche nel periodo di prosperità che ci fu dopo il secondo conflitto mondiale, è una chiara dimostrazione delle difficoltà da parte del capitalismo a dominare le forze produttive materiali. Ma l’intervento dello Stato nell’economia non costituisce la soluzione dei problemi del capitalismo, non è esso che una soluzione di sopravvivenza temporanea. Non elimina le contraddizioni capitalistiche, ma le rimanda a un piano superiore, quello dei rapporti fra gli Stati, ritardando così la sua fine, ma spianando insieme la strada a una crisi tanto più intensa e generalizzata.
La guerra non costituisce comunque la soluzione per le contraddizioni del capitalismo.
Indubbiamente, il capitalismo conosce una certa prosperità a seguito a seguito la prima guerra mondiale fino al 1929, grazie alla ricostruzione delle economie distrutte alla guerra e al completamento dell’espansione di due giovani capitalismi: quello degli Stati Uniti e quello del Giappone. Tuttavia l’Europa ha perduto il suo posto preponderante nel mondo capitalista. Essa non si risolleverà mai veramente dal suo crollo avutosi nella prima guerra mondiale. Nonostante la ricostruzione, l’Inghilterra nel 1929 non sarà ancora riuscita a ritrovare il suo livello di esportazioni d’anteguerra. Debitori dell’Europa all’inizio della guerra, gli Stati Uniti ne escono creditori con inoltre un aumento di quasi il 15% della loro produzione.
Tuttavia questa espansione subisce già gli effetti di una mancanza di sbocchi.
1) Tuta la massa del saldo positivo della bilancia commerciale nel corso del periodo 1919-1929 resta inferiore agli investimenti mobilizzati fino allora per l’estensione della rete ferroviaria quasi ferroviaria (quasi completata nel 1929).
2) Dal 1919 al 1929, mentre l’indice della produzione industriale aumenta del 60%, il numero dei salariati diminuisce da 8,4 a 8.3 milioni.
3) Dal 1910 al 1924, 13 milioni di acri di terra coltivata ritornano allo stato di prateria, di steppa e di pascoli.
Inoltre la viva espansione dei mercati esteri americani non può più avvenire verso nuovi territori ma verso zone già conquistate dalle potenze in guerra, con le quali bisogna “dividere”. L’evoluzione della ripartizione argentina tra le grandi potenze dal 1919 al 1929 è a questo titolo particolarmente significativa.
Percentuale delle importazioni argentine secondo l’origine
1913 | 1923 | 1925 | 1927 | 1929 | |
Gran Bretagna |
31 |
23,8 |
21,9 |
19.4 |
17,6 |
Germania | 16,9 | 13,6 | 11,5 | 11,3 | 11,5 |
Francia | 9 | 67 | 6,8 | 6.9 | 61 |
U.S.A. | 14,7 | 20,4 | 23,5 | 25,4 | 26,4 |
La parte americana è raddoppiata mentre quella della Gran Bretagna è quasi diminuita della metà. Il fenomeno è lo stesso per l’espansione U.S.A. per il resto dell’America Latina o in Canada.
Il secondo dopoguerra.
Nell’immediato dopoguerra, anche grazie al Piano Marshall che permise di investire i capitali eccedenti americani nella ricostruzione delle industrie europee distrutte dalla guerra, l’economia americana era una macchina che filava a tutto vapore: “Con la fine del conflitto, l’economia americana si venne a trovare nella spiacevole situazione del tuffatore che spiccata, la corsa sul trampolino, si accorge che non c’è più acqua nella piscina. Era necessario riconvertirle, cioè passare alla produzione di pace; era soprattutto necessario che la spesa privata, compressa durante tutto il profitto, aumentasse in breve tempo in misura sufficiente per permettere alle industrie belliche di non ridurre il ritmo produttivo e con esso l’occupazione; tutto ciò mentre il ritorno dei giovani alla vita civile poneva il problema di trovare loro un lavoro.
Negli anni dell’immediato dopoguerra, 1945-48, l’economia americana fu convertita alla produzione civile senza seri problemi. Non avendo subito danni fisici durante la guerra, gli Stati Uniti raggiunsero un livello di prosperità molto elevato. La domanda dei consumatori, spinta anche dall’aumento del numero delle famiglie, dovuto al ritorno dei soldati, era molto forte, particolarmente per i beni che non erano denaro liquido.
La domanda delle imprese per investimenti era stata molto scarsa durante la guerra, in modo anche nel settore industriale vi era una forte domanda arretrata” (O. Ekstein, Economic Policy in the United States from 1949 to 1961).
La Guerra di Corea (1950-1953), nell’immediato dopoguerra portò a una “forbice” nell’apparato industriale U.S.A tra l’industria bellica completamente dipendente dalla spesa statale e le industrie escluse da contratti per le spese militari. Durante la presidenza Eisenhower lo stanziamento per le spese militari era di quaranta miliardi di dollari; alla fine del suo mandato Eisenhower denunciò: “…nei Consigli dello Stato occorre guardarsi dall’acquisizione di autorità non delegata, ricercata con malizia, da parte del complesso militare – industriale. Le possibilità di un tragico spostamento di potere esistono e sono destinate a perdurare”.
Fu Eisenhower a coniare il termine “complesso militare – industriale”.
L’economista J. Robinson in Collected Economic Papers Vol. III pag. 103 – 112 in “Oltre la piena occupazione”: “I paradossi di Keynes – costruire delle piramidi, scavare delle buche nel terreno – vennero presi alla lettera. E’ stato stimato che negli Stati Uniti nel 1958 le spese destinate a ciò che eufemisticamente viene chiamata “difesa” ammontata a più dell’11% del prodotto nazionale lordo, e che nel Regno Unito essi si avvicinavano all’8%, cifre che, in ciascuno dei due paesi, sono pressappoco uguali al volume degli investimenti industriali produttivi. Ciò significa che arrestando questa corsa al riarmo si potrebbe pressappoco raddoppiare la capacità produttiva del sistema industriale, senza per questo imporre alcun sacrificio straordinario né creare delle pressioni inflazionistiche maggiori di quelle già sperimentate in passato. Ed anche se una simile politica viene ufficialmente ripudiata, appare assai evidente che l’amministrazione degli Stati Uniti fa affidamento sull’intensificazione delle spese militari come correttivo contro ogni minaccia di recessione”.
In sostanza lo Stato della borghesia imperialista americana – reduce dalla crisi del ’29 e da una guerra mondiale – usò in funzione anti-ciclica la produzione bellica, in altre parole la possibilità di contrastare i rallentamenti ciclici usando gli investimenti militari come volano per l’intera economia.
Ma la produzione bellica, alla fine, in determinate condizioni porta alla guerra. Le guerre, infatti, permettono di distruggere capitali e aprire la strada a una nuova fase di espansione. L’obiettivo della borghesia rimane sempre il profitto e non la distruzione di capitali; quindi la guerra è funzionale allo sviluppo capitalistico, ma lo sviluppo capitalistico tende a portare alla guerra tra imperialismi concorrenti per la spartizione del mercato mondiale.
Le crisi americane degli anni ’60 e ’70.
Gli Stati Uniti si trovano in crisi da molto tempo prima che gli europei se ne rendessero conto. Kennedy fu eletto presidente in conformità a una piattaforma bellicista. Appena eletto denunciò la crisi nel suo messaggio inaugurale del 1961: “L’attuale stato della nostra economia è preoccupante. Assumo l’ufficio sulla scia di sette mesi di recessione, di tre anni e mezzo di economia fiacca, di sette anni di sviluppo ridotto, e di nove anni di caduta del reddito agricolo… A parte un breve periodo del 1958, la disoccupazione registrata è la più alta della nostra storia. Dei cinque milioni e mezzo di americani che sono senza lavoro, più di un milione sono circa di un posto di lavoro da più di quattro mesi… in breve l’economia americana è nei guai. Il più ricco paese industrializzato del mondo è quello che ha il minore tasso di sviluppo economico”.
Negli anni ’60 vi fu un grande aumento della produzione negli USA. La politica adottata fu quella del “burro e cannoni” cioè iniziare la Guerra del Vietnam, finanziare la corsa per la conquista dello spazio e nello stesso tempo finanziare alcune spese sociali. Questo portò a un aumento vertiginoso della spesa pubblica.
PRINCIPALI DATI DELL’ECONOMIA AMERICANA DAL 1960 AL 1971 –
Medie annue dei trienni, in miliardi di dollari
Spesa pubblica |
|||
Trienni |
Totale |
Militare |
Non militare |
1960-62 |
108,1 |
48,1 |
60,0 |
1963-65 |
1294 |
50,3 |
79,1 |
1966-69 |
178,8 |
70,5 |
108,3 |
1970-71 |
2213 |
74,9 |
1464 |
Investimenti all’estero |
||
|
Diretti |
Di portafoglio |
1960-62 |
0,15 |
0,8 |
1963-65 |
2,6 |
0,8 |
1966-69 |
3,3 |
1,0 |
1970-71 |
4,2 |
1,2 |
L’incremento della spesa statale degli anni ’60 sfociò negli anni ’70 nel deficit pubblico. Così testimoniava di fronte al Sottocomitato sulla Finanza Internazionale e sulle Risorse della Commissione Finanze del Senato Americano Dewen Daane, membro del Consiglio dei Governatori del Federal Riserve System il 30 maggio 1973: “L’anno scorso (il 1972) come sapete, abbiamo avuto un deficit commerciale di 7 miliardi di dollari e un deficit delle partite correnti e dei movimenti di capitale di lungo termine di più di 9 miliardi di dollari”.
Inoltre, la maggiore produttività dell’Europa e del Giappone rispetto agli USA nei ’50 e ’60 modificò profondamente i rapporti di forza economici tra i paesi capitalisti e portò alla disgregazione del sistema monetario internazionale stabilito nel 1944 a Bretton Wood.
La produttività degli USA è, infatti, calata dal 3,2% medio annuo del 1946-1968 all’1,9% del 1968-1972 (e allo 0,7% del 1972-1979), mentre l’Europa e il Giappone mantenevano, in generale tassi di sviluppo più alti di quelli americani. Le quote di mercato perse dagli USA (meno 23% negli anni ’70 rispetto agli anni ’60) sono state conquistate quasi per intero dalla Germania Federale e dal Giappone.
La corsa al riarmo negli anni ’80.
Il manifestarsi della crisi capitalista negli anni ’70 comportò un aumento dell’aggressività dell’imperialismo americano, in particolare nei confronti del blocco dei paesi che venivano definiti “socialisti” e dei paesi che tentavano di liberarsi dal gioco imperialista americano (come il Nicaragua, l’Angola ecc.).
Gli anni ’80 furono caratterizzati da un’enorme spesa militare degli USA. L’amministrazione Reagan spese per un totale di 2.200 miliardi di dollari per il settore militare, e nel 1984 superò il bilancio militare del 1969, l’anno di massima spesa per la Guerra del Vietnam. Mai sino allora il bilancio militare statunitense aveva registrato un aumento del 50% in periodo di pace.
Circa il 50% dei fondi destinati dal Pentagono all’acquisto di armamenti, erano andati ai venti maggiori contrattisti, che avevano monopolizzato la produzione dei più dei più importanti sistemi. Si era così consolidato ulteriormente il monopolio che i colossi dell’industria avevano costruito negli ultimi decenni. Alcuni esempi: la General Dynamics aveva ricevuto il contratto per la produzione dei cacciabombardieri F-111 nel 1962, quando era stata cancellata la produzione dei B.58 e, una volta terminata la produzione dei F-111, aveva ricevuto nel 1974 il contratto per la costruzione dei cacciabombardieri F.14. Alla McDonnel Douglas, una volta cessata la produzione dei F-14, era andata nella 1970 il contratto per la produzione dei F-15. Alla Lookhed il contratto per gli aerei di trasporto C.54, una volta cessata la produzione dei C.141. Inoltre, la Loockehed per trent’anni aveva fornito alla Marina tutti i missili balistici dei sottomarini dai Polaris ai Poseidon, dai Trident I ai Trident II.
I costi principali sistemi d’arma avevano continuato a crescere, superando le previsioni di bilancio. Il bombardiere Stealth B-2, prodotto dalla Northorop, aveva raggiunto il costo di circa 600 miliardi di dollari (all’incirca 700 miliardi di lire dell’epoca) e l’Aeronautica ne chiedeva 172 per un costo complessivo di settantacinque miliardi di dollari.
Rilevava la rivista Time del 27/02/88 in un servizio intitolato Il pentagono in vendita: “Spendendo 160 miliardi di dollari l’anno in colossali forniture il Dipartimento della Difesa statunitense è divenuto la più grande e importante impresa d’affari del mondo”.
Nel 1983 fu varato il programma denominato Iniziativa di Difesa Strategica (S.D.I.). Originalmente tale progetto prevedeva la realizzazione di un complesso sistema a tre stadi, noto come “scudo spaziale” capace di intercettare i missili balistici intercontinentali (I.C.B.M. = Intercontinental Ballistic Missile) con base di lancio a terra con base di lancio a terra e i missili balistici con base di lancio sottomarina (S.L.B.M. = Submarine Launche Missile) e le loro testate nucleari, durante tutte le fasi della loro traiettoria.
L’architettura della SDI prevedeva una serie di piattaforme, dotate di vari tipi di sensori e armi, e sistemi d’intercettazione con base a terra: alcune piattaforme avrebbero avuto la funzione di identificare e tracciare i missili in fase di lancio, elaborare con i computer di bordo i dati per la loro intercettazione; altre, la funzione di distruggere i missili, nella prima e seconda fase, con armi a energia diretta (raggi X, fasci di particelle neutre); altre, la funzione di distruggere i veicoli di rientro, nella terza e quarta fase, con armi a energia cinetica (missili intercettori con guida terminale, lanciati da piattaforme orbitanti o da rampe a terra).
Da parte di molti scienziati ed esperti di questioni strategiche, si mostrava che uno stato in possesso di uno “scudo spaziale”, anche se imperfetto, avrebbe potuto lanciare un attacco nucleare di sorpresa, sapendo che lo “scudo” sarebbe stato in grado di neutralizzare uno scoordinato colpo di rappresaglia. Inoltre, le armi a energia cinetica, che apparivano le più fattibili per uno spiegamento presto rispetto a quelle a energia diretta, sarebbero potuto essere usate per distruggere i satelliti militari dell’avversario che, “accecato”, sarebbe stato più vulnerabile in un attacco nucleare.
I circa 300 satelliti attivi, dei 170 sono militari (dati del 1991 tratti dal libro Tempesta del deserto di D. Bovet – M. Dinucci, edizioni ECP) svolgono importantissime funzioni militari e civili: tra quelle militari vi è la raccolta d’informazioni, le comunicazioni, l’allarme precoce contro un attacco ecc. Costituiscono quindi un sistema nevralgico di primaria importanza. Le prime armi anti-satellite (ASAT = Anti-Satellite) sono state costruite e sperimentate negli Stati Uniti nel 1959, quelle russe nel 1969; da allora i programmi ASAT sono proseguiti.
Le conseguenze economiche e sociali della politica di riarmo negli anni ‘80
Uno degli effetti della spesa militare sull’economia statunitense negli anni ’80 è stato il fenomeno del rigonfiamento artificiale dei costi: essendo divenuto il Dipartimento della Difesa uno dei principali acquirenti di macchine utensili e uno dei maggiori promotori di ricerca e sviluppo, la sua disponibilità di mezzi di pagamento aveva contagiato l’intera industria di macchine utensili, inducendo una lievitazione dei prezzi del settore, con la conseguenza di una perdita di competitività, una minore propensione agli investimenti e la perdita di posti di lavoro nell’industria.[3]
Con un deficit del bilancio federale che alla metà degli anni ’80 superava già i 100 miliardi di dollari annui, l’amministrazione Reagan ricorse ai mercati finanziari internazionali e, per attirare negli USA capitali stranieri, operò un elevamento dei tassi d’interesse: questo richiamò negli USA capitali crescenti, soprattutto europei e giapponesi, ma la maggiore domanda di dollari sui mercati valutari faceva salire la quotazione della moneta statunitense, con la conseguenza che molti prodotti statunitensi, come le macchine utensili, tessili e agricole divenivano meno competitivi. Dato che per le stesse aziende statunitensi diveniva più conveniente importare tali prodotti, il deficit della bilancia commerciale degli Stati Uniti cresceva fino a superare i 150 miliardi di dollari annui poco dopo la metà degli anni ’80. Il peso della crisi ricadeva su ampi settori dell’economia interna. L’industria manifatturiera perdeva nel periodo 1980-85 2.300.000 posti di lavoro (International Herald Tribune 10.06.85), 93.000 aziende agricole – informava il Dipartimento dell’Agricoltura (The Associated Press dell’11/03/85) erano insolventi o sull’orlo del fallimento e ciò provocò il fallimento di centinaia di banche agricole. Ampi strati della popolazione, colpiti dalla crisi economica e dal taglio della spesa pubblica, vedevano peggiorare la loro situazione, mentre aumentava il numero dei disoccupati, dei senzatetto, degli emarginati.
Documentava la rivista Time del 10.10.88: “Dal 1977 al 1988 il reddito delle famiglie che costituivano il venti per cento più povero della popolazione, calcolata al netto dell’inflazione, è calato di oltre il dieci per cento. Il numero di persone che vivono di sotto la linea di povertà. Sceso dai 40 milioni del 1960 ai ventitré milioni scarsi nel 1973, è risalito a 35 milioni nel 1983, restando da allora tale livello. Nel frattempo, per l’1 per cento più ricco di tutte le famiglie, il reddito è salito vertiginosamente dal ’74, da 174.000 dollari a 304.000 dollari l’anno”. Dice il democratico californiano George Miller, membro del Congresso e Presidente del comitato che si occupa dei problemi delle famiglie: “Stiamo creando qualcosa che somiglia a un manubrio per il sollevamento dei pesi: i poveri sono più poveri e c’è né sempre di più. I ricchi sono più ricchi e c’è né sempre di più. E la classe media? Dato che una sua parte cade in povertà un’altra si arricchisce, essa si sta restringendo”.
Il deficit di bilancio da 150 a oltre 150 miliardi di dollari annui (Newsweek, 15/10/90), il debito federale è arrivato nel 1990 a 12.409 dollari per abitante rispetto ai 3.889 dollari di dieci anni prima (Time del 15/10/90), un indebitamento pubblico e privato complessivo tale da rendere il debito pro-capite statunitense era 70 volte maggiore di quello del Terzo Mondo.
Scriveva W. Pfaff sul Los Angeles Times del 30/11/91:
“L’indebitamento e il relativo declino della competitività degli Stati Uniti diminuiscono la capacità di leadership. La leadership globale degli Stati Uniti oggi si basa fondamentalmente sulla loro potenza militare”.
Il commercio mondiale delle armi.
Verso la fine degli anni ’60, la Guerra del Vietnam e l’insieme degli impegni mondiali presero a gravare in maniera sempre più pesante sulle risorse degli Stati Uniti, dando il loro contributo all’inflazione e al disavanzo della bilancia dei pagamenti. In questa situazione vendere armi all’estero e venderne il più possibile, si configurò come il tentativo di “scaricare” all’estero una parte delle difficoltà interne dell’economia americana, tentativo che non poteva non essere favorito dal consolidamento delle economie dell’Europa e del Giappone e dal rapido arricchimento, dopo il 1973, dei paesi produttori di petrolio del Medio Oriente. Così alla fine degli anni ’60 il Pentagono prese a impegnarsi in un’aggressiva politica di vendite militari all’estero.
A metà degli anni ’60 il ricavato delle vendite di armi era sul miliardo di dollari annui, a metà degli anni ’70 era salito sui 10 miliardi di dollari annui, nel 1980 aveva raggiunto i 15 miliardi di dollari annui. Se il contributo alla riduzione del disavanzo della bilancia dei pagamenti fu uno dei motivi che indussero il ministero degli USA a prendere l’iniziativa della vendita di armi, esistevano agli inizi degli anni ’70 altri motivi. Le imprese produttrici si trovavano in quel periodo con una notevole capacità in eccesso per effetto dell’imponente domanda di armi verificatosi durante la Guerra del Vietnam; grazie ad essa, infatti, sia l’occupazione sia la capacità produttiva militare si era espansa rapidamente. Ma quando, verso la fine della guerra, quella domanda diminuì rapidamente, le imprese impegnate nella produzione militare riuscirono a ridurre l’occupazione, ma non ridussero la capacità produttiva.
Nell’ambito della crescente instabilità internazionale, tutti i principali paesi del Medio Oriente utilizzarono i maggiori introiti per acquistare armi nell’intento di costituirsi come potenza militare regionale. I dati parlano chiaro: nel 1991 l’Arabia Saudita ha chiesto di poter acquistare armamenti dagli Stati Uniti per 20 miliardi di dollari. Contemporaneamente Israele ha rivendicato maggiore assistenza militare da parte statunitense. L’Egitto, dal canto suo ha subordinato il suo appoggio militare all’operazione “Tempesta del Deserto” a una fornitura statunitense per un valore di 6 miliardi di dollari. Tutto questo ha reso effervescente il mercato clandestino delle armi e alimentato gli scambi petrolio-armi realizzati a livello internazionale sfruttando le triangolazioni finanziarie e commerciali.
Di fatto, il meccanismo petrolio-armi si era già attivato da molto tempo. Del resto, molte importanti banche probabilmente evitarono il tracollo anche grazie a questi meccanismi; infatti, la “stabilità istituzionale” di molte banche sembra discutibile, quando esaminando i crediti concessi a paesi del Terzo Mondo. Se si confrontano i loro prestiti con il loro capitale, si trova che nel 1984 tutte le nove maggiori banche statunitensi avevano collocato prestiti a: Messico, Brasile, Argentina e Venezuela per un ammontare superiore al loro capitale netto.
Solamente una di esse le supera, la britannica Lyods, che nel 1984 aveva impegnato in prestiti a questi quattro debitori il 165% del suo capitale, mentre la Midland le batteva tutte con un vertiginoso 205%.
Viceversa, la banca americana con il maggiore scoperto, la Manufactures Hannover, nel 1984 doveva farsi rimborsare dai maggiori debitori “solamente” il 173% del suo capitale.
Nel periodo compreso tra il 1980 e il 1989, l’ammontare complessivo delle esportazioni petrolifere dei paesi arabi dell’OPEC questi paesi hanno investito il 38% delle loro rendite in petroldollari nell’acquisto di armamenti per un totale di 426 miliardi di dollari. Il solo Iraq, nel decennio considerato, ha acquistato grandi sistemi d’arma per un ammontare di 25 miliardi di dollari, cifra che non computa gli acquisti irakeni di attrezzature militari di supporto, delle munizioni e delle. Nel periodo 1971-1985 Iraq, Iran, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrain hanno assorbito il 23,2% delle esportazioni totali dei maggiori sistemi d’arma verso i paesi del Terzo Mondo.
La prima Guerra del Golfo (1991)
Sono state diverse le cause che hanno scatenato la Guerra del Golfo del 1991.
Una di queste è stata l’esigenza dell’imperialismo USA di riprendere sotto controllo l’Iraq, che cercava di diventare uno dei più grandi produttori mondiali conquistando militarmente i pozzi di del Kuwait (cosa che gli avrebbe permesso di influire sul prezzo del mercato mondiale del petrolio).
Il prezzo del petrolio ha avuto una storia relativamente tranquilla dalla seconda metà dell’ottocento fino ai primi anni ’70 del XX secolo quando, i sei paesi del Golfo membri fecero raddoppiare il prezzo medio del greggio, portandolo a superare per la prima volta a 10 dollari a barile. L’aumento del costo del barile significava da un lato, una fetta più grossa per gli “sceicchi” (ovvero la casta semifeudale dominante nei paesi arabi, per lo più legata all’imperialismo americano) e dall’altro, costi di produzione sempre maggiori per gli europei e i giapponesi, più dipendenti dalle importazioni petrolifere che non gli USA (le cui merci guadagnarono, di fatto, in competitività nella concorrenza sul mercato mondiale). Intanto la nazionalizzazione delle compagnie petrolifere attuata in alcuni paesi arabi (quali l’Algeria e la Libia) e l’embargo selettivo sull’export di petrolio attuato verso gli U,S,A e i paesi europei sostenitori di Israele, il mondo arabo iniziava a scrollarsi di dosso, il sistema di saccheggio impostogli dall’imperialismo. Si manifestava così pure a questo livello la forza raggiunta dal moto nazionalrivoluzionario d’Asia e d’Africa che l’insurrezione iraniana del 1979 ravvivò.
L’aumento del prezzo del petrolio (quintuplicato in due anni e poi raddoppiato nei successivi 8 – 9 anni) concorse con il ciclo mondiale delle lotte operaie del 1969-1972 ad accrescere i costi di produzione dei capitalisti europei e giapponesi nel momento in cui finiva un trentennio di sviluppo e più acuto diventava il bisogno del capitale ad abbassare i costi di produzione.
Nei 25 anni successivi al 1973, prese corpo la controffensiva dei paesi imperialisti tesa a ridurre la rendita petrolifera e il potere politico-economico dell’OPEC. Le conseguenze si sono viste: l’OPEC è stata in sostanza ridimensionata. L’Iraq è stato scagliato contro l’Iran. La Libia, il Sudan e la Siria sono stati continuamente sotto tiro. E infine nel 1991 arrivò la micidiale operazione contro l’Iraq.
La guerra del golfo fu necessaria all’imperialismo U.S.A. per riprendere sotto controllo il costo del petrolio. Ed è esattamente quel che è successo dopo la distruzione dell’Iraq se è vero che in “termini reali in dollari del 1973, il prezzo medio del greggio OPEC è risultato, nei primi mesi del 1998 a 3,81 dollari a barile, è cioè circa un terzo soltanto di quello che era il suo prezzo storico del 1982 (9,87 dollari a barile). (Arabians Trends dicembre 1998). Se si considera che un barile e poco meno di 160 litri, questo vuol dire che il greggio, il primo motore dell’industria, dei trasporti e della vita urbana del mondo intero, viene ora a costare ai paesi imperialisti non più di 40/100 lire a litro.
Questa rapina è vitale per gli imperialisti americani (che sono i massimi consumatori mondiali di energia per usi industriali e domestici) poiché consente loro, di conservare un livello di consumi interni altrimenti impossibile data la contrazione del potere d’acquisto dei salari. E’ anche attraverso i proventi di questa rapina che i paesi imperialisti cercano di evitare la recessione, preservare la pace sociale[4] e finanziare gli eserciti che devono terrorizzare le masse sfruttate della”periferia” mondiale.
Un’altra causa della Guerra del Golfo è stata rappresentata dalla necessità dell’imperialismo U.S.A. di controllare manu-militare il Golfo per indirizzare il flusso dei petroldollari verso il mercato finanziario americano. Gli U.S.A. possono così sottrarre ai paesi europei e ai giapponesi una notevole quantità di capitali finanziari, riequilibrando temporaneamente la loro disastrosa situazione debitoria dei partner europei e giapponesi.
La Guerra del Golfo è stata la prima applicazione della teoria denominata M.I.C. (Mid Intensity Conflict). Questa teoria è nata con la fine della “Guerra Fredda” dalla necessità di mutare la dottrina strategica – tattica in conseguenza del crollo dell’U.R.S.S.
Il New York Times dello 07/02/’90 riportava la notizia che il Sottosegretario alla Difesa Dick Cheney aveva predisposto un documento programmatico che stabiliva le regole dell’impiego del potenziale militare U.S.A. nel periodo 1992-1997: in tale documento si raccomandava di porre l’accento sull’eventualità di conflitti armati con potenze regionali quali Siria e l’Iraq. La dottrina del M.I.C. presuppone a livello militare l’impiego di forze di rapido intervento, armate dei nuovi mezzi, potenti e flessibili, risultato dell’applicazione della tecnologia avanzata ai mezzi di distruzione.
Questa dottrina ha imposto alle forze armate degli Stati Uniti una revisione della loro strategia, poiché esse erano preparate principalmente ad affrontare un conflitto ad Alta Intensità, ossia una guerra fra NATO e Patto di Varsavia, e secondariamente un conflitto a Bassa Intensità contro i movimenti di liberazione del Terzo Mondo (alcuni esempi di applicazione sono stati, nell’America Centrale degli anni ’80 in Nicaragua, in Salvador e nel Guatemala).
E’ in questo periodo che assumeva crescente importanza, per la “presenza avanzata” statunitense, il fianco sud della NATO, in particolare la rete di basi nel meridione d’Italia, da Gioia del Colla a Taranto, da La Maddalena a Sigonella. Tale presenza, costituita da forze sia convenzionali sia nucleari, sarebbe stata ulteriormente potenziata, come confermavano i Ministri della Difesa della Nato il 12 dicembre 1991. Venuta meno la “minaccia dell’Est” s’individuava ora la “minaccia dal Sud” per giustificare soprattutto il potenziamento del ruolo strategico del meridione d’Italia, naturale base di lancio e supporto degli interventi militari in Medio Oriente, Nord Africa e nei Balcani.
In questo quadro si inseriva il nuovo modello di difesa italiano, presentato nel novembre 1991. Tenendo conto della vulnerabilità dell’economia italiana, dipendente dall’importazione di materie prime e dall’approvvigionamento petrolifero, il nuovo modello di difesa passato dalla “Difesa avanzata” alla “Presenza avanzata con il compito aggiuntivo di “difendere gli interessi esterni e contribuire alla sicurezza internazionale” nelle aree di crisi.
Il nuovo modello di difesa richiede un esercito più professionale, con conseguente riduzione della leva, e nuovi armamenti: dai Tornado, dotati di nuove capacità d’interdizione dei sistemi di comunicazione e delle difese aeree nemiche, a una seconda miniportaerei con aerei a decollo verticale, idonea a operare in aree lontane.
Inoltre la Guerra del Golfo è stata un banco di prova delle tecnologie della ricerca militare degli anni 80, pensiamo alle cosiddette “bombe intelligenti” o agli Scud e ai Patriot; infatti, essa ha contribuito a rilanciare l’iniziativa della Difesa Strategica S.D.I. (le cosiddette “Guerre Stellari”) dando nuovo impulso alla ricerca nel settore militare. La Guerra del Golfo, accrescendo la già enorme spesa militare di 300 miliardi di dollari annui e vanificando con il rilancio della produzione bellica i tagli previsti al bilancio della difesa, aggravò il deficit federale, a ulteriore scapito della spesa sociale e delle condizioni economiche delle fasce più povere della popolazione.
Riferiva il corrispondente del Corriere della Sera in un articolo del 02/11/’91 che titolava “Una situazione così pesante non si ripeteva dai tempi della Guerra del golfo”: “La settimana di lavoro è stata più corta perché la produzione ristagna, le richieste di sussidi di disoccupazione sono aumentate. La situazione è nera”.
In Francia i costi della Guerra del Golfo erano calcolati dal giornale l’Expansion (Medicine et Guerre Nuclèare n. 2 1991) in: 3 – 6 miliardi di franchi quale costo dell’operazione Daguet ossia la partecipazione delle forze armate francesi all’Operazione Tempesta del Deserto, 5,5 miliardi quale perdita delle esportazioni verso il Kuwait e l’Iraq, 16 miliardi quale aggravio delle imposte petrolifere, 40 miliardi in seguito al mancato pagamento di debiti da parte dell’Iraq; 60 miliardi in seguito alla mancata esportazione di prodotti francesi nei paesi arabi: 50-100 miliardi in seguito al rallentamento della crescita del prodotto interno lordo.
Il totale delle perdite è stato circa tra i 175 e oltre i 227 miliardi di franchi, per compensare il deficit, il governo decideva una serie di tagli ai bilanci della Sanità, dell’Assistenza sociale, dell’Istruzione e altri per un ammontare valutato di 30 miliardi di franchi. L’unico a non essere intaccato è stato il bilancio della difesa, che era già forte ascesa con un incremento del 30% destinato alle forze nucleari.
Le spese militari u.s.a. negli anni ‘90
“Prevedo di rivedere la nostra politica sugli armamenti e di affrontare la questione con l’altro grande Paese venditore di armi nell’ambito di uno sforzo a lungo termine per ridurre la proliferazione delle armi”. Questa fu la promessa elettorale di Clinton in fatto di armi, a Guerra del Golfo appena conclusa.
Ma dopo un anno di presidenza Clinton, le vendite di armi erano, di fatto, già raddoppiate: il governo USA aveva ritenuto opportuno non contrastare il positivo effetto che la Guerra del Golfo aveva avuto sull’economia americana attraverso il rilancio delle commesse militari (in particolare per quanto riguardava il settore aerospaziale, l’elettronica, l’informatica ecc.).
Dal 1993 al 1997 il governo statunitense ha venduto, trattato o concesso armi per l’equivalente di 190 miliardi di dollari. Per riconoscenza, l’industria delle armi ha finanziato la campagna elettorale 1998 del Partito Democratico con una cifra che si aggira sui 2 milioni di dollari.
Le esportazioni mondiali di armamenti costituiscono una percentuale molto ridotta della produzione globale degli armamenti: meno del 3% della produzione di armi viene, infatti, esportata. Per le industrie militari U.S.A. (che pure raggiungono il 55% del totale mondiale) le esportazioni di armi rappresentano un affare minore – anche se non trascurabile – rispetto alle colossali commesse nazionali assicurate dal Pentagono (il quartiere generale delle forze armate americane). Le esportazioni di armi – al di là del valore economico – hanno comunque anche una valenza politica, nel senso che s’inseriscono nella strategia complessiva del governo U.S.A. per assicurare condizioni favorevoli ai profitti delle multinazionali americane scala mondiale (ad esempio, sia l’amministrazione Bush S. che in seguito, l’amministrazione Clinton hanno ampiamente sfruttato il ruolo preponderante degli U.S.A. nella vittoria su Saddam Hussein per aumentare la quota di mercato delle compagnie americane in Medio Oriente a scapito delle compagnie francesi e inglesi).
Passando alle spese per la R&S (ricerca e sviluppo) militare, tra il 1992 e il 1995 gli U.S.A. hanno speso 162 miliardi di dollari, ossia il doppio di quanto spende tutti gli altri stati (in altri termini, circa il 2/3 del totale mondiale). Tale cifra spiega e riassume il predominio mondiale militare degli U.S.A. a livello mondiale (almeno nelle guerre convenzionali non ci può scordare la vittoriosa guerra di liberazione nazionale del Vietnam sugli imperialisti americani e l’attuale pantano iracheno in cui si sono cacciati gli U.S.A e i loro alleati).
Nel 1997, l’85% delle spese mondiali per la difesa era assicurato da 22 paesi “ad alto reddito”: a loro volta gli U.S.A. rappresentavano il 50% di quella percentuale (ovvero generavano il 42,5% delle spese militari mondiali).
Nei primi giorni del gennaio 1999, in un discorso per radio Clinton annunciò nuovi stanziamenti per le spese militari per 100 miliardi di dollari nell’arco di sei anni (circa 170 miliardi di lire al cambio dell’epoca), dichiarando che le “forze armate meritano un riconoscimento per le complesse missioni con straordinaria precisione, come il recente bombardamento di Baghdad”.[5]
Si trattava del massimo incremento del bilancio del Pentagono dal 1991: il 24 marzo 1999 iniziò la guerra di aggressione degli imperialisti NATO/USA ed europei nei confronti della Repubblica Federale Jugoslava.
I bombardamenti sulla Jugoslavia, fatti quasi esclusivamente con materiali bellici americani; hanno comportato il consumo di circa la metà dell’arsenale NATO; conseguentemente, è iniziato un nuovo ciclo di commesse miliardarie (in dollari) per il complesso militare – industriale americano, che ha funzionato da volano per l’intera economia U.S.A. allontanando lo spettro del ristagno paventato dagli economisti borghesi per il secondo semestre del 1999.
Crisi economica, necessità dell’integrazione europea e riarmo
Una delle conseguenze della crisi economica è l’esasperazione della concorrenza, per decidere chi debba fare le spese dell’eccedenza del capitale, essendo l’attuale crisi economica, una crisi di sovrapproduzione di capitale.[6] La causa sta nel fatto che nell’ambito del modo di produzione capitalistico a un certo punto si crea un conflitto inconciliabile tra la produzione di plusvalore e la realizzazione del valore prodotto. I capitalisti dovrebbero investire tutto il plusvalore estorto, anche così facendo il tasso di profitto diminuisce o non aumenta. Se i profitti attesi non aumentano o diminuiscono, i capitalisti cessano l’accumulazione, con la conseguenza di non valorizzare tutto il plusvalore estorto. Diminuisce il capitale impegnato nella produzione e aumenta il capitale impegnato nella sfera finanziaria che diventa la parte più grande del capitale (si pensi che seconde stime correnti il mercato dei titoli avesse raggiunto nel 1994 i 14.000 miliardi di dollari U.S.A., ossia il doppio del P.I.L. che aveva all’epoca gli U.S.A.). Il capitale finanziario tende a crescere e la crisi assume la veste di crisi finanziaria. I movimenti propri del sistema finanziario diventano essi stessi un altro fattore di sconvolgimento del capitale impegnato nella produzione di merci e una via attraverso cui la crisi compie il suo cammino.
Ne deriva un’enorme accelerazione del processo di concentrazione del capitale che tentano di raggiungere la “massa critica” indispensabile per reggere lo scontro con i concorrenti. Tale processo, nel corso degli ultimi anni, ha trovato una proiezione nello sforzo di ciascuna grande potenza imperialistica di costituire aree economiche integrate, al cui interno si cerca di portare al minimo la concorrenza tra i capitali, in modo da concentrare i propri sforzi nella lotta contro i concorrenti esterni. In tal senso si sono mossi gli U.S.A., che hanno cercato attraverso il Nafta di costituire un’area di libero scambio. Allo stesso modo il Giappone, il secondo grande polo imperialista, si muove da qualche tempo per sottomettere alla propria influenza un’area del Pacifico dai confini sempre più ampi e che rappresenta un punto focale dello scontro interimperialistico.
Confrontarsi con queste due aree a dominanza giapponese e statunitense è divenuto impossibile senza gettare sul piatto della bilancia un potenziale economico del medesimo ordine di grandezza: i paesi europei, con la Germania in prima fila devono quindi abbandonare ogni ambizione di contare nelle relazioni internazionali per la lotta per la supremazia se continueranno ad agire in ordine sparso senza avere, presi singolarmente, una capacità economica paragonabile a quella dei concorrenti. Dentro questo quadro dei rapporti mondiali sta quindi l’esigenza materiale dell’integrazione europea.
Nella concorrenza con l’imperialismo U.S.A., i paesi imperialisti europei si stanno dotando di mezzi adeguati per avere una voce in capitolo sulle questioni internazionali, soprattutto dopo la guerra contro la Jugoslavia, che è stato per i governi europei un vero e proprio schiaffo militar oltre che politico, poiché lo strapotere della forza militare americana rispetto a quella europea è risultata schiacciante agli occhi dei vari governi europei che si sono accodati all’imperialismo U.S.A. nell’aggressione alla Jugoslavia.
Nel vertice di Helsinki che si tenne il 10 e 11 dicembre 1999, il Consiglio Europeo, prese la decisione di creare un corpo d’armata totalmente europeo.
Per permettere lo svilupparsi di questo progetto, occorre un incremento dei fondi destinati alla ricerca e allo sviluppo per l’ammodernamento degli eserciti.
Conseguentemente a queste decisioni e alla guerra contro la jugoslavia, le maggiori industrie europee stanno facendo affari d’oro: il gruppo tedesco-statunitense Daimler Chrysler Areospace (DASA) e quello francese Areospatiale-Matai ha creato all’EDAS (European Atronautic Defense and Space) un colosso che vale un fatturato potenziale di oltre 25 miliardi di dollari, il primo in Europa e terzo al mondo. Poi c’è la costituzione di Astrium che rappresenta il matrimonio tra la stessa Dailmer e la franco-britannica Matra Marconi Euro, che dovrebbe operare nel comparto spaziale.
Il progetto Eurodifesa quindi è avviato dal punto di vista politico ed economico: il problema principale, dal punto di vista militare è che gli europei devono fare salti mortali per raggiungere o almeno avvicinarsi agli standard di armamenti dell’esercito americano.
L’apparato bellico americano è sempre il più potente che c’è nel mondo: alla fine degli anni ’90 possedeva 8.239 carri armati, 26.000 mezzi corazzati di vario tipo, 5.703 pezzi di artiglieria, 4905 aerei da combattimento, 2.157 elicotteri d’attacco. 234 navi da battaglia, una flotta che comprende 12 portaerei e 138 corazzate e incrociatori. A tutto bisogna aggiungere l’arsenale nucleare: 33.550 ordigni che possono essere lanciati dai sottomarini, dalle navi, dagli aerei o con i missili balistici.
Se si confrontano queste cifre con quelle dei paesi europei che vogliono creare l’Europs, è in maniera eclatante la supremazia americana, l’Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna possono mettere assieme: 6495 carri armati, 3.725 cannoni, 2032 aerei, 875 elicotteri e 486 navi.
capitolo 2
le attuali strategie belliche del pentagono
Per tutta la seconda guerra mondiale, gli U.S.A. spesero complessivamente 321 miliardi di dollari nel 2001 hanno speso 291,1 miliardi di dollari.
Il Pentagono fece sapere che però era ancora tropo poco, per la ricerca e la realizzazione di strumenti “difensivi” tecnologicamente avanzati ci sarebbero almeno 30 miliardi di dollari. Grazie all’11 settembre si spesero per R&S nel settore militare se ne spesero ben 52,7.
Vediamo alcuni capitoli di spesa militare U.S.A. nel periodo 2001-2003:
Spesa per singola forza armata in miliardi di dollari:
2001 |
2002 |
2003 |
|
U.s. Army |
61,7 |
80,9 |
90,9 |
U.s. Navy |
91,7 |
98,8 |
108,3 |
U.s. Air Force |
85,2 |
94,3 |
107 |
Gli U.S.A. più di qualsiasi altro paese imperialista devono annualmente sostenere la loro guerra mondiale, per mantenere la loro egemonia. Dal Medio Oriente all’Asia, dall’Europa all’America Latina, allo spazio siderale la presenza di basi aeree e navali, soldati, satelliti militari, flotte navali, centri d’addestramento, missioni segrete e covert actions, radar e sistemi d’intercettazione, spie e microspie, richiede un grosso impegno affinché l’egemonia del dollaro sia preservata e imposta.
Il programma Joint Vision 2010 (JV 2010) ha l’obiettivo di “stimolare le varie forze armate a ragionare in termine di dominio globale dallo spazio agli abissi del mare”.[7]
L’U.S. Army sta lavorando alla realizzazione del progetto Objective Force che in linea generale dovrebbe raggiungere l’obiettivo di proiettare e sostenere una brigata da combattimento in qualsiasi angolo del pianeta entro 4 giorni dall’ordine, una divisione in 5 giorni, 5 divisioni entro 30 giorni. Per fare ciò si punta ad una “standardizzazione” delle varie unità eliminando le attuali distinzioni (peraltro presenti in tutti gli altri eserciti) tra unità leggere (parà, fanteria d’assalto, fanteria leggera, ecc.) e unità pesanti (corazzate, d’artiglieria ecc.) con l’obiettivo di creare un nuovo esercito composto da divisioni identiche ed autonome in grado di accorpare capacità di controllo e comando, comunicazione, computer, intelligence, sorveglianza e ricognizione, ma soprattutto con necessità logistiche enormemente ridotte grazie alla prevista riduzione del 50-70% del peso dei veicoli.
Buona parte degli investimenti è quindi rivolta alla realizzazione di questa prima fase di standardizzazione che dovrebbe portare al così detto Army XXI. Una seconda fase si protrarrà sino al 2025 per finire il progetto complessivo attraverso l’approntamento del cosiddetto Army After Next.
Per far ciò che riguarda l’U.S. Navy il sotto progetto di riferimento, è stato definito Forward From The Sea e prevede la realizzazione e mantenimento delle cinque funzioni principali: controllo dei mari e supremazia marittima, capacità di proiezione dal mare verso terra, deterrenza strategica, capacità di trasporto e presenza navale avanzata. In particolare è stato riconfermato il ruolo dei gruppi di battaglia che comprendono portaerei che sono delle vere e proprie basi aeree avanzate dalle quali svolgere tutte le operazioni del caso senza dover chiedere eventuali autorizzazioni di paesi alleati/allineati per l’utilizzo o l’accesso a basi situate in territorio extra-nazionale.
L’US Marine Corps e l’US Navy in particolare ritengono di vitale importanza raggiungere un buon livello nella dotazione e impiego di munizionamento così detto “intelligente” e lamentano una certa arretratezza sia nel campo dei sistemi d’arma che missilistici.
Da segnalare che il programma Urban Warrion che i Marines stanno approntando, comprende particolari tecniche di combattimento in ambiente urbano accompagnate da relative strumentazioni hi-tech come visori e sistemi di comunicazione integrati. L’ambiente urbano-metropolitano è, infatti, considerato (anche dall’Esercito col suo programma Land Warrion XXI) l’ambiente principale delle guerre presenti e, soprattutto future.
Il programma dell’Aviazione (USAF) ha anch’esso un titolo non meno altisonante e guerrafondaio: Global Engagement: A Vision For The 21 st. Century (Ingaggio Globale: una visione per il 21°secolo). Facilmente prevedibile l’obiettivo: dominare il cielo e spazio in stretta integrazione con le altre armi.
La crescente militarizzazione dello spazio.
Con il programma denominato National Missile Defense, affidato al neo costituito Missile Defence Agency, che prevede la messa a punto nell’arco di 5 anni di 100 intercettatori extraatmosferici, 5 radar di allerta e un radar speciale, l’amministrazione Bush affossa gli accordi di non proliferazione nucleare, proseguendo la politica della precedente amministrazione Clinton che approvò, a suo tempo i capitoli di spesa per lo sviluppo del sistema anti-missile.
L’intenzione di creare una quarta forza arma spaziale completamente indipendente è strettamente connessa alla difesa anti-missile quindi è già costituita un’agenzia ad hoc, ma anche alla riorganizzazione stessa dell’aviazione come forza non più aerea ma appunto ma appunto aero-spaziale. Un percorso obbligato; a loro tempo la marina e l’aviazione ebbero lo stesso tipo di genesi: diventarono armi indipendenti nel momento in cui diventò strategico il controllo dei rispettivi ambienti. La militarizzazione totale del pianeta sarà così compiuta: dalla terra al mare, dal mare all’aria, dall’aria allo spazio.
In occasione dell’approvazione del bilancio federale del 2000, l’amministrazione Clinton istituiva una commissione per l’organizzazione e la pianificazione della sicurezza spaziale degli Stati Uniti.[8] A presiedere tale commissione era posto (guarda che caso) Donald Rumsfeld, mentre 8 dei 12 membri erano generali in pensione.
Nel gennaio 2001, la commissione rendeva noti i risultati del suo lavoro. Lo spazio diventa definitivamente ambiente di interesse militare alla stessa stregua di terra, mare e cielo. Gli USA devono occuparlo ed acquisire la superiorità necessaria per impedire a qualsiasi altra potenza d’installarvisi. Attraverso l’uso militare dello spazio possono conquistare per sé la supremazia illimitata in tutti gli altri ambienti. La commissione rilevava che l’attuale situazione, dove l’interesse spaziale è frammentato per le singole forze armate, come per la marina che già dispone di suoi propri satelliti in orbita, genera o può generare doppioni nelle acquisizioni nonché incompatibilità dei vari mezzi e sistemi. Per questa ragione i compiti di occupare e “difendere” lo spazio dovrebbe essere assegnato ad un comando indipendente. Le ricerche e lo sviluppo dovrebbero arrivare a: a) aumentare le capacità di controllo e avvertimento in caso d’attacco; b) accrescere le misure protettive e difensive, i sistemi di prevenzione e neutralizzazione, le capacità di proiezione rapida di potenza; c) modernizzare le capacità di lancio (auspicandone la privatizzazione); d) lanciare un programma scientifico e ultravioletti, tecnologie che permettano la costruzione di veicoli da lancio riutilizzabili.
Dal punto di vista organizzativo la suddetta commissione ha elaborato dieci raccomandazioni:
1) L’arma spaziale sarà sottoposta all’autorità del presidente degli Stati Uniti.
2) Il presidente deve essere affiancato da un consiglio spaziale.
3) Deve essere formalizzato, all’interno del Consiglio di Sicurezza un coordinamento tra le varie agenzie d’intelligence per la definizione delle attività spaziali.
4) Il segretario della difesa e il direttore della CIA si devono incontrare regolarmente per indirizzare la politica spaziale di sicurezza nazionale, i suoi obiettivi ecc.
5) Deve essere designato un sottosegretario alla difesa spaziale che coadiuvi il segretario della difesa nelle questioni spaziali e in quelle di coordinamento con i servizi segreti.
6) Il comando spaziale deve essere distinto dai comandi delle altre armi.
7) I sistemi spaziali dovranno garantire la possibilità di svolgere operazioni indipendenti o a supporto degli interventi delle altre forze armate. Per far ciò sarà necessario costituire uno Space Corps. Nel breve periodo l’Air Force avrà il compito di formare e equipaggiare queste forze spaziali. Nel lungo periodo tali unità potranno dipendere da un dipartimento militare per lo spazio indipendente.
8) Al sottosegretario dell’Air Force viene affidata la direzione dello National Reoconnaisance Office (agenzia che si occupa di rilevazioni di vario tipo utilizzando satelliti in orbita) e delle acquisizioni spaziali.
9) Il segretario della difesa e il direttore della CIA devono dirigere i processi di ricerca e sviluppo rivolti alla creazione di nuovi metodi per la raccolta delle informazioni.
10) Aumentare le spese per il personale coinvolto nel programma spaziale per migliorarne l’organizzazione.
L’importanza della tecnologia spaziale per le guerre sulla terraferma è stata dimostrata quando gli U.S.A nel 2003 attaccarono l’Iraq, l’uso dei satelliti spaziali fu fondamentale. Nell’attacco iniziale il 70% delle armi utilizzate erano guidate sugli obiettivi dalla tecnologia spaziale.
Ma non ci sono solo gli Stati Uniti a essere dentro la competizione per il dominio dello spazio. Quando Bush, durante l’annuale settimana “Teniamo lo spazio per la pace” organizzata da Global Network, annunciò la “nuova” politica dello spazio, dando via libera al Pentagono perché sviluppasse armi spaziali offensive in grado di distruggere i satelliti delle altre nazioni. La Cina rispose l’11.07.2007 compiendo un test che portò nello spazio un proiettile portato da un missile balistico lanciato dalla base di Xichang nella Cina sudorientale che distrusse un vecchio satellite meteorologico cinese.[9] Ma già nel 2006 la Cina aveva provato un cannone laser antisatellite contro un satellite spia U.S.A.[10] La Cina è dal 2003 una potenza dello spazio quando è riuscita a portare con mezzi propri il primo cinese nello spazio con la missione Shenzou 5.
Il 18 aprile 2004 la Cina ha lanciato nello spazio il suo primo nano satellite il Naning 1. I nano satelliti hanno il vantaggio di essere difficilmente individuabili e quindi non possono essere colpiti facilmente dalle nuove armi antisatelliti. Essi sono molto importanti dal punto di vista militare.
In questa competizione spaziale si affaccia l’India.
L’india è il paese asiatico con il maggior numero di satelliti ambientali in orbita (7) e con la maggior quantità di satelliti per telecomunicazioni (11). L’uso è solo per l’agricoltura, la meteorologia, la sanità, l’educazione, ma anche militari (pensiamo al conflitto perenne con il Pakistan).
Nell’ottobre del 2008 l’India ha lanciato Chandrayaan 1, la sua prima sonda lunare.
Chandrayaan 1 appena giunto a destinazione ha lanciato una misonda appuntita che si è conficcata nel suolo lunare per studiarlo, mentre dall’orbita ha censito i minerali distribuiti nelle varie regioni. “Fra qualche decennio – aggiunge Madhavan Nair direttore del progetto – quando le colonie sulla Luna saranno realtà, l’India sarà partecipe dell’avventura”.[11] C’è da dire niente male come ambizione per un paese che ha problemi drammatici come 450 milioni dei suoi abitanti che vivono sotto la soglia della povertà.
La Luna deve interessare tanto visto che il Giappone nel settembre 2007 spedì il Kaguya e nell’ottobre dello stesso anno Pechino inviava Chang’-1.
Questa corsa verso la Luna è in atto da tempo. Nel gennaio 2004 Bush rilancia la NASA verso le sabbie seleniche dopo gli sbarchi di quarant’anni prima. E se Bush ha chiesto la costruzione di una colonia sulla Luna, la stessa aspirazione è coltivata non solo come abbiamo visto da New Delhi, ma anche da Pechino e da Tokio.
La Luna deve interessare davvero tanto, visto che nell’ottobre 2009 la NASA ha lanciato un missile nel polo sud della Luna.[12] Ufficialmente le motivazioni di quest’operazione sono la “ricerca di tracce di acqua”. Molto probabilmente, uno dei motivi di quest’affanno sulla Luna sono probabilmente le risorse naturali che ci sono nell’ostro satellite. Soprattutto l’Elio-3 di cui si ha bisogno per far funzionare i futuri reattori a fusione nucleare.
Nel frattempo la militarizzazione dello spazio procede celermente, nel giugno del 2010 è in orbita e transita regolarmente ogni 90 minuti sopra (guarda caso) l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan minishuttle senza piloti.[13] Si chiama X-37B, ed è guidato da un centro dell’Air Force in Colorado ed è dotato di sensori molto potenti e sensibili rispetto a quelli di un satellite normale. A scoprirne l’esistenza sono stati gruppi di osservatori spaziali che avevano cominciato a monitorare quella specie di stella luminosa capace di ruotare intorno alla Terra ogni 90 minuti, percorrendo l’orbita che passa, sopra l’Iran, il Pakistan e l’Afghanistan. Interpellato dal New York Times il Pentagono, si è limitato a confermare l’esistenza di X-37B, ma ha ufficialmente escluso che il minishuttle possa essere considerato in alcun modo una sorta di un nuovo armamento spaziale.
Gli Stati Uniti stanno formano “partnership” spaziali con altri paesi come il Canada, l’Italia, il Giappone, l’Inghilterra, Israele e attirare la loro industria aerospaziale in questi costosissimi progetti per spostare la corsa degli armamenti nello spazio.
L’esplorazione dello Spazio è stata e lo è tuttora un fattore di sviluppo delle forze produttive. Ma tale sviluppo non si deve vedere soltanto nelle macchine spedite nello spazio (né tantomeno nella pattuglia degli “eroi” che rischiano la pelle), ma piuttosto nell’organizzazione molto centralizzata e nello stesso tempo distribuita in tutto il tessuto produttivo che lega tra di loro centinaia di migliaia di uomini, i quali sono coinvolti nel massimo in un processo di socializzazione del lavoro portato al massimo. Centinaia di migliaia di persone che hanno concentrato i loro sforzi sincronizzati in modo tale che macchine inizialmente rozze e imperfette sono state in grado di estendere i sensi umani oltre i confini del sistema solare. Il telescopio Hubble ha esteso il senso della vita ancor più in là, fino ai confini dell’universo conosciuto.
Questa socializzazione delle forze produttive si sviluppa nell’ambito dei rapporti di produzione capitalisti. Sviluppo in cui la classe dominante, la borghesia, non è più una classe in ascesa ma decadente.
Questa decadenza storica non comporta necessariamente una decadenza del pensiero scientifico, se per scienza s’intende un sistema coerente di nozioni che permette di nozioni che permette di conoscere e modificare la natura. Il problema nasce dal fatto che la borghesia si accaparra e asservisce le migliori forze intellettuali (tra i quali gli scienziati).
La rivoluzione negli affari militari.
Revolution of Military Affairs Information (RMA-Iwar) è il termine che definisce il complesso che starà alla base delle strategie militari U.S.A.
L’impressione che si ricava è che la RMA parta non tanto da tecnologie date quanto dalla mutata situazione politica che induce gli strateghi a fornire un preciso indirizzo alla ricerca tecno-scientifica, seguendo il seguente schema: mutate condizioni politiche, geopolitiche e strategiche —-> Rivoluzione negli affari militari —–> sviluppo nuove tecnologie necessarie a supportare la RMA.
Una conferma di questo schema è che la realizzazione della RMA e quindi, concretamente, della ristrutturazione delle Forze Armate è fissata nel medio – lungo periodo (2010-2025) e che molte tecnologie indicate sembrano uscite da un libro di fantascienza. Dico fantascienza, quando è certo che in qualche laboratorio blindato qualche scienziato sta già sviluppando piani di ricerca in tal senso.
Nella tabella qua sotto la RMA – Iwar è suddivisa in obiettivi e nei due stadi (2010 – 2020) necessari che dovrebbero servire per raggiungerli, attraverso specifiche tecnologie e dottrine.
OBIETTIVI |
1° STADIO (entro 2010) |
2° STADIO (entro 2025) |
Ridurre rischio di perdite e danni collaterali mediante: |
Piattaforme “Stand-Off”. Dominio dell’informazione. Spazio, satelliti. Difesa Anti-Missile. |
Robotica. Armi non letali. Psicotecnologie. Difesa cibernetica. |
Applicare gli sforzi su: |
Centro di gravità |
Sistemi interconnessi. |
Ottimizzare il coordinamento delle operazioni attraverso: |
Miglioramento sistemi C3I. Tecnologia spaziale. Impiego di computer e GPS Digitalizzazione del campo di battaglia. Uso di armi “intelligenti”. |
Microtecnologia. Nanotecnologia Sistemi “brillanti”.
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Nuovi modelli organizzativi centrati su: |
Task Force. Combined Joint Task Force. Coalizioni ad hoc |
Struttura uni-Forza Armata. Iperflessibilità. |
Per decifrare la tabella è necessario fornire una piccola legenda dei principali termini impiegati:
1) Sistemi Stand-Off: sono i sistemi d’arma che possono essere lanciati da postazioni navali terrestri e da aerei a grande distanza dall’obiettivo e quindi tendenzialmente irraggiungibili dal fuoco nemico. Ne sono un esempio i missili balistici, i Cruise, i missili aria –terra con autoguida sullo’obiettivo.
2) Piscotecnologia: è la tecnologia che emula, estende ed amplifica le funzioni senso-motorie, psicologiche e cognitive della mente. In campo militare le psicotecnologie dovrebbero consentire ai comandanti di manipolare oltre che le percezioni ed il credo dei propri soldati, anche quelle dell’avversario e dei media televisivi.
3) Difesa Cibernetica: la ciberwar si prefigge due obiettivi. Il primo consiste nel paralizzare il ciclo decisionale dell’avversario, mentre il secondo punta a sottomettere l’avversario senza combattere, mediante operazioni letali e non letali che possono comprendere il blocco di:
1) Sistemi informativi.
2) Reti informatiche.
3) Borsa, sistemi bancari e delle telecomunicazioni.
4) Trasporti di superficie e del controllo del traffico aereo.
5) Produzione e distribuzione di energia.
Nel giugno del 2010 il Pentagono ha formalmente nominato il suo primo cyber-generale della sua storia: il generale a quattro stelle Keith Alexander è stato nominato del Cyber Comand, il comando che ha lo specifico compito di combattere sulle reti informatiche. La nomina di Alexander segue l’assegnazione da parte del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di 30.000 uomini aggiuntivi ai cosiddetti “fronti della guerra informatica”. In totale sotto il Cyber Comand operano 90.000 uomini. Questa divisione cibernetica cominciata sotto Bush si è rafforzata sotto Obama.
4) Centro di gravità: è la caratteristica capacità o la località dalla quale il nemico o le forze amiche traggono la loro libertà di azione, la forza fisica di azione o la volontà ci combattere. Il centro di gravità quando attaccato ed eliminato, porta alla sconfitta del nemico oppure alla ricerca della pace attraverso negoziati. I centri di gravità possono essere: la massa delle forze nemiche, la sua struttura di comando e controllo, il consenso dell’opinione pubblica, la volontà, la leadership, la struttura della coalizione. Con l’avvento delle reti informatiche e dei sistemi neurali artificiali, il concetto dei centro di gravità verrà sostituito dai cosiddetti sistemi interconnessi.
5) Sistemi interconnessi: si fondano sulle reti informatiche e dovrebbero garantire la sopravivenza della rete stessa in quanto i nodi sono distanti tra loro e sfruttano un’autonoma capacità di riconfigurare il sistema.
6) Nanotecnologie: tecnologia di miniaturizzazione.
7) Sistemi brillanti: sono l’evoluzione dei sistemi d’arma intelligenti, mediante l’implementazione delle nanotecnologie, dei sistemi esperti e delle reti neurali.
8) Reti Neurali Artificiali: sono una nuova generazione della tecnologia dell’intelligenza artificiale che tende a emulare la fisiologia del cervello umano basato sulla connessione di neuroni biologici. Una Rete Neurale Artificiale è formata da un certo numero di nodi computerizzati collegati in una rete mediante interconnessioni (detti anche neurodi).
Inoltre, entro il 2025, con il secondo stadio della RMA, è previsto lo sviluppo di altri due tipi di guerra (che non sono indicati direttamente nella tabella): la Guerra Meteorologica e Guerra Genomica.
1) La Guerra Meteorologica prevede l’utilizzo di prodotti chimici per provoca, in campo avversario, forti piogge e inondazioni. In tali casi l’avversario è impossibilitato a condurre qualsiasi tipi di operazione militare.[14]
2) La Guerra Genomica è una guerra condotta nel campo della genetica. Si tratta di individuare, nella mappa dei geni (DNA) di un popolo/etnia, i punti deboli da attaccare mediante virus e batteri, frutto di biotecnologie. Gli effetti, che comprendono influenza, diarrea, infezioni e altro, potrebbero colpire certi determinati popoli/etnie.[15]
spese militari e debolezza economica degli stati uniti
Tutto questo non deve fare credere a una sorta d’onnipotenza dell’imperialismo U.S.A., quando tutto questo in realtà nasconde una profonda debolezza a livello economico degli U.S.A. nei confronti degli altri paesi imperialisti.
Un chiaro esempio della decadenza economica U.S.A. è il dollaro che è in continua picchiata. Quando nacque la moneta europea, occorrevano 0,85 dollari per acquistare un euro. Oggi ne occorrono 1,32. Il destino della moneta americana appare dunque incerto: alle difficoltà interne degli U.S.A si aggiungono le prese di posizioni di vari paesi, specie quelli produttori di petrolio, che variano le proprie riserve valutarie. Il declino dei valori immobiliari americani (-24% in un anno) dà il colpo di grazia, poiché la massa delle costruzioni serve da garanzia per prestiti e mutui in un paese indelicatissimo. E questo peggiora le cose: con il dollaro svalutato, gli indebitati americani pagano già ben caro quello che importano, mentre gli europei riescono a pagare le forti importazioni di petrolio e gas. La Cina incomincia ad avere problemi a mantenere troppi dollari svalutati nelle proprie riserve, ma non può venderli per non provocare un terremoto monetario mondiale, con la diversificazione delle monete di conto altrui a favore dell’Euro, i paesi imperialisti europei non soffrono particolarmente per le loro esportazioni, m sono certo tentati di disfarsi delle riserve in dollari. Per evitare un possibile disastro monetario mondiale c’è chi propone una moneta continentale americana da contrapporre all’Euro, basata sull’area d’interscambio fra U.S.A., Canada e Messico (NAFTA).
Un altro esempio delle difficoltà economiche U.S.A. sta nella bilancia commerciale che non ha buona salute, esempio: nel 2001 il 61% delle automobili negli Stati Uniti veniva dall’estero, come il 65% delle macchine per taglio dei metalli (Guerra S.p.A., Seymour Melman, 2006).
È errato sostenere (come fanno i riformisti vecchi e nuovi) che l’attività economica complessiva era negli ‘anni ’80 e ’90 stata abbandonata alla libera iniziativa di tanti singoli individui. Al contrario la sua direzione è stata sempre più concentrata nelle mani di un ristretto numero di capitalisti. Con il passaggio del capitale finanziario a ruolo guida del processo economico capitalista, la cosiddetta “globalizzazione”, la finanziarizzazione, la speculazione, ha permesso alla borghesia di ritardare il collasso dell’economia. Con l’estorsione del plusvalore estorto ai lavoratori o con le plusvalenze delle compravendite, dei titoli, i capitalisti hanno soddisfatto il loro bisogno di valorizzare il loro capitale e accumulare. I bassi salari dei proletari (in tutti i paesi imperialisti, il monte salari è stato una percentuale decrescente del P.I.L.) sono stati in una certa misura compensati dal credito: grazie a ciò il potere di acquisto delle famiglie è stato tenuto elevato, milioni di famiglie si sono indebitati, le imprese sono riuscite a vendere le merci prodotte e hanno investito tenendo alta la domanda.
Nel 2001 le autorità U.S.A. favorirono l’accesso facile al credito a milioni d’individui, in particolare per l’acquisto di case come abitazione principale o come seconda casa. Tra il gennaio 2001 e il giugno 2003 la Banca Centrale U.S.A. (FED) ridusse il tasso di sconto dal 6,5% all’1%. Su questa base le banche concedevano prestiti per costruire case con ipoteca sulle case (senza bisogno di disporre già una certa somma né di avere un reddito a garanzia del credito). I tassi d’interesse calanti garantivano la crescita del prezzo delle case. Ad esempio che investiva denaro comprando case da affittare, il prezzo delle case era conveniente finché la rata da pagare per il prestito restava inferiore all’affitto. Il prezzo cui era possibile vendere le case quindi saliva man mano che diminuiva il tasso d’interesse praticato dalla FED. La crescita del prezzo corrente delle case non copriva le ipoteche, ma consentiva di coprire i nuovi prestiti. Il potere d’acquisto della popolazione U.S.A. era così gonfiato con l’indebitamento delle case.
Ma quando la FED, per far fronte al declino dell’imperialismo U.S.A nel sistema finanziario mondiale nel 2007 riporta il tasso di sconto al 5,2% fa scoppiare la bolla nel settore edilizio statunitense e causa il collasso delle banche che avevano investito facendo prestiti ipotecari di cui i beneficiari non pagavano più le rate. Questo a sua volta ha causato il collasso delle istituzioni finanziarie che avevano investito in titoli derivati dai prestiti ipotecari che nessuno comparava più, perché gli alti tassi d’interessi promessi non potevano arrivare più. Tutto questo, alla fine, provocò il collasso del credito, la riduzione della liquidità e del potere di acquisto. Diminuzione degli investimenti e del consumo determina il collasso delle attività produttrici di merci.
Se si guarda il percorso storico della crisi, dagli anni ’80, si nota che le attività produttrici stavano in piedi grazie a investimenti e consumi determinati dalle attività finanziarie. Quando queste collassano, anche le attività produttrici crollano.
Ora torniamo alle spese militari. La spesa militare degli Stati Uniti fa ovviamente parte del complesso delle spese sostenute dell’amministrazione pubblica, che, a differenza di un tempo quando la potenza militare statunitense quasi inesistente, è per la maggior parte responsabilità del governo centrale ossia federale e solo per la minor parte delle amministrazioni locali (Stati, Contee, Municipi).
Lasciando da parte il periodo della seconda guerra mondiale, la spesa pubblica complessiva relativa (vale a dire in rapporto al Pil) tende ad aumentare dall’epoca della depressione fino all’inizio degli anni ’80 (un picco del 36.5% è toccato nel 1983), resta quasi costante fino al 1992, quindi diminuisce abbastanza celermente durante gli anni dell’amministrazione Clinton scendendo al 32.5% del 2000 per risalire in seguito con l’amministrazione Bush.
Il punto di svolta è all’inizio degli anni ’80, quando la spesa per servizi diventa il motore di tutta la spesa militare, e, il supporto al personale, rubrica che comprende il vero e proprio nucleo della privatizzazione delle guerre e il cui boom diviene impressionante dal 2000 in poi, diventa il motore della spesa per servizi. Lo spazio per accrescere la spesa per l’acquisizione di servizi in generale e per quella dei servizi di supporto in particolare è ricavato sacrificando tutto il resto ossia riducendo l’esborso complessivo in salari e lo stock netto di capitale fisso del dipartimento della difesa, capitale fisso che consta naturalmente di Equipaggiamento composto di Aerei, Navi, Missili, Veicoli, Elettronica e Altro Equipaggiamento, e Strutture, fatte di Edifici Residenziali e Industriali e di Installazioni Militari.
Alcune osservazioni conclusive
In sostanza più aumenta la crisi e più lo stato imperialista dominante (gli USA) diventa aggressivo per cercare di mantenere la sua supremazia- militare in funzione dei profitti della sua borghesia, più aumentano le tensioni tra i paesi imperialisti concorrenti per assicurarsi quote di profitto sui mercati mondiali e più la guerra commerciale tra gli imperialisti concorrenti tende a trasformarsi in una nuova guerra interimperialista per la spartizione dei mercati mondiali.
La guerra rappresenta una valvola di sfogo per le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, poiché essa distrugge i mezzi di produzione (macchinari, uomini e valori capitale) eccedenti e, quindi con tali distruzioni spera di aprire la strada a un nuovo periodo di accumulazione capitalistica.
Ma la spesa per gli armamenti in realtà rappresenta un pesante zavorra per l’economia di ogni potenza.
Il lavoro vivo e i mezzi di produzione impiegati nella produzione di armamenti non sono produttivi, o meglio sono delle forze produttive sterilizzate. Solo la scienza e le tecniche di produzione sviluppate in questo settore, nella misura in cui dopo la produzione sono applicate per la creazione di beni produttivi, si possono definire delle effettive forze produttive.
La produzione di un cannone non implica per il capitale solo la perdita del lavoro che esso contiene; avviene soprattutto una sterilizzazione di questo lavoro; un arresto del processo di auto valorizzazione permanente del capitale. Il lavoro che, dopo un lungo processo, si cristallizza in un tale bene blocca il processo definitivamente. Oltre la semplice perdita del lavoro passato, il capitale sopporta il peso della paralisi del proprio processo produttivo.
Dunque “lo stimolo militare” non assicura l’eternità dell’espansione capitalistica. Come sbocco, esso non può essere che uno stimolo accessorio (in periodo di ricostruzione per esempio) e, in ogni caso, i suoi effetti sono di durata limita.
Più la parte di profitto è trasformata in armi, più breve è la durata degli effetti stimolanti di questo sbocco, più la questione della loro redditività si pone con forza. Più questa soluzione tarda, più il peso immenso del carico improduttivo si esercita sull’economia nazionale: inflazione, perdita di competitività dei prodotti nazionali sui mercati internazionali (poiché i costi dei prodotti includono sempre di più le spese militari).
È per questo motivo che ha partire degli anni ’70 il governo statunitense insisteva costantemente sui suoi alleati europei a provvedere da soli alla propria difesa militare.
Ma allora perché, malgrado questi inconvenienti tutte le nazioni del mondo e in primo luogo le grandi potenze, consacrano una parte così ingente delle proprie capacità a questo tipo di prodotti?
Prima di tutto bisogna partire dal fatto che la produzione militare riguarda tutti i settori dell’industria, anche se preferisce i settori di punta.
Ma principalmente bisogna tenere conto che il capitalismo produce merci. In primo luogo quello che interessa della merce è il suo valore di scambio, la sua contropartita monetaria. Ma ciò non gli permette di non tener conto della necessità del suo sostegno: il valore d’uso. Un bene che non possiede un valore d’uso che non corrisponda cioè a un bisogno sociale qualunque esso sia, è tutto tranne che una merce. L’acquirente degli armamenti, lo Stato borghese, come qualsiasi capitalista, resta prigioniero della legge del valore: egli non può acquistare che ciò che corrisponde effettivamente a un bisogno reale.
Questo sviluppo dell’industria militare è stranamente legato all’inasprimento degli antagonismi interimperialisti. In un mondo diviso tra potenze imperialiste, la forza militare di ogni nazione si trasforma in un utensile indispensabile per la propria sopravvivenza.
Nell’attuale fase della contesa globale tra le varie potenze imperialiste che ha come posta in gioco una nuova divisione del mondo. Un segno concreto delle contraddizioni interimperialiste in atto, è stato nel 2003 quando gli U.S.A. sono stati costretti a condurre la guerra contro l’Iraq in pratica da soli, con l’ausilio di un ristrettissimo numero di alleati (Gran Bretagna, Israele, Polonia, Italia).
Davanti alla tendenza alla guerra imperialista da parte dell’imperialismo dominante, compito dei comunisti in un paese imperialista come l’Italia non è certo quello di propagandare pacifismo e non violenza, oppure accodarsi ad imperialismi rivali agli U.S.A (Francia, Germania, Giappone, Russia o Cina) o peggio al proprio imperialismo, ma dichiarare guerra alla guerra, alle sirene nazionaliste rispondere con l’internazionalismo proletario.
O la rivoluzione fermerà la guerra,
o la guerra farà sorgere la rivoluzione.
Mao Tse-Tung
[1] Negli Stati Uniti tra il 1936 e il 1937 ci furono oltre mille occupazioni di fabbrica con la partecipazione di mezzo milione di operai e 6912 scioperi che coinvolsero 1.861.000 operai.
[2] Tutte le maggiori aziende tedesche durante la seconda guerra mondiale approfittarono della manodopera dei campi di concentramento per ridurre i costi di produzione. Ad esempio la I.G. Farben impiantò ad Auschwitz una fabbrica di gomma sintetica. Secondo la storica Anni Lacroix Riz dai 12 ai 14 milioni di lavoratori stranieri in gran parte ebrei e prigionieri di guerra sono stati utilizzati dalle aziende tedesche durante il secondo conflitto mondiale.
[3] La lievitazione artificiale dei prezzi delle industrie produttrici di macchine utensili ha fatto altro in realtà, che aggravare una situazione dipendente dalla più elevata composizione organica del capitale americano e dalla conseguente minore competitività delle merci rispetto ai concorrenti europei e giapponesi.
[4] Si è visto cosa è successo nell’estate del 2000, quando il greggio ha raggiunto i 37 dollari al barile, ci furono delle proteste in tutta Europa dalla Spagna alla Scandinavia con blocchi dei porti (Barcellona), scioperi dei camionisti, dei pescatori ecc.
[5] A metà del 1998 in una sola note sulla città irachena furono scagliati dalle navi i americane 280 missili Tomahawk, tanti quanto quelli lanciati nella prima guerra del Golfo.
[6] Diceva Marx “Diminuzione del saggio di profitto e accumulazione del capitale sono semplicemente diverse manifestazioni di uno stesso processo: ambedue sono manifestazioni dell’aumento della produzione del lavoro” (Il Capitale, Volume I°, Cap.22).
[7] Pietro Gianvanni, Il Bilancio 2001 del Pentagono, Panorama Difesa, maggio 2000.
[14] Per quanto riguarda la Guerra Meteorologica, vedere l’articolo di Michel Chossuvsky, Guerre Climatiche: Haarp High Frequency Aural Research Program, su www.intermarx.com/ossinter/clima.html.
[15] Molto probabilmente questo progetto è la continuazione delle ricerche che negli anni ’80 del XX secolo, il governo sudafricano (quello dell’apartheid) effettuò. Questo programma di guerra biologica, chiamato Project Coast, aveva l’obiettivo di metter a punto un’arma genetica mirata a colpire la popolazione nera. Stesse ricerche in questo campo, sono state effettuate anche da Israele.